mercoledì 30 settembre 2009

Cagninerie



Volevo oggi rinverdire la buona usanza dei “fraseggi sul nulla”, non prima però di aver fatto una doverosa premessa, attagliata in particolare alle misure della sensibilità di lettrice della mia cara amica Farly (nonché titolare della prima metà di “chimerismo” che ci assimila).
Il messaggio preventivo è codesto: quanto seguirà è gravemente inquinato da un circoscritto ma pesante e reiterato uso di diminutivi.
Si astengano quindi dalla lettura tutti coloro che durante l’infanzia hanno patito overdose di sketch di Topo Gigio e seri periodi di Provolinite, o perlomeno si muniscano dell’apposito vaccino, lo “Straccia-vezzeggio” (è disponibile anche il corrispondente farmaco generico “Diminut-avvile”, costa meno e contiene lo stesso principio attivo, l’«Esageròn»).

Parlerò dunque di un curioso “corollario” urbano.
A dire il vero, l’«urbanesimo» non è condizione strettamente necessaria per far sì che il fenomeno si manifesti. Lo si può osservare di frequente anche in ambienti paesan-provincial-campagnoli.
Ultimamente ho notato tuttavia che questo piccolo spicchio di quotidianità, una volta calato nel panorama cittadino, si amplifica, si autocompleta, assumendo sfumature di tenerezza più marcate.

Mi riferisco ai «cagnetti obesini».
Il diminutivo è consustanziale al concetto e quindi non posso esimermi dall’usarlo (porta pasiensa, Farly). Ma per tradurre il tutto in linguaggio corrente “non-gillipixico”, sappiate che sto parlando dei “piccoli cani obesi”.
Un po’ saprete ormai che l’essenza del mio essere propende di preferenza per l’esegesi felina. Il gatto è la mia bestiolina prediletta, il mio alter ego animale. Ma questo non impedisce che anche i «cagnetti obesini» riescano ad aprire una breccia non indifferente nel mio senso di stupore.
Non so se ci avete mai fatto caso, oppure se è tutta colpa della mia mente malata che sola sa soffermarsi su questi dettagli minimali, ma in ogni caso io credo che i «cagnetti obesini» apportino veramente una sottigliezza poetica non trascurabile a tutta la tavolozza dei colori cittadini.

I «cagnetti obesini» sono ad un tempo vittime e rei della propria condizione. Il mistero di questa ambivalenza sta tutto nel loro sguardo.
Tanto per ribadire le mie patologie mentali, credo che in natura difficilmente si possa ritrovare uno spettacolo simile (forse solo l’occhiata di un asinello sfiora tali vette, ma è diversa, magari un giorno ne scriverò).
Lo sguardo del «cagnetto obesino» è così denso di profondità, mestizia sconfinata, ma posata al contempo su insperati sottofondi di ottimismo canino, che alla fine si può quasi definire una sorta di umiltà fiera di se stessa.
Lo sguardo del «cagnetto obesino» (il suo concetto stesso) andrebbe depositato all’UNESCO come sostegno di riserva a tutti i patrimoni dell’umanità già catalogati. Mi vergogno sommamente e non vorrei dirlo, per la freddezza della battuta, ma si dovrebbe aprire una succursale apposita dell’UNESCO: la CAGNESCO (ahahahahahaha!!! Ehm…ahah…ah…ehr...basta…)
Quello sguardo sa parlare come una pagina stampata: non è colpa mia – dice – cosa fareste voi con una ciotola zeppa di cibarie assortite, sotto il naso 24 ore su 24?
C’è un qualcosa di umano nello sguardo del «cagnetto obesino». Umano troppo umano? Boh, forse. Obesino troppo obesino, di certo.
Tra la palpebra pigra e l’obesinità dell’umor vitreo, rifulge un fioco bagliore esistenziale acceso dal quotidiano confronto col tedium vitae causato dalla strenua lotta che deve sostenere con il livello stabile delle cibarie straripanti dalla sua ciotolina. E’ un lavoro duro, ma qualcuno lo deve pur fare - pensa rassegnato, dandoci giù di mandibola, l’eroico «cagnetto obesino».

(Inframmezzo la delirante narrazione con l’immagine di un personaggio fumettistico i cui occhi meglio sanno esprimere il nucleo estetico dello sguardo del «cagnetto obesino»: “Leone il cane fifone”).


Il nostro beniamino grassottello è anche fonte di taluni spunti di natura para-sociologica. All’estremità opposta di ogni guinzaglio di «cagnetto obesino», come un frutto maturo penzolante dal ramo, troviamo infatti puntualmente appeso il suo singolare padrone.
Il «cagnetto obesino» è una scultura d’affetto padronale modellato con calore nella vivezza piena della ciccia canina. Ogni piega della sua florida panzetta, ogni rotolino di pelo che gli inghirlanda la rigogliosa pappagorgia, equivale alla carezza levigante portata da un moto affettivo che il padrone non ha potuto altrimenti sfogare su altro oggetto animato o inanimato reperibile al mondo.
Il «cagnetto obesino» non è un semplice cane, è un piano pluriennale d’investimento affettivo a tasso fisso: il tasso di crocchette e bocconcini che marcano costantemente l’orlo estremo della ciotola e, per la proprietà dei vasi comunicanti, vanno di lì a rimpinzare il cagnetto medesimo.

Sulle ali di queste vaccate, tanto che ero nelle spese, ho immaginato un surreale dialogo uomo-cane.
Io che fermo per strada un «cagnetto obesino» (a quel punto stabilire quale sia l’uomo e quale il cane diventa dura, lo so, ma questo è un dettaglio). Gli sbandiero in faccia la foto di un lupo, dicendogli: «Sai che questo era tuo bisnonno?».
Lui mi annichilisce col meglio dello sguardo “obesino” che riesce a tirare su dal profondo della sua indole pingue.
Ripiega la zampetta a mo’ di cucchiaio, e picchiettandosi leggermente la fronte col polso sottile (il «cagnetto obesino» ha sempre le zampette esili), lo sguardo attonito rivolto al padrone, sbotta: «…Ma sa l’è, màt?!?!?».
«…No!...Il fatto è…che noi vilàààn…e noi vilàààn…e sempre alégri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco, all’imperatore, diventan tristi se noi piangiam…».

martedì 29 settembre 2009

Welcome sister sadness




Before I let you down again
I just want to see you in your eyes
I would have taken everything out on you
I only thought you could understand

They say everyman goes blind in his heart
And they say everybody steals somebodys heart away
And I got nothing more to say about it
Nothing more than you would me

Send me your flowers, of your december
Send me your dreams, of your candy wine
I got just one thing I cant give you
Just one more thing of mine

They say everyman goes blind in his heart
They say everybody steals somebodys heart away
And I've been wondering why you let me down
And I been taking it all for granted

domenica 27 settembre 2009

Hey ho, let's go!!!

Una volta (va beh, sarà stato qualche giorno fa...), in uno scambio di commenti con il buon Yossarian (un burbero dal cuore d'oro che sa veramente scrivere come Dio comanda: he really can write, guys, there's no madonns!...o per dirla in dolce-stilnovese: èi sa vergar per lo vero concetti su pergamena: non vi è Mandonna alcuna!), si parlava di gusti musicali...

Quello delle predilezioni estetiche personali, è sempre un campo di confronto spinoso.
A me mi piace quello, a te ti piace quell'altro...io parteggiavo per i miei beniamini sonori di sempre, i Beatles, ed incassavo di buon grado le prese per il culo di Yoss, che invece quei pongoni (trad.: grosse pantegane) dei baronetti di Liverpollo li sopporta a mala pena, essendo lui più della parrocchia del Grande Dirigibile (leggi Zeppelin), che riconosce invece altri 4 evangelisti: Jimmy Page, Robert Plant, John Paul Jones e John Bonham.

Il bello di queste discussioni è l'atmosfera da osteria che si riesce ad innescare. Come in una baruffa dialettica sul calcio, davanti ad una bottiglia di lambrusco, o in una sana bravata (trad.: litigata) al termine di una partita a briscola.
Io son dell'Inter, te sei della Juve, sémo d'un sémo, e va a dà via al cül...perchè non hai strozzato, "scantanàdar" (trad.: "smaliziatore di anitre"), che ero andato a liscio apposta?
Ma alla fine il bello è che ci si accorge di volersi più bene di prima.

E non ricordo di preciso come, ma ad un certo punto Yoss iniziò a parlare dei Ramones.
Quando una persona che stimo (e le cui idee condivido in grandissima parte), mi viene a parlare di un "fenomeno estetico" che io invece non riesco a cogliere appieno, invece di persistere su frusti toni da tifoso, mi viene molto più facilmente da rammaricarmi.
Mi spiace un sacco di non essere all'altezza, di non avere le "chiavi di sensibilità" necessarie per cogliere il bello che sicuramente è contenuto in quel "quantum" di materiale estetico. Perchè se lo dice una persona di cui mi fido, dev'essere così.

Ma questo lo dicevo solo per completezza del discorso generale, perchè i Ramones mi sono sempre stati simpatici (da nerd campagnolo quale sono, come potrebbe essere altrimenti?).
Solo che non li avevo mai approfonditi più di tanto. E insomma, grazie all'input di Yoss, mi sono poi accattato un doppio lp di quei mattacchioni dalle braghe stracce (un minicofanetto con dentro Ramones, il primo loro disco, e Rocket to Russia, il secondo) e devo dire che, anche se nel mio cuore di preferenza continuano a fiorire campi di fragole per sempre, sono contento di aver aggiunto al mio patrimonio estetico questo nuovo piccolo ingrediente prezioso.

Un osservatore sprovveduto potrà sentenziare superficialmente: sono solo quattro straccioni.
Ma è proprio qui che casca l'asino: la grandezza dei Ramones sta proprio nell'aver elevato ad un grado di dignità estetica superiore, la bruttezza e la sfiga stesse.
La loro genialità (chissà se voluta o no), a mio parere sta tutta lì.
Gustateveli in questa eccezionale versione dal vivo di "Blietzkreig bop".
Con tutto il rispetto per la complessità di altri ambiti dell'arte più consolidati e tradizionali, non saprei tovare paragone più calzante per le zompate di Dee-Dee Ramone in questo video, che i balzi aggrazziati di un Nureyev del rock.
Energia pura, non la sai dire altrimenti.
Grazia rock allo stato primordiale.

Insomma, per concludere: grazie Yoss per il tuo pungolo ramonesiano e cosa dire ancora?...Solamente: hey ho, let's go!!!




venerdì 25 settembre 2009

Il tritacarne telematico


Lo spamming è una gran seccatura. Come non essere d’accordo…
Tuttavia, un buon viandante per pensieri appassionato della parola e che per di più di tanto in tanto non disdegni di divertirsi con molto poco, potrà cogliere momenti di delizioso diletto anche da questa perniciosa e molesta pratica, usualmente subita con passiva e "scancherante" rassegnazione.
A volte si incappa in messaggi il cui testo, una volta idealmente trasposto sul piano delle arti visive, da un punto di vista linguistico è paragonabile ad un surreale collage buttato su da un cubista ubriaco utilizzando brandelli di dipinti di Boldini e Otto Dix, su cui abbia di seguito sgocciolato un Pollock uscito dal turno di notte all’Italsider, mentre Dalì e Francis Bacon provvedevano a sbocconcellarci sopra maionese e ketchup ingozzandosi con un Big Mac.
Con quali perle non si sono beate le mie pupille nel loro moto para-bustrofedico lungo le parole di un recente messaggio…
Vi riporto di seguito il testo con la fedeltà filologica di un archeologo intento a pulire col pennellino frammenti di una lingua post-avanguardistico-modernista, rinvenuti in un sacchetto della differenziata sotto casa di Leone di Lernia (vedi alla voce: “recchià de’ gggàumma - cccegghia de’ lllàupa”):

“…L'idea e semplice: un paziente nei bisogni di condizione di salute funesti di andare e vedere il dottore primo e poi portera il fornitore di assistenza sanitaria abbastanza del tempo di essere cominciato con la sua ricetta e poi quando lei lo prende finalmente insieme al conto dal suo dottore lei si smarra in quanto a cui fattura si deve pagare primo – l'una per la sua medicina o l'una dal suo dottore!

La spedizione internazionale la permette di ricevere il suo ordine non importa che e il suo recapito, e SSL Ha Codificato l'assegno fuori dalla pagina l'aiutera riposa assicurato che le sue informazioni di carta di credito non andranno svelato.

Ogni prodotto alla farmacia canadese e approvato dall'Associazione di Cibo e Bevanda (FDA)…”


Immagino la scena.
Scantinato di un mastodontico casermone nella periferia di una qualche grande città di chissà quale buco del mondo. Retrobottega di un negozietto di “Ortofrutta & Spurgofogne” gestito dai genitori del più giovane di una coppia di amici hacker sbarbatelli.
Immersi in una foschia bassa affiorante dal pignattone del brodo di cavoletti e montone kirghiso che bolle da due ore sul fornelletto a spirito, smanettano sul pc normalmente usato da mami and papi per fare gli ordini di ravanelli e motopompe a carburo.
Furtivamente escono dal software “Spomabanane 10.1” (service pack 83) e aprono la schermata su “Truffaldware” (versione “hard in cool”). Doppio clic sulla modalità “find the greatest boccalons in the world”. Lo schermo quasi esplode dalla marea di occorrenze risultanti. E’ quasi un pebiscito: ITALIANS!!!
I due giovani pirati sanno tutto di arrembaggi online, sarebbero capaci di levare le mutande via web al custode di Fort Knox lasciandolo nell’illusione di avere ancora su le braghe.
Ma l’italiano non lo sanno.
Mettono una pezza alla lacuna con il traduttore di google, un dizionarietto di italiano di un fratellino che fa le elementari parificate e una vecchia antologia di letteratura del Bel Paese, che in tasca all’uniforme del nonno gli salvò la vita fermando un proiettile vagante sopra una sperduta trincea in qualche battaglia minore della seconda guerra mondiale.

Pigliano il loro testo, lo immergono in quel fantasmagorico brodo traslativo e, come novelli Totò e Peppino stampatori di lire tarocche, con le mollette appendono al filo del web il loro componimento gocciolante copiose stille di genio.

Si sente subito l’aria che tira: già in apertura uno spettacolare e spiazzante “anacoluto imperfetto” suona enigmatico come una poesia di Ungaretti scritta da Magritte: “…L'idea e semplice…”.
Ad un certo punto poi, si arguisce che la pallottola fermatasi ad un cm. dalla pellaccia del nonno doveva essere affondata nell’antologia circa all’altezza del crepuscolo del secolo dei Lumi, con l’ogiva leggermente addentro agli albori ottocenteschi.
Non si spiegherebbero altrimenti i riflessi foscoliani di questo ulteriore drammatico periodare:
“…un paziente nei bisogni di condizione di salute funesti di andare e vedere il dottore …”.
Preziosissimo ed impagabile risulta poco più avanti anche il concetto di “…essere iniziato con la sua ricetta…”. Evoca oscuri scenari di affiliazione alla loggia dei cuochi fattucchieri, con tanto di giuramento di fronte al gran calderone del soffritto ribollente.
Che detto fra noi…ma chi credono di prendere in giro ‘sti moderni mediconi con la laurea tirata su coi punti del doppio brodo Star? Hanno un bel dire poi…è quasi naturale che alla fine uno “…si smarra…”.

E dopo essere stati rassicurati circa il fatto “…che le sue informazioni di carta di credito non andranno svelato…” (ed è proprio su questo passaggio che la tua fiducia nelle buone intenzioni del mittente diventa cieca come una talpa), l’impareggiabile brano si chiude col botto.
Con un’ultima zampata d’ingegno, la Food and Drug Administration si muta come d’incanto in una sottosezione del dopolavoro ferroviario di Busgnate di Sotto, divenendo la famigerata “Associazione di Cibo e Bevanda”, dove prima “…sé màgna e dòp’ sé ciàva la Wanda…”.

Ma insomma…Ma dico io… va beh, noi italiani saremo anche dei boccaloni che ad ogni amo si appendono senza pensarci su tanto, ma com’è possibile pensare di fregare la gente con stratagemmi così maldestri?

Un momento…ma…cosa sarà mai quel Tir che sta entrando in retromarcia proprio nel mio stradello di casa? Sulle fiancate c’è scritto una roba tipo Viabra?…Biagra?…e sotto “Stands your life up”…o una cosa del genere…
Boh!!!


martedì 22 settembre 2009

La preposizione fuggente


Fra le persone che più hanno influito sulla “morfologia culturale” che mi ritrovo, c’è stato senz’altro il mio carissimo professore di storia dell’arte del liceo. L’amore per il pensiero, per la ricerca della bellezza nella dinamica dei concetti, la curiosità per tutto quanto riguarda il sapere, mi sono stati trasmessi in una misura qualitativamente molto significativa da lui.
Ancora a distanza di anni, certe sue lezioni rimangono fra le esperienze “estetiche” più intense che io abbia mai vissuto (intendendo col termine “estetico” la più appassionata tensione verso l’ideale fusione del “bello” con il “vero”).
Roba che avrei pagato anche il biglietto a peso d’oro, se ce ne fosse stato bisogno.

Da lui imparai soprattutto ad amare il linguaggio e a nutrire un rispetto illimitato per esso. A provare quasi un senso di sacralità per la parola.
Anzi: levate pure il “quasi”.
Il mio prof. mi fece capire che la lingua equivale ad un’architettura complessa, nella quale ogni elemento contribuisce col suo “peso” ad un generale scambio di forze semantiche. I sostantivi sono pilastri, gli aggettivi travi, gli articoli piccoli mattoni, e gli avverbi o i pronomi sono talvolta la malta e tal’altra i ferri dell’armatura che tengono legata la forma delle frasi.
Ciascuno dei mattoni linguistici non solo possiede un proprio “peso”. Sviluppando la dovuta sensibilità, si arriva anche a “sentire” come tali pesi si tocchino fra loro, come si spingano, combacino, come si forzino a vicenda, si invitino, si richiamino, si riecheggino, si rincorrano, si nascondano a volte l’un l’altro.

Non deve stupire il fatto che la nascita della passione per il linguaggio nei miei ricordi sia maggiormente associata al mio prof. di arte di quanto non vada ad affondare le radici fra le varie figure d’insegnanti di lettere che mi hanno avuto fra le grinfie (senza nulla togliere al caro ricordo che mi è rimasto pure di questi ultimi).

Non esiste forse cimento linguisticamente più arduo del compito di parlare o scrivere di arti che sono basate sulla scelta di linguaggi estranei alla parola. In questi casi l’artista si affida a strade espressive differenti anche perché “sente” nella parola l’impotenza a dire.
Il compito del commentatore, o critico, o studioso d’arte “non verbale” è perciò ad un tempo terribilmente arduo, apparentemente inutile, ma di fatto estremamente fruttifico.
Terribilmente arduo, perché con la sua impresa è chiamato a dire l’indicibile (con il pericolo, sempre in agguato, di finire con il dire un "nulla").
Apparentemente inutile, perché ciò di cui l’opera d’arte non verbale può parlare, a rigor di logica, è “parlabile” unicamente da essa stessa e dai suoi mezzi espressivi volutamente diversi dalla parola.
Estremamente fruttifico, perché nella infinita rincorsa asintotica di quei significati che mai riuscirà ad afferrare nella loro completezza (in quanto inevitabilmente “ingabbiati” nei mezzi espressivi originari) il commentatore d’arte riesce non di meno a portare alla luce concetti di una preziosità difficilmente raggiungibile con altre forme di espressività verbale. L'immane e spropositato suo compito lo rende un narratore tendente all'«ideale» espressivo.

Grazie alle lezioni del mio prof. imparai che anche l’apparente inezia del mutare di una preposizione, può trasformarsi nella chiave di volta in grado di reggere significati diversissimi.
Non scorderò mai lo stupore provato a seguito di una sua piccola, ma vastissima chiosa al primo volume della storia dell’arte di Giulio Carlo Argan.
Estrapolando solamente 6 parole, «il tempio greco è “della” natura», ci chiarì come il senso di quella frase lo avremmo capito meglio se per contrapposizione l’avessimo letta con la sola variante di un «nella» al posto di quell’inusuale «della».
Non un oggetto calato nel mondo, ma le “regole” stesse del mondo condensate attraverso i rapporti armonici fra le pietre di un edificio: ecco come si trasformava l’essenza del tempio greco grazie alla “banalissima” variazione di una sillaba.
In seguito ci furono altre meraviglie da scoprire. Come fu che Giotto dipinse dantescamente e Dante scrisse in lingua giottesca; come l’ascetismo tragico dell’orizzonte bizantino preludesse all’aurorale dinamismo drammatico romanico; come la saldezza della poetica giovanile di Donatello sostenesse senza soluzione di continuità il suo “scetticismo” senile.
Ma il primo, basilare fondamento del mio amore per la parola fu posto dallo stupore di fronte al fatto che «il tempio greco è “della” natura».



lunedì 21 settembre 2009

Kodemondo



Al di là di ogni ragionevole tristezza...

venerdì 18 settembre 2009

Anime in piena


Quell’autunno il fiume non aveva scherzato niente.
Le sue lunghe zampone ondose si erano distese a lambire minacciosamente gli steli d’erba più alti del ciglio dell’argine maestro. Il pericolo sovrastava i tetti delle case, ed il pelo dell’acqua in bilico sulle teste della gente contrastava di sfumature innaturali con la placidità delle prime candide nuvolette sbuffate dai comignoli.
Da sbarbatello, sei capace di stupori così vasti da non lasciare spazio alla paura che pure spinge ai confini della tua piccola anima. La mente ed il cuore del bambino sono come un setaccio. Di certi fatti dei grandi sanno trattenere solo l’eccezionale. La parte principale dei timori e delle apprensioni è roba dei grandi, appunto. Che se la sbrighino loro.
Eravamo anche stati a casa da scuola un giorno o due, e quel via vai inusuale di gente e di mezzi sulla corona dell’argine sembrava il nastro di lucine colorata di una giostra mai vista così grossa in paese.
Solo quando diventai più grande compresi che i momenti di felicità personale ed i fatti tutt’intorno spesso possono scorrere su binari molto diversi fra loro, e con velocità che quasi mai si conciliano.
Una sera il grande uovo fritto luminoso della fotoelettrica dell'esercito aveva squarciato l’oscurità, attirandomi come una calamita ad un giretto di perlustrazione sull’argine.
Il grosso del rischio era ormai fluito a valle insieme alla cresta più puntuta dell’ondata di piena. Gli animi erano un po’ più distesi e a parte la residua tensione dedicata a controllare che i piedi dell’argine non presentassero unghie rosicchiate dalle talpe (“nutria” all’epoca era poco più che un errore di ortografia), anche per i grandi era venuto il momento di comprarsi un biglietto di andata e ritorno fra i ricordi della loro gioventù.
I sacchetti riempiti di terra adesso servivano più da sedili improvvisati che non da barriera all’irruenza dell’acqua. Gli uomini di mezza età citavano quella volta che nel boschetto di pioppi, ora momentaneamente immerso nella fanghiglia golenale, erano riusciti a portarci per la prima volta la morosa.
Qualcuno si spingeva anche nel periglioso terreno dei dettagli più arditi di quelle avventure amorose. Facendo anche affidamento sulla pronuncia vernacolare stretta, credo contassero di depistare le orecchie più giovani zigzagando attorno ad assonanze che nel mio dialetto apparentano ad esempio “ciav’ga” (tra.: “chiavica”) e “ciavàda” (trad.: “chiavata”).
Sarò stato ancora piccolo, ma capivo già benissimo più o meno tutto, tanto da divertirmi due volte. Una, ad ascoltare. E la seconda, a pensare che per la “realtà ufficiale” io non dovevo capire.
I più anziani invece, con i toni bizzarri di un’omerica goliardia tutta tipica di queste zone, narravano le inverosimili gesta della alluvione più grande, quella dei 6 anni dopo la guerra. L’aria si era quasi impregnata di fango, quella volta: era questa l’idea che ti facevi ascoltando i resoconti dialettali, infarciti di quella “benevolenza bestemmiata” che solo i vecchi della mia terra sanno pronunziare con tanta classe e spontaneità.
Al confronto, è sconsolante ascoltare certi giovinastri paesani odierni intercalare i loro discorsi con un “porco” e una “Madonna” ogni tre per due. Loro sono nati col culo nella bambagia, che diritto hanno di lamentarsi?
Quei vecchi no, i gradi dell’arte bestemmiatoria se l’erano conquistata sul campo di battaglia della vita, e quando ne mollavano una delle loro intrisa dei florilegi più coloriti, avevi l’impressione di sentire tuonare una sorta di iperbolica preghiera laica, il cui significato qui riferibile potrebbe essere stato pressappoco: «…Cara al mé Dìu, i’ù patì gnan’mo a basta?...» («…Caro il mio Dio, non ho patito ancora abbastanza?...»).
Passati alcuni giorni, ero a zonzo coi miei fedeli sodali di scorribande in bici, quando individuammo sulla larga spalla intermedia dell’argine maestro, un grosso ed invitante mucchio di sacchetti di terra abbandonati sotto al bel sole autunnale che aveva ormai preso il posto degli alluvionali giorni piovosi precedenti.
Cominciare a modellare pallottole di terra fresca appena estratta dagli squarci aperti nella juta dei sacchetti, e passare a tirarsele dietro a vicenda, fu un tutt’uno.
Ecco altri due tratti somatici utili per capire se ti trovi o no di fronte alla faccia della felicità. La felicità è inutile e soprattutto non è progettata.
E quel pomeriggio provai forse una delle felicità più futili ed impreviste di tutta la mia fanciullezza, mentre col fiatone stracolmo di gioia mi nascondevo dietro il grosso cumulo di sacchetti per ripararmi dal terroso fuoco nemico, in una delle più epiche e leali battaglie combattute coi miei amici. Non mi ero mai sentito così amico dei miei amici, come quella volta che giocammo a fare i nemici.
Allora forse non me ne resi conto, ma in seguito capii che gran parte di quella gioia scaturiva dalla consapevolezza del pericolo scampato, attraverso la paura legata al quale la mia fanciullesca dimensione mi aveva illuso di essere passato immune.
Ma all’epoca anche questo non era previsto che lo dovessi capire.
Pure quella, era roba da grandi.



martedì 15 settembre 2009

Are you ready to Rock and roll?




«…A’ p’llattikin…A’ p’llattikin…giunbàghi…papappapa…».

Le sonorità della lingua inglese mi hanno affascinato praticamente da sempre.
Tutto venne molto ma molto prima di conoscere il significato di una singola sillaba che fosse una dell’alieno idioma britannico. Avrò fatto circa la prima o la seconda elementare, quando fra gli altri bimbetti e sbarbatelli assortiti si sparse la voce rigorosamente infondata che io sapessi l’inglese.
Per farvi capire quanto questo corrispondesse al vero, mi basta riportarvi qui di seguito la vera frase che all’epoca intendevo tradurre in fonemi con quell’accozzaglia di suoni disarticolati che ho riportato in apertura:

«…I feel like a king…I feel like a king in my buggy… papappapa…».

I frequentatori più assidui degli ultimi 10 lustri di rassegne d’essai quali festival di Venezia, Cannes, Berlino, Lugano e CasalSpussone, avranno sicuramente riconosciuto, anche solo da queste scarne battute, l’immortale poetare degli immensi maestri della musica da film, i fratelli Guido e Maurizio Delli Olivieri Cipolla (Oliver Onions), nella fattispecie citati in una delle loro composizioni più preclare, “Scarafone sabbiatore” (“Dune buggy”), indimenticabile commento melodico a quella pietra miliare della cinematografia mondiale interpretata dai sublimi Terenzio Illo e Buddha Spenzieri, e che va sotto il titolo di “Otherwise we’ncass ourselves”.

La lingua inglese aveva per me il pregio di riassumere due pregi.
Prima cosa, era l’esperanto del rock e del pop, forma di musica suprema assorbita fin dalla più tenera età insieme alla nebbia, il latte e il torchiato di lambrusco .
Due: l’inglese non lo capivo (e tutt’oggi la capisco ancora con parecchie imbarazzanti lacune).
Era il mix perfetto di cui avevo bisogno: poter giocare con le parole come se fossero pallette di pongo e avendo per di più la possibilità di modellarle sull’inconsistenza figurativa della plasticità melodica rock e pop.
Insomma, fin da bambino dentro me si è sempre celato un piccolo Nando Mericoni farcito di ritmi sillabici rock'n'rolleggianti.

Per tanti anni a seguire poi, la storia è andata avanti su questo tono e anche adesso non è cambiata di molto. L’inglese del rock tanto più mi affascinava quanto meno lo comprendevo.
In questo modo le parole valevano quanto la musica, nel senso della più assoluta libertà di giungere al mio orecchio entrambe come significante puro non inquinato dall’intralcio concettuale di significati scassa-minchia (anche se, immagino, non sarà propriamente in questi termini che si espresse Ferdinand de Saussure, nel suo «Corso di linguistica generale»).
La parola diventava musica, e viceversa.
Per questo mi è sempre piaciuta un sacco la lingua inglese, per il suo valore sonoro puro, impreziosito da quella parentela musicale primigenia.
E sempre per questo, anche dopo aver inquinato quella mia ideale condizione originaria di ignoranza fanciullesca con l’apprendimento di 4 vocaboli, nondimeno seguito ad esaltarmi quando mi imbatto in una di quelle espressioni inglesi spettacolari (come titoli di opere narrative, o film, o versi di canzoni) dotate di una sonorità a mio avviso ineguagliabile.
Mi viene in mente ad esempio la possente, desertica spiritualità evocata da «Ask the dust» (John Fante, «Chiedi alla polvere»); oppure la tonante, biblica devastazione che risuona in «Grapes of wrath» (John Steinbeck, «Furore», ma letteralmente «Uve di odio»).
L'argomento si fa poi vieppiù fascinoso se si spulcia un po' il tema della traduzione (e per uno che sa tre parole d'inglese, ci vuole pure un becco di ferro, ma questo è un dettaglio).
Con tutto il rispetto per il mestiere del traduttore (una delle figure più sottovalutate nella "filiera artistica", in proporzione alla sua importanza) mi succede spesso di provare grosse delusioni per come viene maltrattata la grazia originaria di certe espressioni.
Uno dei casi più clamorosi in cui sono incappato è la deturpazione completa del fantastico «Even cowgirls get the blues» (Tom Robbins), burocraticamente ingessato nel pessimo «Cowgirls: il nuovo sesso».
Altre volte, mi pare che la frase originale e la sua resa italica gareggino testa a testa.
Ma è poi spesso la locuzione english che strappa la mia preferenza sul filo di lana. Fu così che la timbrata di «Uomo bianco va' col tuo Dio» sul candido foglio del mio senso dello stupore, venne subito messa in ombra dal suo carattere di stampa più fedele, «Man in the wilderness».

Come non concludere poi con un solo, lapidario verso, forse il più potente, dell'immenso repertorio rock, che vale per tutti gli infiniti da me plasmati con la mia interminabile fantasia maturata attraverso l' ultradecennale militanza nel nandomericonismo più puro?

«Weird scenes inside the gold mine» (...«Ride the highway west, baby...my only friend, the end»).

Oppure è filologicamente molto più corretto riprendere da dove tutto era iniziato:

«…A’ p’llattikin…A’ p’llattikin…giunbàghi…papappapa…».



venerdì 11 settembre 2009

Chiose velenose


Non tradirò mai la mia indole gandhiana.
E “nemmeno verrò mai meno” alla mia essenza barbapapesca di teneroide inveterato.
Sarebbe inutile venirvi a contar fole, atteggiandomi a duretto del quartierino: la mia attitudine a Charlie Browneggiare alla fine si imporrebbe in ogni caso.

Tuttavia mi sono accorto che un quarto d’ora di cattiveria teorica di tanto in tanto ritempra lo spirito.
E allora, vai col liscio!!!

***

Apro le danze con una superba villania surreale (*) il cui copyright appartiene al più grande “bohemien gran filosofo della bottiglia” che abbia mai calcato le strade polverose del mio paese, inseguendo con ostinazione la sua perdente utopia sociale per un mondo privo del sociale.

«…Milàn l’é ‘n gran Milàn…»
- E té t’sì ‘n gran spurcaciòn! (*)

trad.: «…Milano è un gran Milano…»
- E te sei un gran sporcaccione!

Di seguito, vogliate gradire altre sgradevolezze dialogiche di classe:

«…L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro…»
- Minchia che culo!

«…La vita è bella…»
- Sì…col cazzo!

«…L’uomo è un animale politico…»
- Eh…bei tempi quelli! Com’è che a noi oggi invece ci toccano solo politici animali?

«…Ogni Mattina in Africa, una gazzella si sveglia, sa che deve correre più in fretta del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, un leone si sveglia, sa che deve correre più della gazzella, o morirà di fame. Quando il sole sorge, non importa se sei un leone o una gazzella: è meglio che cominci a correre.…»
- Sperando che il leone, prima di raggiungere la gazzella, si sazi con chi ha concepito ‘sta vaccata!

«…Il denaro non fa la felicità…»
- Vaffanculo te, il tuo yacht e il tuo conto in banca!

«…Il tempo è denaro…»
- Sì…tutti i soldi e le ore buttate nel cesso dai tuoi per farti studiare!

«…Chi si ferma è perduto…chi trova un amico, trova un tesoro»
- Allora, decidetevi! O continuo a girare da solo come un idiota, oppure mi fermo per trovare l’amico, ma poi mi perdo con lui!

«…L’unione fa la forza…chi da da sé fa per tre…»
- Ancora voi due? Ma quando davano via la logica, eravate usciti a comprare le sigarette?

«…Oggi ha preso il coupè…»
- Su dai, non disperare…ha preso anche la direzione di quel viale lunghissimo di platani belli duri!

«…La pubblicità è l’anima del commercio…»
- Esatto: l’anima de li mortacci tua!

«…Chi dorme non piglia pesci…»
- E’ già qualcosa se te la vai a pigliare nel culo te!

«…Non rimandare a domani quello che potresti fare oggi…»
- Va beh, oggi ti ho ascoltato, ma se torni domani ti mando pure a cagare!

«…Su col morale…»
- Grazie, sei un amico…però adesso levati dai coglioni!

E adesso il gran finale…la più cattiva di tutte:

«…Un gatto cade sempre sulle zampe…una fetta di pane imburrato tocca sempre terra dalla parte spalmata…»
- Ma allora da che parte cadrà un gatto con una fetta di pane imburrato sulla schiena?

***

BUH!!!
...Paura eh?

«…La storia siamo noi, nessuno si senta offeso…»

mercoledì 9 settembre 2009

Ad anima scalza


Uffa che noia…fra poco bisognerà tornare a mettersi le scarpe.

Uno dei vantaggi dell’estate (insieme al “soave” scoreggìo delle zanzare ad un centimetro dal timpano, all’afa martellante, alle emersioni da insonni apnee in “piacevolissimi” bagni di sudore, alle miglia di “vaporose” code in autostrada, alle vacanze “intelligenti” e ai fondamentali servizi di “approfondimento” di «Studio aperto», che quotidianamente ti rammentano l’afa soffocante, le vacanze intelligenti e le miglia di code in autostrada) è che puoi scordarti le scarpe per qualche mese.
Da alcuni giugni, lugli, agosti ed inizio settembri a questa parte, i miei piedi, calzaturisticamente parlando, non vedono altro che un paio di sandali.
Non solo: tutta la parte indoor della mia estate la trascorro ricalcando le gloriose orme della tribù dei Piedi Neri, zompando per casa a zampa rigorosamente scalza.

Ora, anche se il nesso fra i due temi non si coglierà esattamente al volo (e magari nemmeno c’è, un nesso), riflettendo su questa faccenda dei sandali e del “barefoot pride”, mi è venuto da considerare come per tutto il periodo della scuola dell’obbligo io non abbia praticamente mai studiato.
Studiare e mettersi le scarpe sono due mali necessari (con il sandalo come valido compromesso). Ci consentono di poter “metter piede” nel consorzio umano con un minimo di decenza, attenuando le conseguenze più clamorose dell’hobbesiano «homo homini lupus».
Ma il piede libero di “piedeggiare” all’aria e la futilizzante dimensione infantile della perdita di giornata fine a se stessa, rimangono fra i più begli inni alla libertà che io abbia mai conosciuto.

La scoperta che leggendo i libri in modo approfondito (ossia studiando) si vengono a sapere “cose vere” sulla propria vita, giunse per me piuttosto tardi.
Mi ricordo anche vagamente l’episodio, caduto giusto nel mezzo del cammin di nostra seconda media. Di chi fosse precisamente il brano rivelatore, invece non lo ricordo. So che era sulla vecchia antologia spelacchiata di italiano, già rodata da un triennio di trambusti nello zaino di mio fratello.
Quel giorno mi accorsi che la cara e vecchia antologia, fino ad allora per me poco più di una fastidiosa presenza da sfogliare frettolosamente in 5 minuti (tanto per ricordare due fregnacce da ripetere alla prof. il giorno dopo), prima di uscire a sprecare proficuamente le successive 3 ore del pomeriggio correndo dietro ad un pallone al campetto, aveva qualcosa di importante da dirmi.
Mi disse che l’adolescenza è quella fase della vita durante la quale brufoli ed inedite preoccupazioni prima inaudite fanno a gara per eruttare fuori da te, ma è anche il periodo degli “attacchi di felicità”.
Ecco, credo che queste piccola espressione abbia rappresentato in assoluto la mia prima “epifania del lettore”.

Cosa ne potevo sapere prima io della felicità?
Non perchè la mia infanzia fosse stata particolarmente infelice, ma perché fino a quando sei bambinetto galleggi neutrale in un’«empirea» bambagia platonica quasi fuori dal tempo. Per sapere cosa sia la felicità, o almeno per fartene una vaga idea, devi assaporare prima il gusto dell’infelicità. E’ forse questa la rivelazione più dura che l’adolescenza si porta con sé.
Tutto questo mi disse quel giorno la mia antologia.
E anche se la cosa mi fece abbastanza male, gliene fui fortemente grato. Perché fra le righe mi fece anche capire che da quel momento la mia anima non avrebbe potuto più godersi le sue esclusive scorrazzate a piedi nudi, ma di tanto in tanto, e poi sempre più spesso, avrebbe dovuto cominciare a mettersi le scarpe.
Non che da allora in avanti io sia divenuto uno studioso modello. Altri fondamentali “calzascarpe” era ancora lì da venire. Come qualche salubre 4 rimediato in prima liceo, oppure certi sensi di colpa grossi come condomini, quel pomeriggio che, sempre in prima liceo, liquidai la «Metamorfosi» di Kafka coi canonici 5 minuti di studio stile scuola media, per poi tirare a sera nel campetto fra cross e corner angosciosamente calciati come se al posto dei piedi mi fossero improvvisamente spuntate le “beatlesiane” zampette di Gregor Samsa.

Quello che la mia antologia non mi disse tuttavia è che da certi aspetti del periodo adolescenziale non se ne esce più. Da taluni febbroni buscati durante la teenage, non si guarisce mai.
Ecco perché ancora oggi mi dà alquanto fastidio calzare di nuovo le scarpe ad ogni ritorno d’autunno. L’unica consolazione è sapere che pronto da dietro al primo angolo, non si sa in quale foggia o con quali modalità questa volta, sbucherà sempre fuori un inaspettato quanto gradito “attacco di felicità”.

martedì 8 settembre 2009

Il rinfanciullitore farloc-pixico



Accendi il moto-rinfanciullitore (da un poetico cazzeggio rievocatore con Farlocca)

domenica 6 settembre 2009

L'ape, il gesto ed il profumo dell'arte

Ciao ragazzi!
La mia crisi di idee resiste, insiste e persiste.
Io ci provo ad andarci, per pensieri, ma raccolgo solo e puro cranio vuoto a rendere. Mi sono tuttavia ricordato di un mio antico scrittino. Noiosetto e pendante anzichè no, come negarlo? Ma al momento è il massimo che vi posso offrire...portate pasiensa...


«Dio ha creato l’uomo perché
Egli adora i racconti»
Elie Wiesel

«Soltanto chi lascia il labirinto
può essere felice, ma soltanto
chi è felice può uscirne»
"Lo specchio nello specchio" - Michael Ende

«Che cosa ha voluto dirci l’autore con questo suo scritto? Che messaggio ci ha voluto comunicare? Quali sono i significati espliciti celati dietro la “finzione” operata con lo strumento artistico?»
Sono domande queste che ci poniamo quasi automaticamente dopo aver letto un romanzo, o un racconto, o un componimento poetico. Si tratta certamente di curiosità legittime, ma, per certi versi, esse possono risultare anche fuorvianti. Tali interrogativi sembrano infatti presupporre alcuni dati che in realtà non sono per niente scontati.
In questa ottica sembra quasi profilarsi uno scenario tale per cui l’autore, dopo aver focalizzato una serie di problematiche esistenziali di rilievo, si sia messo alla ricerca di una forma o di un espediente letterario adeguato per convogliarle al pubblico dei lettori. Anche se nella sostanza degli atti materiali è probabile che le cose si svolgano in maniera non molto dissimile, in realtà, a livello di sequenze concettuali, credo che l’agire dell’artista si articoli effettivamente in una maniera ben più complessa.
In particolare vanno ricordati due punti degni di nota:
- innanzitutto, l’opera d’arte è sempre il frutto di un “gesto” non riconducibile alla sommatoria di una serie di atti parziali;
- in secondo luogo, l’artista non crea la sua opera solamente in vista della fruizione di un ipotetico pubblico (ovviamente anche per questo), ma è sempre spinto anche da “criptiche” istanze interiori che vanno a sfiorare gli strati più profondi, ineffabili, talvolta oscuri dell’animo dell’uomo.
Per chiarire meglio il concetto espresso al primo punto, può essere utile un paragone con il mondo della musica. Le note musicali sono solamente sette. Imparare a padroneggiarle, a capirne il “funzionamento” e la “logica” è alla portata di molte persone. Ma riuscire a mettere quelle sole sette note in sequenze significative in grado di far vibrare la sensibilità umana, questo è appannaggio solo di pochi.
Ecco, la differenza che esiste tra un puro esecutore di brani musicali (seppur a livelli eccelsi) ed un musicista in grado di comporre, credo sia la medesima che intercorre tra saper esporre una sequenza, anche complessa, di “problematiche esistenziali” e saper scrivere, ad esempio, un romanzo. Il romanzo è portatore di una “sequenza gestuale” non riducibile in parti; non è frazionabile mediante spiegazioni che ne ridimensionerebbero irrimediabilmente il significato, allo stesso modo in cui sarebbe riduttivo considerare una composizione musicale solo dal punto di vista delle note che la compongono.
Tutto questo non implica che non si debba e non si possa cercare di parlare di letteratura (questo stesso mio scritto non avrebbe in tal caso nessun senso). Significa invece farsi carico di una importante consapevolezza. La consapevolezza che ogni qualvolta tentiamo di elencare i significati di un’opera letteraria (e di un’opera d’arte in generale), stiamo provando a scindere un’entità in realtà indivisibile o, per riprendere la metafora utilizzata sopra, stiamo cercando di sezionare un “gesto” il cui valore risiede nella sua continuità.
Le teorie della scuola psicologica della Gestalt ce lo hanno insegnato: pretendendo di frazionare i fenomeni umani in unità controllabili analiticamente, si rischia quasi sicuramente una perdita irrimediabile della realtà psicologica effettivamente insita in quei fenomeni.
L’opera d’arte (nel nostro caso particolare l’opera letteraria) si potrebbe così paragonare ad un labirinto. Fino a quando lo stiamo percorrendo, lo possiamo anche “vivere”, ossia possiamo sentire il suo fascino, il timore che incute, la curiosità che è in grado di stimolare. Al contrario, visto dal di fuori, riesce solo a trasmetterci un simulacro di sé stesso, alla stregua delle ombre riflesse sulla parete di fondo della grotta di Platone.
Se consideriamo la frase di Michael Ende citata in apertura: “Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne”, e intendiamo per felicità la comprensione dei significati dell’opera letteraria, possiamo mettere in rilievo la natura paradossale di quest’ultima. L’opera letteraria partecipa della stessa natura del gioco: è “finzione” per sperimentare il reale in una dimensione parallela alla realtà, con proprie regole ridefinite che riflettono quelle effettivamente in gioco nella vita.

***

«La bellezza estetica è il corrispondente isomorfico tra quanto si dice e il modo in cui lo si dice»
"Il pensiero visivo" - Rudolf Arnheim
Einaudi, Torino 1974

Prendendo spunto da questa affermazione dello “psicologo dell’arte” Rudolf Arnheim, vorrei a questo punto proseguire il discorso con alcune considerazioni sulla questione della traduzione delle opere letterarie, applicandolo in particolare ad un’opera della poetessa americana Emily Dickinson.
È innegabile che il passaggio ad un idioma diverso dall’originale comporti un notevole mutamento nell’espressione formale di un certo contenuto. In questo caso, l’uscita dal “labirinto” dei significati originali dell’opera rischia di diventare definitiva, facendoci perdere il senso genuino di quei significati. Al di là della trasformazione dei singoli vocaboli (questo è banale), uno dei cambiamenti più importanti riguarda la struttura sintattica, che per una costruzione linguistica rappresenta un po’ l’equivalente dei rapporti tra le forze in una costruzione architettonica.
Dobbiamo allora ritenere scontato il fatto che l’opera letteraria, una volta tradotta, divenga un qualcosa di differente rispetto all’originale? Certamente su questo punto influisce in maniera determinante la capacità del traduttore di cogliere lo “spirito” del materiale linguistico che è chiamato a manipolare.
Se questo discorso è vero per le opere in prosa, assume un significato ancor più importante nel caso delle opere poetiche. In questa particolare forma di espressione artistica, infatti, la sequenza delle parole, il loro incontro o scontro, il loro confronto anche sonoro oltre che di significati, diventano strumenti formali fondamentali per convogliare un determinato contenuto.
Prendiamo spunto, come dicevo, da una bella poesia della poetessa americana Emily Dickinson (Amherst, Massachussetts, 1830 - ivi, 1886) per fare alcune riflessioni:

A sepal, petal, and a thorn -
Upon a common summer’s morn -
A flesk of Dew - a Bee or two -
A Breeze - a caper in the trees -
And I’m a Rose!

Nella versione originale la bellezza della poesia è data soprattutto dal continuo rincorrersi delle parole, ottenuto con le rime e le assonanze. È proprio questo saltellare, da un termine ad un altro che lo richiama, che maggiormente attira l’interesse del lettore.
Talvolta il riferimento reciproco tra due termini non è affidato soltanto a fattori “sonori”, ma anche “di contenuto”. Nella prima riga, la sequenza “A sepal, petal...” non è forse un richiamo anche alla forma fisica delle due parti del fiore menzionate? I sepali sono quella sorta di contro - petali verdi che accolgono la corona superiore dei petali veri e propri: sepalo e petalo, nella loro forma fisica, sono allacciati vicendevolmente in un abbraccio sinuoso. Questa immagine viene di fatto evocata dall’incontro dei due termini nella sequenza “A sepal, petal...”. Tant’è vero che Emily Dickinson non inserisce l’articolo indeterminativo davanti al secondo termine (“...petal...”) per non rendere il senso di interruzione tra le due parole assonanti. Interruzione che invece viene introdotta con la congiunzione davanti al terzo termine menzionato, “...and a thorn...”, quasi a sottolineare il distacco anche fisico che intercorre tra la parte delicata della rosa (sepali e petali) e la sua parte “aggressiva” (la spina).
Chi legge questo scritto potrà a buon diritto contestare che probabilmente tutti questi significati reconditi non erano stati volutamente architettati dall’autrice; non di meno è innegabile che essi sussistano in questo testo poetico come suggestioni potenziali, sia che la Dickinson li abbia introdotti consapevolmente, sia che li abbia inseriti semplicemente affidandosi alla propria immensa sensibilità.
Ritornando alla questione della traduzione, vediamo come questa poesia viene resa in italiano da Margherita Guidacci in un’edizione, per altro molto curata e ben fatta, di opere scelte di Emily Dickinson [Emily Dickinson, “Poesie”, BUR Rizzoli, Milano 1979]:

Un sepalo ed un petalo e una spina
In un comune mattino d’estate,
Un fiasco di rugiada, un’ape o due,
Una brezza,
Un frullo in mezzo agli alberi -
Ed io sono una rosa!

Innanzitutto, non c’è più traccia dell’originale eco tra le parole che era ottenuta per mezzo di rime ed assonanze lungo l’intero testo. Inoltre, nella prima riga, la traduzione rende esattamente l’effetto opposto rispetto a quelle suggestioni potenziali di cui parlavo prima: tra “...sepalo...” e “...petalo....”, non solo viene introdotta un’interruzione tramite congiunzione e articolo, ma la congiunzione usata è addirittura “...ed...”, con la consonante aggiunta a rendere ancora più netto lo stacco. Tra “...petalo...” e “...una spina...” invece, dove la congiunzione “dura “...ed...” sarebbe stata più appropriata, viene utilizzata la congiunzione “dolce” “...e...”.
Per concludere, vorrei proporre un tentativo personale di traduzione della poesia che potrà apparire eccessivamente libero e a tratti ingenuo, ma credo più “sensibile”:

Un sepalo, petalo, ed una spina
D’estate, una qualsiasi mattina
Un fiasco di Rugiada - un’ape o un’accoppiata
Un venticello - tra gli alberi un frullo -
E della Rosa indosso il mantello!

venerdì 4 settembre 2009

When I was young and full of grace



When I was young and full of grace
And spirited - a rattlesnake
When I was young and fever fell
My spirit, I will not tell
You're on your honor not to tell

I believe in coyotes and time as an abstract
Explain the change, the difference between
What you want and what you need, there's the key,
Your adventure for today, what do you do
Between the horns of the day?

I believe my shirt is wearing thin
And change is what I believe in

When I was young and give and take
And foolish said my fool awake
When I was young and fever fell
My spirit, I will not tell
You're on your honor, on your honor
Trust in your calling, make sure your calling's true
Think of others, the others think of you
Silly rule golden words make, practice, practice makes perfect,
Perfect is a fault, and fault lines change

I believe my humor's wearing thin
And change is what I believe in
I believe my shirt is wearing thin
And change is what I believe in

When I was young and full of grace
As spirited a rattlesnake
When I was young and fever fell
My spirit, I will not tell
You're on your honor, on your honor
I believe in example
I believe my throat hurts
Example is the checker to the key

I believe my humor's wearing thin
And I believe the poles are shifting