Ecco.
Adesso.
Insomma.
Non sarebbe proprio mia intenzione scrivere l’ennesimo “cahier de doleance” ad elencare i difetti patri, le magagne nazionali più minuziose e nascoste. L’auto-denigrarsi è sport italico fra i più praticati, non si sentirebbe dunque il bisogno così impellente di una voce in aggiunta al coro già ben nutrito di cantori.
Diciamo allora che scriverò di sottili osservazioni circa alcune mutazioni linguistiche molto minimali, quasi impercettibili, che tuttavia rappresentano sempre il sintomo di un clima culturale in divenire. I cambiamenti del linguaggio non sono “quasi mai” limitati a semplici variazioni sillabiche o verbali di superficie. Sotto sotto, nelle profondità più insospettate, ci cova sempre un modo di essere in evoluzione, atteggiamenti e stati mentali che rinnovano la loro pelliccia, come bestiole dinnanzi alla nuova stagione incipiente.
Ho scritto “quasi mai”, perché si verificano anche casi in cui la metamorfosi linguistica viene più o meno consapevolmente ed artificialmente indotta con la pretesa di far apparir mutata una realtà che nella sostanza rimane immota.
Una definizione appropriata di questo fenomeno potrebbe essere “sindrome della camicia di Totò”.
Non ricordo bene in quale film il grande giullare partenopeo proponeva questa gag, magari in più di uno. In queste occasioni, il Principe De Curtis si presentava perfettamente agghindato con un vestito nero, e solo dopo alcune scene si scopriva che la sua camicia era in realtà composta solamente di polsini, colletto e una “padella” frontale nella zona dei bottoni, ma tutto il resto dell’indumento, quello coperto dalla giacca, mancava completamente.
Lo stesso accade con queste artificiose modifiche del linguaggio: sono sempre l’avvisaglia superficiale di uno “straccionismo” effettivo depositato nel profondo, di una pretenziosità balorda, di un voler far credere ciò che non è.
Ma veniamo al dunque. Focalizzerò l’attenzione su due “permute articolari” venute in essere da alcuni anni a questa parte. Più precisamente si tratta di una bizzarra “trasformazione di genere” in un caso, e di una “misteriosa” sparizione di articoli nell’altro caso.
«…“Il” tv…».
Se c’è un’espressione che linguisticamente mi fa venire il latte ai gomiti è proprio questa: «…“il” tv…». Da quando sono nato ne ho sempre sentito parlare come «…“la” tv…», e mi sembrava naturale: la televisione è femminile, dai. D’accordo, «…“il” tv…» si potrebbe intendere anche come espressione sintetica che sta per «…“il” televisore…», ma questa tesi mi convince poco.
«…“La” tv…» è sempre stata «…“la” tv…», perché minchia pretendereste adesso di privarla della sua vezzosa femminilità?
L’«articolazione» dell’apparecchio televisivo al femminile («…“la” tv…») reca con sé un sapore di casa, introduce ad un senso di accoglienza, di calore domestico, di malia sensuosa. Da che mondo è mondo, il ruolo della seduzione magnetica è sempre stato prerogativa femminea. Se ci badate un attimo, le sirene, la ninfa Calipso, la maga Circe, Omero mica le pensò come nerboruti, spigolosi ed irsuti zappaterra del Peloponneso, bensì come graziose e curvilinee donzelle.
Non è un caso, o almeno così mi pare, nemmeno il fatto che i più convinti fomentatori di questa “mascolizzazione” degli apparecchi televisivi, siano proprio i rivenditori dei medesimi o anche i negozianti di arredi et similia. La pretesa di rendere “maschia” la tv nasconde il desiderio, forse inconsapevole forse no, di caricare questo “elettrodomestico” di una rinnovata aggressività. Lo si vuole connotare di uno spirito competitivo bislacco e mal riposto, ritenendo stoltamente superate la sua antica gentilezza femminile e la rosea grazia, che invece le si connaturavano così a pennello.
Un’altra “sgangheratezza” linguistica degli ultimi tempi riguarda, come dicevo, un enigmatico occultamento di articoli. Lo strano fenomeno si verifica quando si parla di società più o meno pubbliche, più o meno partecipate o semi-privatizzate, preposte ad offrire servizi fondamentali d’interesse collettivo. Per non fare torto a nessuna di esse, m’inventerò sigle e nomi fittizie, ma ci siamo intesi circa l’oggetto del mio favellare.
Queste società recano come nome quasi sempre una sigla, un acronimo. Mettiamo che si chiamino Butil, Rifol, Gevos. Sono società, per cui ne abbiamo sempre parlato al femminile: la Butil, la Rifol, la Gevos, sempre per usare i nostri nomi fittizi. Da un certo momento in poi, però, ha cominciato a svanire l’articolo: “…scalata in borsa per la maggioranza di Butil…”, “…Gevos apre ai privati per una gestione condivisa…”, e così via.
Anche qui, non a caso, la tendenza si è manifestata soprattutto fra gli “addetti ai lavori”. La decurtazione d’articolo è stata agevolata in particolare da giornalisti, economisti e politici, ma la gente comune ha sempre continuato a dire, giustamente: «…sei andato a pagare la bolletta della Gevos?...», «…sì che ci sono andato, mannaggia a la Gevos e a li mortacci sua!...».
La privazione dell’articolo in questo caso mira (sempre più o meno consciamente, o volutamente) ad “antropomorfizzare” queste società, a tramutarle, da oggetti quali sono, in soggetti, facendo passare la sotterranea idea di una loro rinnovata dignità, magari a seguito del colpo di bacchetta magica sburocratizzante di un riassetto societario. Sono divenute più “friendly”, più “easy”, più attente alla “customer care”: «…Che bocca friendly che hai, nonna società partecipata…», «…è per intortarti meglio, figliolo mio…».
Insomma, cari amici viandanti per pensieri, datemi pure del paranoico linguistico, ma il fatto è che ci rimarrei parecchio male se fra qualche tempo si cominciassero a sentire in giro dialoghi del tipo: «…Dove hai messo il gorgonzola, cara?…», «…Uhm, non ricordo caro, prova a guardare dentro "a" frigorifero…».
Adesso.
Insomma.
Non sarebbe proprio mia intenzione scrivere l’ennesimo “cahier de doleance” ad elencare i difetti patri, le magagne nazionali più minuziose e nascoste. L’auto-denigrarsi è sport italico fra i più praticati, non si sentirebbe dunque il bisogno così impellente di una voce in aggiunta al coro già ben nutrito di cantori.
Diciamo allora che scriverò di sottili osservazioni circa alcune mutazioni linguistiche molto minimali, quasi impercettibili, che tuttavia rappresentano sempre il sintomo di un clima culturale in divenire. I cambiamenti del linguaggio non sono “quasi mai” limitati a semplici variazioni sillabiche o verbali di superficie. Sotto sotto, nelle profondità più insospettate, ci cova sempre un modo di essere in evoluzione, atteggiamenti e stati mentali che rinnovano la loro pelliccia, come bestiole dinnanzi alla nuova stagione incipiente.
Ho scritto “quasi mai”, perché si verificano anche casi in cui la metamorfosi linguistica viene più o meno consapevolmente ed artificialmente indotta con la pretesa di far apparir mutata una realtà che nella sostanza rimane immota.
Una definizione appropriata di questo fenomeno potrebbe essere “sindrome della camicia di Totò”.
Non ricordo bene in quale film il grande giullare partenopeo proponeva questa gag, magari in più di uno. In queste occasioni, il Principe De Curtis si presentava perfettamente agghindato con un vestito nero, e solo dopo alcune scene si scopriva che la sua camicia era in realtà composta solamente di polsini, colletto e una “padella” frontale nella zona dei bottoni, ma tutto il resto dell’indumento, quello coperto dalla giacca, mancava completamente.
Lo stesso accade con queste artificiose modifiche del linguaggio: sono sempre l’avvisaglia superficiale di uno “straccionismo” effettivo depositato nel profondo, di una pretenziosità balorda, di un voler far credere ciò che non è.
Ma veniamo al dunque. Focalizzerò l’attenzione su due “permute articolari” venute in essere da alcuni anni a questa parte. Più precisamente si tratta di una bizzarra “trasformazione di genere” in un caso, e di una “misteriosa” sparizione di articoli nell’altro caso.
«…“Il” tv…».
Se c’è un’espressione che linguisticamente mi fa venire il latte ai gomiti è proprio questa: «…“il” tv…». Da quando sono nato ne ho sempre sentito parlare come «…“la” tv…», e mi sembrava naturale: la televisione è femminile, dai. D’accordo, «…“il” tv…» si potrebbe intendere anche come espressione sintetica che sta per «…“il” televisore…», ma questa tesi mi convince poco.
«…“La” tv…» è sempre stata «…“la” tv…», perché minchia pretendereste adesso di privarla della sua vezzosa femminilità?
L’«articolazione» dell’apparecchio televisivo al femminile («…“la” tv…») reca con sé un sapore di casa, introduce ad un senso di accoglienza, di calore domestico, di malia sensuosa. Da che mondo è mondo, il ruolo della seduzione magnetica è sempre stato prerogativa femminea. Se ci badate un attimo, le sirene, la ninfa Calipso, la maga Circe, Omero mica le pensò come nerboruti, spigolosi ed irsuti zappaterra del Peloponneso, bensì come graziose e curvilinee donzelle.
Non è un caso, o almeno così mi pare, nemmeno il fatto che i più convinti fomentatori di questa “mascolizzazione” degli apparecchi televisivi, siano proprio i rivenditori dei medesimi o anche i negozianti di arredi et similia. La pretesa di rendere “maschia” la tv nasconde il desiderio, forse inconsapevole forse no, di caricare questo “elettrodomestico” di una rinnovata aggressività. Lo si vuole connotare di uno spirito competitivo bislacco e mal riposto, ritenendo stoltamente superate la sua antica gentilezza femminile e la rosea grazia, che invece le si connaturavano così a pennello.
Un’altra “sgangheratezza” linguistica degli ultimi tempi riguarda, come dicevo, un enigmatico occultamento di articoli. Lo strano fenomeno si verifica quando si parla di società più o meno pubbliche, più o meno partecipate o semi-privatizzate, preposte ad offrire servizi fondamentali d’interesse collettivo. Per non fare torto a nessuna di esse, m’inventerò sigle e nomi fittizie, ma ci siamo intesi circa l’oggetto del mio favellare.
Queste società recano come nome quasi sempre una sigla, un acronimo. Mettiamo che si chiamino Butil, Rifol, Gevos. Sono società, per cui ne abbiamo sempre parlato al femminile: la Butil, la Rifol, la Gevos, sempre per usare i nostri nomi fittizi. Da un certo momento in poi, però, ha cominciato a svanire l’articolo: “…scalata in borsa per la maggioranza di Butil…”, “…Gevos apre ai privati per una gestione condivisa…”, e così via.
Anche qui, non a caso, la tendenza si è manifestata soprattutto fra gli “addetti ai lavori”. La decurtazione d’articolo è stata agevolata in particolare da giornalisti, economisti e politici, ma la gente comune ha sempre continuato a dire, giustamente: «…sei andato a pagare la bolletta della Gevos?...», «…sì che ci sono andato, mannaggia a la Gevos e a li mortacci sua!...».
La privazione dell’articolo in questo caso mira (sempre più o meno consciamente, o volutamente) ad “antropomorfizzare” queste società, a tramutarle, da oggetti quali sono, in soggetti, facendo passare la sotterranea idea di una loro rinnovata dignità, magari a seguito del colpo di bacchetta magica sburocratizzante di un riassetto societario. Sono divenute più “friendly”, più “easy”, più attente alla “customer care”: «…Che bocca friendly che hai, nonna società partecipata…», «…è per intortarti meglio, figliolo mio…».
Insomma, cari amici viandanti per pensieri, datemi pure del paranoico linguistico, ma il fatto è che ci rimarrei parecchio male se fra qualche tempo si cominciassero a sentire in giro dialoghi del tipo: «…Dove hai messo il gorgonzola, cara?…», «…Uhm, non ricordo caro, prova a guardare dentro "a" frigorifero…».
6 commenti:
Dalle mie parti è "la" gorgonzola. Anzi, "la gurgu".
è vero, caro Gilli è proprio così! Probabilmente soggettizzando le varie società si cerca di condizionare gli investitori a comprendere gli sbalzi di prezzo al rialzo come fossero sbalzi di umore o di alta pressione arteriosa.
In questo modo per loro sono garantiti i profitti stabili, comunque io avrei detto "la gorgonzola"
p.s. ho 38 e mezzo di febbre ma sono riuscita a votare lo stesso prima di mezzogiorno.
Questa situazione di imbambolamento quasi, quasi mi piace! Bacini contagiosi!
unque sul tv ho una teoria: davanti al medesimo ci passa molto tempo il maschio-stile-simpson, forse maschilizzando l'oggetto lo sento più prossimo... oppure sono le mogli degli uomini simpson-style che si confondono tra marito ed il medesimo...
per le sigle societarie invece mi sa che è solo colpa dello spazio per i titoli sui giornali :-)
bacini filologici
@->Rosalucs: in realtà non ci avevo fatto tanto caso all'articolo della gorgo, cara Rose :-) perchè mi ero focalizzato sulla rpivazione d'articolo del frigorifero :-)
Qui ho usato la dizione ufficiale in italiano, ma pensa che anche io in dialetto la chiamo la "gurgunzola", con la zeta di Gonzales :-)
Dirò di più :-) da piccolo, un po' per errore un po' perchè mi piaceva, la chiamavo "gongorzola" :-) che alla fine, il diminutivo diventava la "gongo" :-) era molto più simpatico, secondo me, ed infatti rimasi parecchio deluso quando appurai che si diceva irrimediabilmente "gorgo"nzola :-)
Bacini gongoetimologici :-)
@->Marisa: brava Mari :-) il tuo voto febbricitante ha portato fortuna :-) però adesso riguardati :-)
Riguardo la questione delle società, non so di preciso...non è che ci sia un automatismo stretto fra il togliere loro l'articolo ed il fregare meglio la gente :-) ma i sospetti sono forti...alla fine la mia è solo una teoria un po' bislacca, uno spunto per riflettere sui valori del linguaggio e sulle loro influenze sulla vita, ma non c'è nulla di matematico :-)
Bacini di tutto quorum :-)
@->Farly: ecco, lo vedi Farly che il contributo della mezza chimera è sempre fondamentale? :-) A questa interpretazione simpsoniana non ci avevo pensato, e devo dire che calza proprio a pennello :-)
L'ipotesi della mogliettina che confonde marito e tv è assolutamente affascinante :-)
Riguardo alla disarticolazione delle società invece, credo che tu la sottovaluti :-)stai attennta mentre cammini per strada, che non ti ritrovi una partecipata in borsa che ti pedina insistentemente :-)
Bacini articolati :-)
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