lunedì 15 aprile 2013

Circonlocuzioni plastiche

 

Cari amici viandanti per pensieri, mi sa che stavolta ho proprio esagerato. Non pago di avervi annichilito per anni gli zebedei con i miei scritti adimensionali, per poi passare a spianarveli con la duplice para-cartesianità dei miei disegnetti, adesso, sbracando decisamente, ve li vengo a far lievitare persino nella terza dimensione.

Ebbene sì, ho fatto una scultura.

Va beh, scultura…diciamo che ho fatto una gillipixata che si espande anche nello spazio, ecco, così è più preciso. Ma andiamo per ordine, che ve la conto su un po’.

Dovete sapere che la campagna intorno a gillipixiland consiste in una terra di una piattezza unica, sia in senso morfologico-geografico, sia per quanto riguarda le sue capacità suggestivo-metaforizzanti. Ma nonostante ciò, oppure proprio in virtù di ciò, immergendosi in una simile atmosfera monocroma, si può ogni tanto incappare in una qualche piccola magia.

Come ad esempio ritrovarsi fra i piedi le gambe di Batman!
 
Gironzolavo appunto come faccio spesso lungo l’argine, quando ho notato sul ciglio della strada questo rimasuglio di un pupazzetto che fu, forse abbandonato da qualche incivile sbarbatello, il quale, essendogli venuto a noia, si era dilettato poi nel martirizzarlo al di là di ogni umana concepibile perfidia ludico-bambinesca.
 

Dalla nera evidenza mutandesca e dalle vigorose cosce calzamagliate in grigio, riconosco senza esitazione le fattezze inferiori del nobile castiga-birbaccioni di Gotham City. Raccolgo il moncone con fare misericordioso e non faccio in tempo a spendere un altro paio di passi, che rinvengo anche le relative due povere alucce blu da super-pipistrello, miseramente divelte ed abbandonate pure esse. Trattavasi di strage vera e propria: quel bambinetto doveva essere proprio un gran sadico seviziatore di super-eroi!

Fa niente, mi dico, metto in tasca i miserandi resti e proseguo la mia passeggiata, pensando che magari questo inusuale materiale plastico ritrovato, mi sarebbe potuto tornare utile per una qualche incursione a venire, fra i pensieri. Infatti, non passa molto tempo che mi sovviene di aver potato le rose alcuni giorni prima. Tra gli altri piccoli ceppi di ramo divelti, ricordo di averne tenuto da parte uno in particolare. Mi aveva solleticato l’attenzione per la sua sagoma evocativa. Una corta propaggine ad esso innestata, e già potata in passato, suggeriva l’idea di una sorta di spalla col suo braccio incompleto, come succede spesso nella antiche sculture di marmo greche, fratturate e rimaste in vari punti sospese in una vaga indefinitezza formale, che dona loro gran parte del fascino. L’idea di ricavarne una sorta di figura plastica mi aveva carezzato le meningi per un attimo, ma poi ho messo tra parentesi il discorso, in attesa di nuove evoluzione della fantasia.

Adesso però, col fortuito rinvenimento sull’argine, fare “due” più “due” non era mia stato così facile ed immediato quanto fare “ramo di rosa” più “gambe di Batman”. Nello sconfinato e folle mondo delle fortuite coincidenze dalla fantasia, questi due oggetti lontanissimi fra di loro per origine, forma e destino materiale, complice la mia bacata immaginazione, si erano finalmente trovati. Parevano fatti l’uno per l’altro, non aspettavano altro che venire fusi in un unicum strambamente significativo.

Tra gli altri motivi di micro-esaltazione derivati dall’idea di dar vita ad una simile inaspettata continuità formale, mi sovvenivano anche ricordi di cose lette, viste e sentite riguardo alla corrente artistica del Dadaismo, mista ad un pizzico di Surrelaismo: Marcel Duchamp, le realizzazioni ready made, gli object trouvè, i collage e così via. «…Più “trouvè” di un ramo e di un pezzo di pupazzetto!...» pensavo. Ma per il momento, la cosa più immediata da fare era innestare il ramo di rosa nel suo super-eroico basamento. Lavoricchiando di lima e di seghetto, ho allora accorciato il cilindretto di legno in misura acconcia e poi ho sagomato la parte inferiore in modo da ricavarne uno spinotto che andasse ad infilarsi più o meno precisamente nell’alloggiamento già presente, diciamo così, fra le mutande di Batman.
 

E’ stato bello levare gradualmente legno, fare prove di volta in volta, assestare ancora una limatina, riverificare e così via, sino al momento in cui le due parti hanno combaciato in maniera accettabile. Allora ecco che le ho collegate e…meraviglia! D’accordo, l’ho sempre ammesso, io sono uno che si diverte con molto poco, ma non mi sembrava vero che si sposassero così bene insieme. Potevo già dirmi più che soddisfatto dell’operazione. Avrebbe potuto terminare lì e sarebbe stato un buon risultato, per le mie umili aspettative artistiche.

Ma non mi sono accontentato ed ho provato ad osare oltre, vedendo cosa sarebbe derivato da un tentativo di modellazione del legno. Mi sono allora armato di sgorbia sgrossatrice e di limette più sottili e fini, ed ho iniziato a levare materiale, con molta cautela. Mentirei spudoratamente, se dicessi che ogni forma ottenuta da qui in avanti ha poi corrisposto esattamente alle idee che avevo in mente di concretizzare. Tutto quanto è uscito dalla mia azione sgrattatrice e levigante è stato frutto di un compromesso, credo alla fine dignitoso, fra soluzioni casualmente raggiunte e modestissime capacità tecniche.

La parte che mi ha regalato i maggiori quantitativi di mini-gioia mista a piccoli sprazzi di contentezza esplosiva, è stata la sagomatura di quella che nelle mie intenzioni doveva figurare come una sorta di testa del gommoso individuo ligneo in evoluzione. Mai avrei creduto prima, se non ci avessi provato, di riuscire a stondare questa sorta di forma che mi stava uscendo letteralmente dalle mani, a metà via tra un casco integrale da motociclista e le fattezze fantasmagoriche del misterioso omino di Roswell.
 
 

«…Maturità, t'avessi preso prima…» cantava qualche tempo fa Antonello Venditti.

«…Carte vetrate, vi avessi usato prima…» è venuto invece da cantare a me, addentrandomi in un passaggio successivo di affinamento della mia opera. La scoperta del “fantastico mondo della carte vetrate” si è infatti rivelato una ulteriore fonte di stupore. Fintanto che avevo sgrossato la sagoma con la lima, anche con quella più sottile a disposizione, non avevo ancora immaginato l’incanto tattile che sa invece regalare la carta vetrata di grana molto fine. La capoccetta che si allisciava piano piano sotto i polpastrelli, sfregatura dopo sfregatura, diventava sempre più delicata al tatto, del tutto priva di rugosità, quasi vellutata.
 
 

Avendo usato poi l’accortezza di conservare una porzione di corteccia sulla parte frontale, nel corso della lisciatura mi sono accorto che la differenza tra l’alone formato dalla scorza residua e la rimanente superficie levigata, andava a comporre una certo disegno che poteva essere visto come una sorta di visiera dell’ipotetico casco indossato dall’omino ligneo.
 
Durante il disvelamento di sagoma che andavo praticando, si sono presentati vari intoppi. Innanzitutto ho scoperto che forse il legno di rosa non era il più indicato per questa realizzazione. Perlomeno, non il pezzo da me scelto. Essendo infatti piuttosto vecchiotto, sono affiorati qua e là dei piccoli cunicoli di tarli e delle fessurazioni, che hanno un po’ compromesso l’integrità materiale e la compattezza del mio manufatto. In questi fallaci punti, ho deciso di lasciare in evidenza le magagne, come fossero elementi integrati nella composizione. Non avevo altra scelta: o fare così, o scavare talmente tanto il legno, da sfigurarlo e renderlo privo di senso.
 
 
Anche per questo motivo (oltre che per le mie lacune tecniche), ad un certo punto ho stabilito di non inoltrarmi ulteriormente nella modellazione. Non prima però di essermi divertito ancora un po’ a sbozzare vagamente un accenno di incavo dorsale, e segnando sulla parte anteriore una vaga sagomatura nella zona del ventre. Il senso di torsione che la figura ha assunto in questo modo, grazie ad un accenno di rotazione del busto e del capo, l’ho voluto infine completare con il montaggio conclusivo della ali. Facendo varie ipotesi, mi sono accorto che, per accentuare questo senso di spirale plastica, le ali sarebbero state bene avvitate al legno, una in posizione “canonica”, sulla schiena, e l’altra in un punto del tutto anomalo, ossia sulla propaggine dello spezzone di braccio (a rigor di “logica fumettistica”, le ali andavano montate con il lembo dentellato in basso e quello dritto in alto, ma secondo le necessità della mia composizione, stavano meglio come le ho messe).

Sono contento del risultato ottenuto, che suggerisce una struttura avvolgente della figura, una dinamica in rotazione. L’ala messa sul dorso equilibra visivamente la mancanza del braccio destro, mentre quella posta in punta dell’arto sinistro ricorda lo sventagliare di un mantello, oppure la muleta del torero, fatta roteare in aria nel certame della tauromachia.
 
 

Alla fine, avevo preso due tipologie di oggetti di essenza materiale e provenienza, le più disparate possibili. Da una parte, dei prodotti industriali fabbricati in serie, e dall’altra il risultato di un processo spontaneo della natura. Mettendoli in dialogo e facendoli comunicare attraverso un “nesso di fantasia”, avevo re-intrepretato il loro ruolo estetico, lo avevo reinventato forse, se non addirittura creato ex-novo, almeno per una parte della composizione.
 
 

E andando poi a leggere l’impareggiabile Giulio Carlo Argan Argan (“L’arte moderna – 1770/1970”, Giulio Carlo Argan, Sansoni Editore, Firenze, 1982 – pag. 436-437), ho pure scovato un passaggio riguardante il dadaismo, che andava a mettere la cigliegina sulla torta a tutto il diletto da me assaporato nel corso dell’intera “operazione Batman di legno”.

Ve lo riporto di seguito. Si fa riferimento all’epoca in cui (primi decenni del ‘900) si sviluppò il concetto moderno di disegno industriale (in una parola “design”), al quale il movimento dadaista oppose il suo dissacrante punto di vista:

«…La partecipazione degli artisti al ciclo industriale avrà come fine ultimo la qualificazione estetica dell’ambiente della vita sociale, e quindi l’integrazione totale dell’individuo nello spazio funzionale della società: gli artisti cercheranno di rendere l’ambiente propizio alla libertà individuale, ma si tratterà di un’organizzazione razionale dell’esistenza.

Per i dadaisti, invece, l’ambiente non ha in sé alcuna qualità estetica, ma ciascuno può interpretare ed esperire esteticamente le cose che lo compongono sviandole dalla finalità utilitaria che dà loro una società utilitaria. L’attività specificamente estetica non tende a modificare le condizioni oggettive dell’esistenza, ma a dare il modello di un comportamento libero da ogni condizionamento.

Se ognuno può comportarsi in modo artistico purché rompa il cerchio delle regole sociali, essere artista non significa più esercitare una professione che richieda una certa esperienza tecnica, ma essere o rendersi liberi. Essendo libertà da ogni obbligo l’arte è gioco; il gioco contraddice alla serietà dell’agire utilitario, ma poiché la libertà è il supremo dei valori, soltanto giocando si è veramente seri...».

Da queste parole ho forse capito meglio perché mi ero sentito bene, mentre realizzavo la mia pur insignificante opera: perché nel farla, avevo provato forti sensazioni di libertà.

 

giovedì 11 aprile 2013

Ma disegna come mangi!



Al di là delle varie strade che la nostra mente imbocca quando pensa, s’interroga, si confronta con la dimensione creativa nel suo farsi, al di là delle particolari specificazioni di linguaggio in quei casi intraprese, esiste, celata nella nostra essenza di esseri raziocinanti e senzienti, un substrato comune, capace di legare insieme tutte le diverse forme espressive di volta in volta messe in atto?

D’accordo, mi rendo conto di averla presa su per un verso eccessivamente intellettualardo…e si sa: tanto va l’intellettualardo, che ci lascia…ehm, diamoci un contegno. Dunque, cerco di porre in forma diversa la questione, circoscrivendola in tal modo: quando scriviamo e quando disegniamo, ci affidiamo a meccanismi mentali affini?

Ecco, non saprei rispondervi con certezza, ma un qualcosa di simile mi pare di averlo constatato dedicandomi alla realizzazione di qualche disegnetto, da abbinare ad alcuni miei scritti del passato. L'idea è quella (chissà quando, chissà se mai, magari un domani) di ricavarne una pubblicazioncella. In questo ipotetico libricino mi piacerebbe inserire una ventina di racconti, realizzati nel corso del tempo per il mio blog. Per ogni storiella (tutte scelte rigorosamente fra le più surreali), ho creato appunto una relativa immagine di “commento integrativo”, nel senso che ho cercato di illustrare lo spirito del racconto, magari arricchendolo con ingredienti figurativi non direttamente connessi a quanto si narra nel testo, ma pur sempre sintonizzati con l'atmosfera delle vicende tratteggiate.

Realizzando questi disegni, che inevitabilmente presentano venature fortemente surreali (dovendosi accordare a storie già strambe di per se stesse), mi sono accorto appunto di come il pensare finalizzato alla scrittura, risulti notevolmente imparentato al pensare finalizzato al disegno. Avendo io realizzato sia le storie, un po' di tempo fa, ed ora i disegni (pur sempre avvalendomi delle mie rudimentali capacità di disegnatore), ho provato nelle due circostanze sensazioni fra loro molto simili, tanto che mi è parso, durante il confezionamento di questi bozzetti grafici, di rivivere il “divertimento mentale” provato in occasione della scrittura dei testi relativi.

Insomma, ho capito che l'«andar per pensieri linguistico» ha molto a che vedere con l'«andar per pensieri grafico-illustrativo». La stessa gioia liberatoria di abbandonarsi alla follia di certi percorsi mentali quanto mai avulsi da esigenze strettamente razionali e logiche (nel limite della decenza, del “rispetto intellettuale” e di un minimo di comprensibilità, ovvio), la si può assaporare sia scrivendo, sia disegnando.

Questa affinità fra il pensare scritto e quello disegnato (per quanto sia faccenda piuttosto sfuggente) posso cercare di descriverla un po' con l'esempio del buffo disegno da me realizzato a commento di un vecchio raccontino, intitolato la «La topa di Munchausen». Per non sobbarcare l'onere di andarsi a rileggere tutto il testo a chi non ne avesse voglia, riassumo per sommi capi in cosa consisteva il tema di quella lontana storiella. All'epoca avevo acquistato appunto una “topa”: così viene familiarmente chiamato con espressione dialettale, dalle mie parti, il tipico colbacco in stile russo.

Quel copricapo, alquanto inusuale ed eccessivo per le mie latitudini, nella scala di valori dell'utilità immediata, occupava sicuramente una delle posizioni più basse, e mi offrì lo spunto per scrivere alcune divertite considerazioni riguardanti il meccanismo consumistico, spesso basato appunto sulla molla del “desiderare l'inutile”. Nel tempo stesso, tuttavia, non era mia intenzione avventurarmi in un'invettiva apocalittica e totalizzante contro la società dei consumi. La cosa, sostenuta da me che sono a mia volta un innegabile prodotto esistenziale di quella stessa società (già solo il computer su cui sto scrivendo ed il web usato per diffondere le mie parole, basterebbero a ricordamelo), sarebbe suonata piuttosto ipocrita, fasulla, e decisamente improntata ad un atteggiamento inutilmente manicheo. Le degenerazioni del consumismo sono soltanto la faccia offuscata di una medaglia che sull'altro suo verso riporta anche cose buone che vanno sotto il nome di benessere, prosperità, progresso materiale.

Riflettendo appunto su questi aspetti, mi venne allora in mente la figura del barone di Munchausen (protagonista di un'opera dello scrittore del Settecento tedesco, Rudolph Erich Raspe), il quale, fra le tante guasconate da lui raccontate, sosteneva di essersi cavato fuori da una palude in cui stava sprofondando, tirandosi da solo per il suo stesso codino. Mi sembrava l'immagine perfetta per metaforizzare l'atteggiamento del “critico apocalittico” del consumismo, ossia di colui che pretende di stigmatizzare, senza se e senza ma, tutta la complessità di un'epoca storica nella quale egli stesso ha vissuto e sta vivendo in pieno.

Questo era il succo introduttivo del mio testo, che poi evolveva in una faceta storiella, ispirata appunto più da un atteggiamento di ironico disincanto, che non dalla stroncatura dura e pura.

Nell'immagine che ho realizzato per quel raccontino, si vede invece come ho “trasposto” quei contenuti scritti, in contenuti disegnati. Ovviamente, come si potrà capire, non si è trattato di una semplice ed automatica “traduzione”. Il “fulcro iconografico” del disegno ruota sempre attorno alla presenza della “topa” (il colbacco), con tanto di riferimento al barone di Munchausen, rievocato attraverso un guanto, impegnato nella fatidica ed assurda operazione di tirarsi su da sé. Ma poi, per rendere l'idea di certe cavillosità assurde connesse al mondo dei consumi, di certe sue travolgenti illogicità, mi sono affidato ad altri spunti.
 


In pratica, mentre realizzavo il disegno, stava accadendo graficamente ciò che in precedenza era linguisticamente successo, quando confezionavo il testo. Quelle volte che mi metto a scrivere “andando per pensieri”, parto sempre da un’idea vaga e non meglio definita. Col tempo ho imparato che non ci si deve scoraggiare, né tale indefinitezza deve far paura più di tanto. La cosa da fare è invece molto semplice ed immediata: mettersi davanti alla tastiera (o magari prendere la penna in mano) e iniziare a scrivere. Dapprima si parte con in testa il solo nucleo dell’idea di base, ed anche se non è ancora ben definita, l’importante è iniziare a sminuzzarla per iscritto, a sgrossarla come fa lo scultore col blocco del suo materiale da lavorare. Mentre ci si addentra in questa operazione, ci si accorge di un piccolo miracolo: scrivendo, nascono nuove idee. E lo stesso mentre si crea un’immagine: disegnando, nascono nuove idee.

Ecco dunque che a partire dal primo abbozzo grafico della “topa” col guanto pseudo-settecentesco, che da sé si tira su, mi è scattata la molla mentale per andare a rendere ironicamente in immagine l’allegorica idea di certe perverse insensatezze introdotte da una “visione consumistica della realtà”. Mi piaceva far figurare la cosa rievocando quei buffi marchingegni che compaiono a volte nei cartoni animati, e dei quali Gatto Silvestro o Willy il Coyote sono gran “cerimonieri” ed esperti progettisti.

Il guanto è allora a sua volta infilato in una sorta di leva basculante, alla cui estremità è legato un filo che prende tutto a scorrere lungo una sequenza di pulegge, volani, carrucole, l’ultima delle quali termina con un fiammifero rotante come sua propaggine estrema, il quale è mosso dalla sgangherata forza cinetica di tutto il meccanismo. Il fiammifero viene colto proprio nell’attimo in cui il moto circolare ad esso impresso dall’ultima puleggia, lo costringe ad andarsi a sfregare contro un apposito piattello dal dorso “sgrattevole” e “scartavetrante”. Lo “sbraccio” della fiammella innescata dallo strusciamento è poi calcolato in modo da andare a lambire la miccia di una bomba (anch’essa resa nel modo “cartone-animatamente” più evocativo). La bomba è con gran sarcasmo calata a metà in una, “absit iniuria verbis”, tazza del cesso, lasciando così intuire le conseguenze non certo esaltanti che deriveranno dalla molto probabile deflagrazione.

La parte “pregiata” di tutta la composizione tuttavia, sta nel fatto che alla fine non si capisce bene se tutto questo assurdo movimento sia innescato in alto, dall’impercettibile sventolio nell’aria di quel cartellino richiamante una vaga allusione al mondo consumistico (la particolare deformazione dell’espressione nella versione “Li saldi”, si comprende poi leggendo il racconto), oppure se tutta la dinamica derivi “motu proprio” dall’abbrivio del guanto.

Insomma, cari amici viandanti per pensieri, per concludere: vi pare o non vi pare anche questa, seppur sul versante grafico stavolta, una gran gillipixata?


martedì 9 aprile 2013

Il messaggio delle cose


Con tutta l’acqua ch’è venuta, niente di più facile che le fosse si riempissero del senno di poi.

Non c’era nemmeno da faticare più di tanto a notarlo, alcuni giorni fa, mentre facevo una delle mie passeggiate meditative lungo le stradine più romite del contado gillipixilandese. Fossi, fossatelli, canaletti, piccole rogge irrigue, casuali avvallamenti nel bel mezzo dei campi, insomma, ogni cavità o invaso possibile del terreno, si sono ricolmati copiosamente di liquido piovano caduto giù che è uno sproposito.

Non che la cosa lì per lì mi abbia esaltato più di tanto. Vanno considerate infatti anche le concomitanti e ragguardevoli dimensioni assunte nel frattempo dalle virili sfere che ognora reco meco fra le gambe, anomala dilatazione questa, causata giust’appunto dall’insopportabile protrarsi temporale dell’insistente fenomeno pluviale.

Però una volta che, passeggiando, mi sono abbandonato alla pura osservazione “non pregiudiziale”, ho potuto cogliere anche una curiosità non priva di addentellati fascinosi. Un fosso in particolare ha attirato la mia attenzione. Era come tutti gli altri piuttosto pieno della recente pioggia, e fin qui nulla di eccezionale. Il “segno” che invece più intensamente ha stuzzicato il mio stupore, l’ho colto nell’inusuale comportamento della vegetazione sommersa dal rapido accumulo idrico.

Probabilmente proprio per la velocità con cui quel fosso si era riempito, la vegetazione, presente rigogliosa sul suo fondo, è stata come colta di sorpresa, per così dire. Lunghi steli di vari generi d’erbe e piccoli arbusti non hanno subito allora la consueta macerazione che più plausibilmente si verifica nei casi di un lento ristagno. Erano invece tutti distesi in verticale per la loro lunghezza in modo abbastanza naturale, quasi come congelati in una colata d’ambra, oppure come se l’acqua che li accoglieva si comportasse ne più né meno al pari dell’aria. Taluni ciuffetti più lunghi degli altri sbucavano addirittura dal filo dell’acqua.
 



E non so come mai, ma, tra l’osservare quell’erba “in posa idrica” ed il passare a pensare ai Preraffaelliti inglesi, mi ci è voluto poco meno di un secondo. Meraviglia della natura, che reca scritti su di sé già tutti i segni dell’arte di ogni tempo!

Fra gli esponenti principali della corrente preraffaellita, si annovera senz’altro John Millais (Southampton, 1829 – Londra, 1896), e fra i dipinti più noti di Millais c’è anche la celeberrima «Ophelia», struggente opera dedicata alla figura della eroina Shakesperiana, annegata per l’amore non corrispostole dal contorto e labirintico principe di Danimarca, Amleto.
 


Ophelia - John Millais - 1851-52


Ed è stata proprio l’«Ophelia» di Millais a fare da anello di congiunzione fra la mia svagata osservazione di quel fosso e la suggestione preraffaellita dal medesimo suggerita. Il dipinto è senza dubbio portatore di una tragicità conclamata, ma molto stranamente l’atmosfera introdotta dal soggetto non è nemmeno esente da un notevole grado di sensazioni catartiche diffuse. Il fatto terribile di una giovane vita spezzata rimane tutto, ma la composizione suggerisce anche l’idea di immani sofferenze finalmente concluse, di un ritorno ad uno stato di equilibrio determinato da una fusione tra elemento umano ed elemento naturale. Ce n’era più che a sufficienza per l’abbinamento col mio fosso incantato.

A quel punto, siccome dei Preraffaelliti non ricordavo un granché, mi sono andato a vedere cosa dice su di loro la “Bibbia della storia dell’arte”, ossia il testo sempre eccelso, nel suo paradigmatico enunciare, del maestro Giulio Carlo Argan (“L’arte moderna – 1770/1970”, Giulio Carlo Argan, Sansoni Editore, Firenze, 1982 – pag. 218 e seguenti).

E altro che senno di poi, ci ho trovato!

Più che “senno di poi”, si potrebbe definire “senno di allora”, oppure “senno di sempre”. Facendo i debiti distinguo e tenendo rigorosamente conto delle inevitabili distanze fra le epoche (la più abissale delle quali sta nel fatto che per l’Inghilterra ottocentesca Argan parla di «…grassa prosperità economica…», mentre la nostra attuale condizione si attesta proprio sul fronte opposto), ho letto nelle parole del critico d’arte una suggestiva analogia con il clima morale ed esistenziale in cui è immersa ai giorni nostri la nostra nazione.

Riporto i passaggi a mio avviso più significativi:

«…JOHN RUSKIN (1819-1900), il maggior critico europeo del secolo…[…]…come sostiene per l’architettura il ritorno al Gotico, così per l’arte figurativa sostiene il ritorno ai “primitivi”, che per lui erano gli artisti prima di Raffaello, cioè prima del peccato d’orgoglio che aveva fatto dell’arte un’attività intellettuale. Sarà Ruskin il consigliere e difensore della Confraternita dei Preraffaelliti, formata nel 1848 da tre giovani pittori: HOLMAN HUNT (1827-1910), JOHN EVERETT MILLAIS (1829-1896), DANTE GABRIELE ROSSETTI (1828-1882)…».

«…Dopo aver vinto Napoleone, il paese godeva di una grassa prosperità economica, ma scontava l’opposizione alle ideologie rivoluzionarie con l’arretratezza sociale e l’involuzione culturale. Il prezzo del progresso industriale era lo spietato sfruttamento dei lavoratori, l’avvilimento del popolo, la degradazione culturale dei ceti dirigenti. L’arte scade a livello di un basso aneddotismo, di un umorismo da club: con una morale grettamente utilitaria non poteva coesistere un interesse estetico. Quando un interesse estetico rinasce, è per combattere la morale grettamente utilitaria…[…]…Perché l’arte potesse sopravvivere bisognava cambiare la società, e questo doveva essere la missione degli artisti…».

Addirittura, sempre con il più opportuno dei “mutatis mutandis” d’obbligo, fra le parole di Argan ho scovato pure alcuni cenni in grado di evocare (anche se molto alla lontana, certamente) una curiosa affinità con le attuali speranze innescate dalla recente nomina del nuovo Papa:

«…Il movimento preraffaellita è anche indirettamente collegato con la corrente religiosa del cosiddetto risveglio cattolico, che moderatamente reagisce alla scandalosa collusione del puritanesimo anglicano con il capitalismo e relativo imperialismo: del resto la componente religiosa era fondamentale in un programma come quello del gruppo preraffaellita, mirante a recuperare attraverso l’arte l’intrinseca eticità e religiosità del lavoro……[…]…Si afferma la necessità di un nuovo naturalismo, poiché si riconosce alla natura una sua intrinseca poeticità e il carattere di messaggio divino; ma, come mezzo per decifrarlo, non si indica il sentimento della natura, bensì una tecnica pittorica umile, onesta, accurata, simile a quella degli antichi maestri e artigiani. Si procede ad un’imitazione particolaristica delle cose naturali, non già per “rappresentarle”, ma per vivere con esse un’intima comunione che permetterà di scoprire il loro segreto, la loro misteriosa spiritualità: accostandosi al vero con una già formata concezione del mondo si comprometterebbe la possibilità di ricevere in tutta umiltà il messaggio delle cose…».

E’ forse questo che abbiamo smarrito oggi, a tutti i livelli della nostra società, ossia la capacità di saper capire il “messaggio delle cose”? E ancora: forse ci siamo ridotti così anche perché non riusciamo più a comprendere come l’arte non consista in un orpello superfluo destinato a soddisfare gli oziosi gingillamenti cerebrali di astratti sognatori, bensì rappresenti uno strumento consustanziale alla promozione stessa della vita?

Di fatto per il momento, tocca accontentarsi di una certezza sola: a questo punto, per sbrogliare la matassa ci sarebbe bisogno di gente che i fossi li sa saltare per il lungo. E così nell’attesa, io continuo a lambirli di lato nelle mie passeggiate.



giovedì 4 aprile 2013

E le onde stanno a spumare



Un vecchietto viveva una sua vita, in un suo paesello costiero, dove trascorreva una sua giornata dopo un’altra, in riva ad un suo mare, seduto su una sua panchina. Non disdegnava la compagnia, se all’occasione qualche conoscente, o anche uno sconosciuto, capitava a sedersi ad un suo fianco. Ma non gli dispiaceva nemmeno starsene da solo, insieme ad un solo se stesso, a far lambire una fantasia dopo un’altra dall’andirivieni spumoso delle onde rimirate in lontananza.

Un giorno, mentre si abbandonava non si sa bene come, e un po’ più forte del solito, alle sue immaginazioni, il vecchietto venne colto dall’idea di “trasformare il mare” con l’energia del pensiero. Detta così, la questione potrà apparire sintomo inequivocabile di follia conclamata. Ma se la tecnologia avesse fornito a quel tempo un qualche strumento utile per scandagliare dentro le meditazioni del vecchietto (e per fortuna non lo forniva), si sarebbero potute scorgere solo poesia e tenerezze a perdita di pensiero. Nessuna traccia di ossessione, in quel velato utopismo. Solo il consapevole rilassamento di chi, avendo già quasi tutto vissuto, sapeva di non eccedere in stravaganza  nemmeno con quella sua singolare velleità mentale.

“Tras-for-ma-re” era la parola. Di essa il vecchietto s'innamorò.

Se la plasmava nei pensieri, stiracchiandola nei suoi suoni, troncati a piacimento, ora qua ora là infiocchettandola di significati inusuali. “Trans-formare” diveniva ad un tratto, con lieve metamorfosi sillabica: formare oltre, “portare la forma al di là”, al di là dell'ordinario, al di là dell'umanamente accettato e stabilito. Oppure in “tra-sformare” si tramutava il termine: “sformare attraverso”, passare per i vari gradi dell'essere sformato, la realtà come un paio di pantaloni vecchi che si fanno più comodi di man in mano che  vengono indossati, logorandosi un po' nelle cuciture, sulle ginocchia, sul posteriore, ma riservando agio alla modestia, alla persuasione placida di tutte le parti del corpo in essi contenute. E ancora: “trasf...Orma Re!”. Stramba suddivisione verbale con, da una parte, quella sorta di spizzico di locuzione insensata iniziale, più degna di un balbettio innocente (“trasf...”), la quale tuttavia cangiava nel suo secondo spezzone sino ad evocare l'evidenza dell'impronta di un regnante (“...Orma Re!”), incontrovertibilmente rilevata su di un ipotetico suolo.

Qualunque fosse la declinazione che la parola “trasformare” assumeva, c'era di bello che si tuffava sempre in “mare”. Solo per un breve tratto di quel mezzo pomeriggio in cui iniziò a fantasticare così, il vecchietto dubitò veramente della sua saldezza mentale, mentre si addentrava in questi esercizi surreali. «...Non starò mica andando fuori di testa, eh?...» auto-bofonchiava fra sé e sè. Poi però, gli bastarono un paio di occhiate a tutto ciò che gli scorreva intorno, più una fugace rassegna all'insieme dei fatti e delle circostanze da lui vissute nei suoi tanti anni, per ritrovare proprio in se stesso la rassicurazione necessaria: «...ma no, anche da matto, sono sempre il più savio di tutti...».

Da quell'attimo, si sentì libero di poter trasformare il mare come più gli piaceva. Fosse stato per lui, ogni sbuffo di schiuma, ogni risvolto d'onda, ogni ricciolo d'acqua, con tutto il loro compatto contorno di immense spianate verdi-blu, avrebbero dovuto commutarsi in una distesa a perdita d'occhio di petali di fiori. Perché proprio petali? Il vecchietto non se lo sapeva spiegare bene, e si affidava più che altro all'impulso immediato del suo fantasticare.

I petali dei fiori, nel modo di vederli del vecchietto, erano come un secondo mare che aveva smarrito la propria occasione di unità, la propria possibilità di farsi distesa unica e fluttuante. Ogni fiore sbocciato nel mondo era una piccola goccia d'onda che aveva mancato il suo appuntamento di sposalizio con gli altri miliardi di micro-scampoli di tessuto vegetale multicolore, dispersi su mille altri alberi, mille arbusti, steli, gambi, frasche, ramoscelli, tronchi. La totalità dei petali terrestri erano un mare incompiuto e frammentato liberamente nel vento.

Per continuare a non smarrire il contatto con la persuasione di non essere ancora del tutto mentalmente fuso, il vecchietto, nel mentre che si profondeva con grande passione nella sua attività quotidiana di “trasmutator di moti ondosi”, ritagliava per sé anche lunghi intervalli d'attimi dedicati ad altre divagazioni dalle infinite forme, in particolare riflettendo sul fatto che così com'era per i petali, altrettanto si poteva dire degli uomini.

Quante e quali grandiosità attraversano gli animi umani nel corso delle vite? La maggior parte d'esse tuttavia sono grandiosità private, espansioni sentimentali talmente vaste ed al contempo così intime ed intraducibili per qualsiasi sensibilità diversa da quella di colui che le prova, da risultare alla fine come nobilissime torri di solitudine elevate nel mezzo di un deserto affollato da individui fra di loro non comunicanti. Questa moltitudine interiore di attimi sublimi di vita, inconciliabili a vicenda, era un mare irrealizzato tanto quanto quello dei petali di fiore.

Il vecchietto pensava forte a queste cose. E più pensava forte, più sapeva che il mare non sarebbe mai divenuto di petali. Anzi, dopo un po' di tempo il vecchietto comprese meglio il perché del gran fascino suscitato su di lui da questa attività mentale: esso risiedeva nell'assoluta irrealizzabilità. Ogni momento della vita lungamente desiderato con spasmodica aspettativa, oppure con blando auspicio, quando si era poi realizzato aveva portato con sé, oltre alla soddisfazione passeggera, anche un carico di disincanto quasi immediato. Ripensando invece a tutte le cose che durante i suoi anni il vecchietto non era riuscito ad afferrare mai, si accorgeva che in esse si celavano i ricordi più stimolanti.

La vicina di banco del liceo, della quale era segretamente innamorato, e per la quale aveva mutamente penato, senza mai riuscire a farle intendere la propria passione: lei era un antico mare mai divenuto di petali. Il sogno giovanile di riuscire ad essere un grande romanziere, naufragato  senza eccessivo rimpianto nelle piccole soddisfazioni riservate dall'avere in ogni caso scritto tanto, per l'apprezzamento più importante possibile, ossia quello delle persone care e con lui particolarmente in sintonia: erano altre distese fluttuanti d'acqua, mai riuscite a farsi tappeto ondulato di petali.

Il vecchietto così pensava e intanto con fervore annotava. Riempiva taccuini, zeppi di suoi pensieri, o piccoli disegni, idee, scenette istoriate con tratto semplice, scarabocchi spontanei, appunti, noticine varie. E sorrideva, al sentire talvolta le lamentele di qualche coetaneo o giù di lì, saltuariamente seduto al suo fianco per una mezz'oretta di rimpianti rivolti ai bei tempi andati, a quando ancora non era tempo di pensione e gli “impegni veri” coprivano tutta la giornata.

Mentre il mare, lì di fronte, con somma soddisfazione del vecchietto, seguitava a non diventare di petali.

Finché un bel giorno, alla panchina s'appressò una signora, vecchia pure lei, ma di una “vecchiezza” molto bella, con negli occhi, non ancora doma, la stessa luce dei vent'anni solo in apparenza ormai così lontani. Incuriosita da quella gran profusione di scribacchiare meditabondo, non si era potuta trattenere dal rivolgersi al vecchietto: «...La prego di perdonare l'invadenza...» disse la vecchia bella al vecchietto, «...l'ho osservata già parecchie volte, e se mi guardo in giro, non riesco a vedere una persona più soddisfatta di lei nel fare quello che sta facendo. E' troppo se le chiedo cos'è che la tiene così felicemente impegnato per tanto tempo della giornata?...».

Con un misto di sorpresa e conferma per la donna, il vecchietto gioiosamente si pronunciò: «...Ma mia cara, lei non è invadente per nulla, anzi, le rispondo con gran piacere: quello che faccio tutto il giorno qui seduto, non è altro che provare a trasformare il mare in petali, con la forza della mente...». A sentire queste parole, uno sorriso più sconfinato e radioso non si sarebbe potuto dipingere sulle labbra della vecchia bella, la quale, quasi come se quelle medesime sue parole fuoriuscissero dalla bocca di un'altra, sentì se stessa rilanciare: «...Sarebbe allora così gentile da concedermi il privilegio di farle da aiutante “trasformatrice di mare in petali”?...». E da quella volta, il posto sulla panchina alla destra del vecchietto venne impreziosito in pianta stabile dall'ancora graziosissimo sedere della vecchia bella.

Il vecchietto non tardò molto a rendersi conto che il lavoro di squadra giovava parecchio all'attività di trasformazione del mare in petali di fiore. La presenza della vecchia bella era feconda e rivitalizzante. Con lei nessun argomento di conversazione era mai troppo strano o impegnativo. Insieme alla vecchia bella, il vecchietto si poteva inoltrare in qualsiasi territorio dell'ordinario parlare e persino della surrealtà, stando sicuro di fare ritorno ogni volta con la mente e la fantasia arricchite.

Addirittura, verso il tardo pomeriggio di una giornata trascorsa tra mille chiacchiere errabonde, l'aria s'era appena affacciata sui primi gradini di un tramonto particolarmente arancione, quando il vecchietto sentì così profondamente la vicinanza della sua vecchia bella, assaporò una sintonia con lei talmente intensa, da temere per un attimo che il mare si fosse davvero trasformato in petali di fiore. Tirò subito un sospiro di sollievo, appena si accorse che si era trattato soltanto di un piccolo gioco di luce innescato dal sole basso e sonnacchioso di fine giornata, infiltrato placidamente fra le frasche di un albero. Non c'era stata nessuna mutazione in petali, ma molto più semplicemente, il vecchietto si era limitato in modo squisitamente montaliano ad «...osservare tra frondi il palpitare / lontano di scaglie di mare...», le quali per un'infinitesima frazione di nanosecondo gli erano apparse come grossi petali rosso scuri. Il lavoro di trasformatori di mare in petali, anche per quella volta era salvo.

Una mattina, la vecchia bella, venendo alla panchina, la trovò vuota. Il suo caro vecchietto non s'era presentato.

Ora, se la presente fosse stata una normale storia delle mille che appestano l'ordinario lettore d'impostazione studioapertistica, ormai pienamente assuefatto alla diffusa atmosfera “avvoltoia” che intride l'aria tutta di brunovespevole banalità del male, a questo punto nulla sarebbe stato più scontato del dedurre una brutta fine per il povero vecchietto. Ma col ca...col cauto ottimismo dei folli, che lui era morto!!!

Infatti, la vecchia bella non fece nemmeno in tempo a preoccuparsi di quell'assenza a sorpresa, che un bambinetto timiduzzo le si avvicinò sorridendo e silenzioso, consegnandole una lettera. Era indirizzata «Alla mia cara vecchia bella». Nel bigliettino all'interno, fuoriuscito insieme a un profluvio di petali dagli odorosi colori, c'era scritto: «...Ti aspetto a pranzo da me a mezzogiorno e un quarto. Ti preparo spaghetti al pomodoro, pizza e patatine fritte. Poi cin-cinniamo con la grappa di rose. Sono gradite le mutandone leopardate...». Firmato: «...Il tuo vecchietto - Via dei Giratubi in Fiore, numero 8 – Quartiere Ecosistema Intatto – Codice di Sviamento Postale: # ⅞ @ - Un nostro Paesello...».

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MA QUANTO E' BELLA L'ARETHONA?!?!?!

martedì 2 aprile 2013

I sapientoni a cul in aria



Riprendo una rubrichetta folle, inaugurata tempo fa, ma poi non più coltivata come si deve. L'avevo intitolata “La notizia che avreste voluto leggere”. In essa s'inventano falsi articoli di giornale, contenenti avvenimenti mai successi, ma presumibilmente molto auspicati dal “comune senso del possibile”. Sentite un po' cosa “non” è successo alcuni giorni fa...


- I sapientoni a cul in aria -
Clamoroso alla trasmissione “Master chef Italia”

Insospettabile e mite casalinga vendica l'onore dell'umanità intera

Finalmente anche la casalinga di Voghera ha avuto i suoi cinque minuti di gloria. L'epocale rivalsa si è concretizzata nel corso delle registrazioni della nota trasmissione tv “Master chef Italia”. Protagonista dell'eroico gesto, uno scricciolo di donna che si era presentata al concorso culinario con l'animo colmo di speranze e di passione per l'arte dell'elaborar pietanze.

Giuseppina Fragilini, questo il nome della aspirante chef, non supera il metro e cinquantacinque di statura, per poco più di 44 chilogrammi di timidezza, ma s'è trasformata in un vero e proprio piccolo concentrato di forza e  vendetta, nei pochi attimi della sua esaltante e fulgida ribellione. I fatti si sono svolti nei giorni scorsi, ma solo ora la notizia è trapelata, perché la puntata contenente l'episodio in questione viene momentaneamente tenuta segreta, anche se sta già montando l'acclamazione popolare ad esigerne a gran voce la divulgazione in prima serata a reti unificate sui principali canali nazionali.

Giuseppina era giunta alla sua quarta comparizione di fronte ad uno dei vari, severi e spietati, giudici sbeffeggiatori. Com'è noto, il clou del programma è incentrato esattamente intorno all'umiliazione pura inferta ad inermi esseri umani. La preparazione dei cibi e la passione per la cucina, alla fine risultano essere soltanto un mero pretesto. A nessuno frega niente di ricette e ingredienti, l'obiettivo primario è prendere delle persone comuni e farle sentire, per dirla con aulica citazione fantozziana, delle vere e proprie “merdacce”. Nessun tipo di insulto ed angheria verbale vengono risparmiati ai poveri sventurati aspiranti cuochi: dalla subdola ed avvilente ironia, ai riferimenti più personali e privati.

Ma questa volta, ad uno degli incauti giudici, male, molto male, gliene incolse. Ritrovatosi sotto le telecamere per l'ennesima sequela di insulti da scatenare in faccia all'inerme Giuseppina, credeva di poterla mortificare all'inverosimile ancora e ancora, a suo completo piacimento. Non aveva fatto i conti però con l'orgoglio e la forza femminili custoditi nell'animo di questa nuova eroina popolare. La graziosa concorrente presentava stavolta una delicata mousse di verdure, guarnita con tanto di gradevole decorazione perfettamente in tema. Non ha quasi fatto in tempo a posare la sua ciotolina sul tavolo, che subito è partita la gragnuola di offese da parte del cerbero giudicante. Dopo tre minuti ininterrotti di frasi mortificanti inghiottite insieme alle lacrime e una tempesta di contumelie irripetibili (fra le quali, la più clemente che possiamo riportare  è: «...la schifezza che hai preparato si presenta come una scodella di vomito di cane...»), l'orgoglio fragile di Giuseppina s'è tramutato in uragano.

Da una tasca nascosta del grembiule che indossava, con una sicurezza di movenze che i fortunati testimoni di quegli indimenticabili attimi hanno poi definito come un “gesto di rara bellezza atletica”, Giuseppina ha estratto un piccolo ma solidissimo “tortore” in gomma con l'anima di piombo, e senza interrompere per una sola frazione di secondo la fulmineità del suo agire, ha assestato una tremenda mazzata al volto del blaterante insultatore.

Sempre i medesimi privilegiati ai quali è toccato in sorte di presenziare allo storico evento, hanno avuto a descrivere il micidiale colpo come una “vigorosa randellata d'altri tempi”. «...Frata-crack...»: è così che pare abbia risuonato per tutto lo studio televisivo, ancora a detta degli astanti, la tremenda botta inferta da Giuseppina sulla mandibola dell'incauto sapientone culinario. Dalle prime indiscrezioni trapelate, si dice che la nobile “ganascia sputa sentenze” si sia fratturata in due diversi punti, il che obbligherà “l'ingiusto giustiziere ora giustamente giustiziato” a nutrirsi con la cannuccia almeno per i prossimi tre mesi.

Il gesto di ribellione dell'eroica Giuseppina non è poi rimasto isolato. Il liberatorio tonfo del «...frata-crack...», risuonando per tutto lo studio di registrazione come un inequivocabile grido di battaglia, ha coalizzato infatti tutti gli altri concorrenti in una generale insurrezione. Catturato al completo e trattenuto in ostaggio per molte ore, lo staff dei giudici è stato costretto ad ingollare fondine e fondine di riso stracotto e scondito, con contorno di pane secco inzuppato in sciacquatura di piatti. A stento i malcapitati sono stati sottratti dalle grinfie dei vendicatori, grazie all'intervento provvidenziale dei poliziotti, i quali a loro volta, solo per zelo professionale, si sono trattenuti dall'assestare una qualche manganellata agli scornacchiati giudici ex sentenzianti.

Riportiamo infine un aggiornamento dell'ultima ora: per acclamazione popolare, la benemerita Giuseppina Fragilini è stata segnalata come degna di essere insignita della onorificenza di Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana.