martedì 27 settembre 2011

Venti di declassamento


Un tale si era da sempre fatto suo punto d’onore di essere un grandissimo scoreggione. Sentiva di esserlo con gran classe, questo almeno stando al suo modesto parere. Come si fa ad essere scoreggione e di classe? I due termini sembrano elidersi inesorabilmente, senza lasciare scarto alcuno di significato residuale.

Sarà anche così, ma tanto per dirne una, questo nostro amico (perché do per scontato che a questo punto sia diventato anche un po’ amico vostro…) praticava la sua arte badando bene di non eccedere mai in invadenza. Nel caso di minimo sospetto che una sua performance avesse infastidito qualcuno degli astanti, si guardava bene dal dare inizio alle danze. Si esibiva solo quando era certo che la cosa si fosse rivelata foriera soltanto di momenti d’ilarità. Certo, un’ilarità sguaiata e pecoreccia, ma anche proprio per questo, si premurava di conoscere in anticipo il senso di sopportazione all’esser grevi dei potenziali uditori.

Faceva poi capitare le sue eoliche imprese come se derivassero ogni volta dalla massima genuinità ed estemporaneità. Anche di questo andava piuttosto fiero: ci teneva che tutto si presentasse come un evento dal sapore spontaneo e non artefatto (e non fate battutacce sotto in baffi, cambiando alla vigliacca l’indirizzo sensoriale della metafora…). Non da ultimo, fra le numerose altre sue preoccupazioni, c’era anche quella di non mettersi mai sotto vento.

Insomma, scusate se è poco e se non è classe tutto ciò…

Ma questa non è tanto la storia del nostro scoreggione di gran classe, bensì del giorno in cui di questo inusitato virtuosismo artistico venne a conoscenza uno scrupolosissimo e iper-pedante impiegato dell’agenzia di rating «Puzz-al-nas». Negli ultimi tempi, già in diverse occasione, lo zelante operatore economico aveva dato adito nei colleghi d’ufficio a non pochi sospetti di eccessiva intransigenza. Per dirla tutta e in poche parole, c’era chi era ormai convinto che stesse sbiellando proprio.

Si era messo a prendere il suo compito dapprima in misura esorbitante lo stretto ambito economico, e poi via via degenerando, si andava auto-convincendo di essere divenuto un “agente giudicante universale”, investito di una sorta di fatale compito e dovere di esprimere valutazioni su tutte le cose e su tutti gli individui immaginabili.

Quando s’insinuò nella compagnia dello scoreggione di gran classe, l’impiegato lo fece con tutte le accortezze più subdole e surrettizie. Si finse amante della crassa risata e della battuta grossolana, ostentò goliardia oltremodo disinibita, atteggiandosi a grande amicone di tutti. Lo scoreggione di gran classe, rassicurato dalla piega sguaiatamente ridanciana che la serata era andata prendendo, anche proprio grazie alla freschezza godereccia introdotta dal nuovo amico, cogliendo il momento di massima sintonia amicale, si produsse in una delle più ispirate espressioni della propria perizia pneumatica.

«…Pruuuooowwwttthhhnnnzzzssssfffssstrak!!!...» riecheggiò l’acuto, fra gli incontenibili sghignazzi di tutta la combriccola. Risate di tutti, tranne che di uno: il cavilloso impiegato, che estraendo dal taschino la sua tessera di riconoscimento, si accreditò nella sua vera identità di squalificatore planetario: «…Fermi tutti: questa è un’ispezione ufficiale e…», indicando platealmente l’ignaro uomo ventilante, «…questo è uno scoreggiatore sopravvalutato! La tua fama è ingiustificata: ti declasso d’ufficio dal livello tripla A+, alla doppia B-…».

Oltre ad aver rovinato a tutti quanti una serata altrimenti memorabile, non s’immagina nemmeno lo scoramento che l’episodio causò in seno alla povera vittima della degradazione. Da quella sera, non solo non calcò mai più la sua strada espressiva prediletta, ma divenne uno dei più solerti attivisti di “Bi-fi-dus”, il movimento umanitario di lotta acerrima contro il gonfiore addominale.

Dal canto del sofistico “svalutatore” dell’agenzia «Puzz-al-nas» invece, il fatto non fece altro che accrescerne la tracotanza e la boria d’autocompiacimento. Gliele aveva cantate, a quel millantatore di scoreggiato credito!

Da lì in avanti, fu una valanga delirante di onnipotenza declassante.

Un giorno, entrato in un bar, notò un avventore intento a sorseggiare il suo caffè. Nell’atto del rimescolio, una goccia della sua spremuta d'asfalto tracimò inavvertitamente sul bancone. «…Outlook negativo!...» si mise a sbraitare di colpo il segugio impiegatizio alla volta del cliente del bar, «…questo è solo un avvertimento, ma alla prossima mossa falsa, ti declasso a bevitore di caffè AA meno...».

Anche in casa, ormai non lo sopportavano più.

Nel giro di pochi giorni, aveva declassato il tosaerba, la lavastoviglie, la cuccia del cane ed il nonno, rivelandogli spietatamente la triste realtà della sua fulminea trasformazione, in sole poche ore di intervallo, da “esponente della terza età”, ad “anziano”, a “vecchio” infine, e ricevendo in risposta dall’arzillo suocero un’enigmatica sentenza che l’invasato operatore economico fraintese come un non meglio precisato aforisma di Adam Smith, forse letto da qualche parte ai tempi dell’università, però ormai semi-dimenticato: «…Ma va a dà via i ciàp!...».

La nemesi storica era tuttavia appostata dietro l’angolo.

Una sera, dopo aver fatto stancamente l’amore con la moglie, come bizzarro sostitutivo dell’accensione della più classica sigaretta, egli si alzò di scatto dal letto, inveendo, nudo, in faccia alla consorte: «…Ti abbasso il rating: da adesso sei un’amante di classe A semplice…». Il caso volle che l’indomani fosse già stato convocato l’idraulico, per una riparazione alla caldaia. Mentre il solerte declassatore era in giro per le strade della città a seminare sfiducia su cose e persone, la moglie fece in modo che l’aitante operaio la cogliesse casualmente discinta sul divano, nell’atto di prodursi in uno “spread” dalla panoramica apertura assai generosa. Lo sveglio “traffica-tubi” non ebbe bisogno di tante spiegazioni ulteriori, ricordandosi immantinente di una dotazione particolarmente cospicua di “bund” da lui medesimo goduta.

«…Spread - bund…bund - spread…spread - bund...bund - spread…» fu l’anomalo tramestio ritmato che giunse all’orecchio dell’impiegato della «Puzz-al-nas», mentre rincasava anticipatamente con l’intento di attuare qualche altra squalifica domestica a sorpresa. Da sottile esperto di rumors, non gli ci volle tanto per capire la natura di quelle sonorità e, dopo un sacco di tempo a quella parte, si trattò del primo apprezzamento di categoria da lui sentenziato: da sempliciotto doppia C, si auto-promosse a coglionaccio tripla A positiva.


lunedì 26 settembre 2011

Hasta luego, Sergio


Oggi, quando ho sentito che te n'eri andato verso la libertà delle grandi praterie, due grossi lacrimoni mi sono corsi lungo le guance.
Ma non lo dico troppo forte, altrimenti, se mi sentono Tex e Carson, non la smetteno più di darmi del rammollito.

sabato 24 settembre 2011

Joan Mirò: il profondo in presa diretta


Esiste una corrispondenza “necessaria” fra i segni di cui il mondo è pervadente ed onnicomprensivo portatore, ed i significati che ad essi l’uomo applica più o meno arbitrariamente, più o meno fondatamente?

Mi è venuto da pormi questa domanda, mentre riflettevo su alcune cose lette riguardo alla poetica del grande maestro catalano Joan Mirò (Barcellona, 1893 - Palma di Maiorca, 1983), ovviamente facendo riferimento in principal modo alla storia dell’arte di Giulio Carlo Argan, mia imprescindibile guida bibliografica per quanto riguarda la materia.

Si obietterà: ma non potevi drogarti anche te, o lavare la macchina, oppure andare all’ipermercato come fanno tutte le persone normali nel fine settimana? Eh, va beh, cari amici viandanti per pensieri, avete ragione pure voi. Ma portate pazienza, cosa ci volete fare, ognuno si fa del male un po’ a modo suo, come meglio gli riesce.

Se fate un attimo mente locale e vi fermate a riflettere su quale possa dirsi l’attività umana forse più caratterizzante e peculiare fra le tante, non andrete molto lontano dall’affermare che essa costantemente risiede nell’atto di «attribuire significati». Magari non ci fa caso più di tanto, oppure l’attitudine gode di un’assiduità talmente stabile da passare ormai quasi inosservata, ma di fatto è questo che l’uomo continuamente fa: attribuisce significati, a tutte le cose e a ciascun fenomeno o essere col quale entri in qualche modo in relazione.

In pratica anche tutti gli altri esseri viventi lo fanno, probabilmente le stesse piante e i vegetali in genere. A fondamento di tutto, sta lo scopo ultimo inseguito da ciascuna porzione di “essere” distribuita nel mondo e circoscritta nei limiti della propria identità: sopravvivere. Solo sul gradino più alto della scala, tuttavia, troviamo un tipo di essere vivente ugualmente preoccupato della propria sopravvivenza materiale, tanto quanto di quella spirituale: l’uomo. Il sopravvivere dunque inteso a partire dalla sua accezione di base, ossia quella che rimanda al puro “rimanere in vita”, sino alla sua più raffinata estrinsecazione che ha a che fare con la tendenza a massimizzare il benessere e possibilmente la gioia e la felicità, minimizzando nel contempo dolore, sofferenza, fastidio ed altre amenità simili: questo è il tipo di “sopravvivere” che muove la propensione umana alla “significazione”.

I significati “attribuiti” dall’uomo alle infinite entità che nel mondo lo circondano, non devono però fare i conti esclusivamente con un’unica origine esterna. A complicare lo scenario ci si mettono anche una miriade di fonti interne, ossia tutto il capitolo dei moti inconsci e più profondi del nostro sentire e percepire la realtà e noi stessi. La “sopravvivenza” dell’uomo non si riduce allora solo ad una questione di corretta interpretazione dei segni esteriori. Essa è perturbata di continuo dalle interferenze, dai disturbi di “frequenza esistenziale”, ininterrottamente introdotti dall’«emittente radio» dell’inconscio.

La faccenda s’ingarbuglia poi ulteriormente, se si tiene conto che il gracchiare radiofonico interiore non solo è fonte di segni ulteriori rispetto a quelli trasmessi dal mondo, ma è esso stesso fattore attivo nell’atto dell’interpretazione della realtà che l’uomo opera attribuendo ad essa significati.

Sì, va beh, ma in tutto questo, si può sapere che minchia c’entra Mirò? Vi confesso che, ad essere proprio sincero, non sono così tanto sicuro che c’entri qualcosa. In ogni caso, dal momento che ormai ho pipponeggiato alla grande da par mio, vado fino in fondo. Se un nesso lo possiamo trovare, a mio avviso sta proprio in quella domanda con la quale ho aperto il presente articoletto.



A quella domanda, Mirò ribatte che non importa dare una risposta. L’espressione artistica di Mirò, la sua “soluzione figurativa”, si pone esattamente sul limite condiviso da segno e da significato. Non parteggia per nessuno dei due, non vuole indagare se il secondo renda conto correttamente del primo, né gli interessa proporre nuovi significati interpretativi dei segni tratti dal mondo. A Mirò basta sapere che così è.

“Il carnevale di Arlecchino” - 1925

«…Se le immagini di Mirò si configurano come stelle o falci di luna o corolle e stami di fiori v’è certamente una motivazione inconscia; ma è tale l’evidenza, la chiarezza del segno e del colore che non si cerca alcun significato secondo al di là della percezione. La profondità dell’inconscio si risolve totalmente nella superficie dell’immagine visiva. Tra la motivazione occulta e l’evidenza scoperta dall’immagine c’è soltanto l’azione del pittore. La motivazione non è una causa a cui corrisponde logicamente un effetto, è un impulso che si trasmette e perdura nel gesto che forma l’immagine...[…]. L’immagine non è una proiezione, ma un prolungamento dell’essere profondo dell’artista: un venire a galla per respirare una boccata d’aria, brillare per un istante al sole…».

“L’arte moderna”
Giulio Carlo Argan - 1970

Aggiunge ancora il professor Flavio Caroli:

«…Quando lo spazio rinascimentale diventerà pura placenta stellare o psichica, lo scopo sarà raggiunto…[…]…Mirò ha agguantato la liquidità dello spazio…».

La storia dell’arte raccontata da Flavio Caroli” – 2001

“Donne e uccelli al levar del sole” - 1946

La pittura di Mirò non è dunque imitazione dei segni del mondo e nemmeno loro interpretazione, né un misto delle due cose. Esprime invece la meraviglia pura insita nell’atto umano di cogliere percettivamente ed emotivamente il mondo dentro e su di sé. Mirò affranca il gesto pittorico dal duplice obbligo di essere testimone dei “segni” reperiti nel mondo, oppure di essere tramite all’espressione di loro possibili “significati”. La “sopravvivenza”, nella poetica del maestro spagnolo, si scrolla di dosso la pesantezza della necessità, per divenire propensione ammantata dal velo lieve della gratuità.

«…E’ il segno stesso, come traccia del gesto, che conduce all’origine del mito, al punto d’indistinzione e comunicazione tra vita biologica e psichica: ad una condizione veramente naturale dell’essere…[…]…la pittura di Mirò è chiaramente ludica, non “seria”… […]…Con la sua tecnica spontanea, ad una società che tanto meno crea quanto più produce Mirò dimostra che, se il produrre è fatica, il creare è gioco…».

Per concludere, cari amici viandanti per pensieri, come anche questo mio nuovo articoletto sta a dimostrare, è sempre molto arduo trattare questi argomenti così complessi e per loro natura fuggevoli quando sono estrapolati al di fuori del mezzo espressivo di loro competenza, ossia segno grafico e colore.

Consoliamoci pensando che a parlare d’arte, difficilmente ci si azzecca, ma perlomeno non si fa peccato.

giovedì 22 settembre 2011

Rigenerati ciclici a rotazione periodica ripetitiva e miticamente cadenzata nei suffissi diagonali che lambiscono le temporalità umane zigzaganti...

Rigenerati ciclici a rotazione periodica ripetitiva e miticamente cadenzata nei suffissi diagonali che lambiscono le temporalità umane zigzaganti fra il non fare e l’aspettare

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Se penso che sono dovuti passare 38 anni perché mi accorgessi di questa canzone sublime, da una parte provo un po’ di delusione, per essere stato sordo sino a questo punto e per le infinite occasioni perse di poterla godere in età precedenti.

Per altri aspetti invece, non posso che provare gioia.

Gioia, nel constatare ancora una volta come l’essenza della vita sia costituita fondamentalmente di stupore inatteso. Gioia, nel pensare che, anche se ora non me le aspetto con precisione, né le conosco ancora, tante altre rivelazioni simili attendono di scaturire dal magma del domani.

Persone nuove da scoprire e da avere per amiche, altri libri in cui immergersi, altri sorrisi di donna nei quali annegare lo sguardo, altri film meravigliosi, altri scritti da inseguire, nuove idee dalle quali sentirsi avvolti ed avvinghiati sino all’ultimo neurone, sino al più intimo sospiro d’incanto.

Per oggi questo articoletto finisce qui, perché pur volendo in teoria essere una degna trasposizione in parole della bellezza provata attraverso l’epifania che questa canzone mi ha regalato, di fatto, esso medesimo articoletto, si sente inadeguato allo scopo.

Tutto quello che c’era da dire, se mai qualcosa da dire ci fosse stato, lo potete trovare nel titolo.

domenica 18 settembre 2011

Un amore fisioterapico


Prona sul lettino ambulatoriale, lungo i lombi il sapiente tocco delle mani di lui, fantasticava:
«…Sai, caro…se un giorno decideremo di sposarci, desidererei tanto che la cerimonia fosse accompagnata dalle note di “Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band”…».
«…Meraviglia delle meraviglie! Non ci crederai, tesoro, ma stavo pensando esattamente alla stessa cosa!...».
E fu così che al narratore non rimase altro che il piacere della chiosa: mai al mondo si diede più fulgido esempio di così intima e condivisa “discopatia”.

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[…N.d.a.: Giuro che non so come faccio ad essere così stupido!… Lo giuro proprio!...]

venerdì 16 settembre 2011

Io Tarzan, tu homo post-prospetticus


Quando ci rechiamo in un museo, ad una mostra, quando ammiriamo un edificio, o entriamo in una chiesa di particolare pregio artistico-architettonico, oppure nel momento in cui prendiamo in mano un libro d’arte, ci dobbiamo aspettare qualcosa che educhi il nostro modo di vedere il mondo, oppure qualcosa che ci parli di come il nostro modo di vedere il mondo è stato educato?

Una risposta precisa, fra le due possibili alternative, credo non la si possa fissare. Io direi che possiamo trovare parecchia verità in entrambe. I quadri e le opere d’arte in generale sono specchi che riflettono parecchio della nostra identità culturale ed umana, aiutandoci nel contempo a comprenderne certe sfumature più oscure ed occultate dietro il velo della complessità. Sono insomma specchi che non solo rimandano l’immagine, ma che ci fanno anche capire come essa si sia formata, qual è stato il clima esistenziale in cui s’è forgiata.

L’interazione fra uomo è mondo è faccenda assai complessa. Essa consta di un incessante scambio in andata e ritorno di stimoli sensoriali e mental-affettivi, con l’aggiunta di una raffinatissima elaborazione che di questi viene realizzata interiormente. Il mondo cambia noi, mentre noi cambiamo lui (o perlomeno, presumiamo di farlo…). In questo senso il nostro sapere s’«informa» continuamente delle misure e delle proporzioni del mondo, mentre il mondo a sua volta è «informato» e delimitato dalla narrazione derivante dal nostro sapere.

«…L’uomo si distingue dagli altri animali per la capacità di armare i suoi sensi, anzi di prolungarli mediante l’assunzione di utensili, e di acquisire una abilità tecnica nell’usarli. Ma non basta ancora, poiché anche presso certe specie animali si potrebbe trovare questa stessa facoltà di assumere utensili e di raggiungere un’abilità tecnica; l’uomo si caratterizza ulteriormente per il fatto di saper rinnovare le proprie tecniche, liberandosi di tanto in tanto di quelle rivelatesi non più efficaci, e inventandone altre più idonee. Inoltre, questo stesso prolungamento tecnologico è tale da superare il fastidioso bisticcio tra la materia e l’idea, il corpo e la mente: l’uomo prolunga indifferentemente (o meglio, congiuntamente) sia la rete sensoriale, sia il sistema nervoso…».

L’arte contemporanea
Renato Barilli - 1984

Ogni epoca è inserita in una sua propria “griglia culturale-interpretativa” della realtà. Anzi, si può dire che il passaggio dall’una all’altra epoca è stato quasi sempre segnato dal modificarsi di questa griglia. Ogni uomo, nella specifica epoca in cui gli è capitato in sorte di vivere, non solo tocca, vede, ascolta, gusta, odora il mondo, ma lo fa entro un orizzonte di coordinate culturali a loro volta delimitanti l’«atmosfera umana» dell’epoca in questione.

Si tratta di un circuito per certi versi “virtuoso” e per certi altri “vizioso”.

“Virtuoso”, perché dà adito ad un meccanismo che si autoalimenta: l’intervento umano sul mondo lo può migliorare, raffinare, portare sulla strada di una progressiva tendenza ad assumere complessità positive, e tale miglioramento finisce per riflettersi di rimando sull’uomo, stimolandone a sua volta l’impreziosimento interiore, e così via.

“Vizioso”, perché difficile da afferrare, capire e penetrare, come accadde con tutti i fenomeni in cui si è immersi talmente in profondità da non riuscire più ad osservarli con il distacco e la distanza necessari per comprenderne le dinamiche interne nella loro effettività.

Ecco, fra le innumerevoli cose che l’arte fa, c’è anche la duplice proprietà di saper esaltare quella “virtuosità” di cui parlavo sopra e nel contempo di provare a tirarci fuori dalle secche della speculare “viziosità” citata. L’arte aiuta a capire il mondo, alimentandone nuove possibili interpretazioni.

In diverse altre “puntate artistiche” a voi precedentemente propinate, ho preso in considerazione l’opera di alcuni protagonisti dell’arte contemporanea. Una delle motivazioni più decise che abbiamo visto spesso ricorrere nell’ambito della poetica di diversi di questi grandi autori è stata la volontà di superamento della prospettiva. Ma perché fra le coordinate dell’«inferriata prospettica», per secoli l’arte ci ha praticamente navigato a tutto vapore, ne ha fatto il proprio humus, il proprio habitat naturale, e poi ad un certo punto s’è messa a schifarla come se a sentirsi avvolti da essa fosse lo stesso che stare dentro ad una chiavica?

La risposta è semplice (per modo di dire): aveva avuto inizio la contemporaneità.
Se con l’introduzione della prospettiva, venne battezzato l’ingresso nell’epoca moderna, è stato soltanto col suo superamento che abbiamo potuto tuffarci a pesce e sguazzare di conseguenza nel non sempre limpido laghetto dell’acqua contemporanea.

Ma queste sono un po’ frasi fatte, slogan a buon mercato difficilmente in grado di mordere a fondo, fino a giungere ad assaggiare il sapore effettivo di un significato che soddisfi al meglio il palato concettuale. Vediamo se si può fare di meglio.

Riassumendo, la domanda è sostanzialmente questa: perché con la prospettiva ha inizio l’epoca moderna, mentre col suo superamento s’inaugura quella contemporanea?

Un’inedita ed affascinante “spiegazione-suggestione” riguardo a questo fatto l’ho ritrovata nel già citato testo del professor Renato Barilli (al quale è dovuto ovviamente anche un po’ tutto il ragionamento di questo articoletto). Secondo l’autorevole parere del professor Barilli, ad andare a grattare la trama della griglia prospettica, ci si ritrova sotto una “griglia culturale” fortemente influenzata dall’invenzione della stampa a caratteri mobili.

Nel blocchetto dei caratteri stampati, da Gutenberg in poi si andò condensando l’elemento simbolico più importante nell’opera di “metaforizzare” quel punto di contatto e di scambio fra uomo e mondo di cui ho parlato in apertura.

La realtà veniva inquadrata dal rettangolo della pagina stampata in un orizzonte precisamente delineato, entro il quale ci si muoveva secondo precisi binari lineari e ben misurati, sulla base di direzioni sempre uguali e ben codificate (l’andirivieni dell’occhio lungo le righe). Può sembrare un’ipotesi estrema e bizantina, ma considerate che da allora il sapere tende ad assumere la forma dello stampato. E’ un dettaglio, a prima vista, ma a ben soppesarlo ha un’importanza notevole.

Un dispositivo di sensibilità spaziale e culturale molto simile veniva introdotto dalla prospettiva. Muovendoci nell’ambiente prospettico, ci troviamo a confrontarci con uno spazio perfettamente misurabile, meccanicamente organizzato secondo una logica di causa ed effetto, uno spazio in cui la sequenzialità è rispettata in maniera rigorosa (come nella lettura, appunto).

Lo spazio prospettico è fatto di porzioni fedelmente rappresentanti un prima ed un dopo: se sono posizionato in un punto lontano, rimpicciolisco, mentre avvicinandomi all’osservatore, aumento di dimensione. C’è sempre un’esatta rispondenza logica fra posizione, distanza, grandezza. L’aumento o la diminuzione di grandezza significa spostamento misurabile e precisamente posizionabile lungo lo spazio. Spazio e tempo sono indissolubilmente stretti l’uno all’altro nell’abbraccio «newtoniano» (velocità = spazio\tempo), che ne fa praticamente un’unica entità bicefala.

Secondo il professor Barilli, l’epoca contemporanea (databile, a grandi linee, a partire dal secondo decennio del XIX secolo) supera invece la modernità con l’introduzione di un nuovo importante “macro-capitolo tecnologico”, che avrà riflessi inevitabili sulla direzione culturale verso la quale il sapere, da allora in poi, muterà la consapevolezza di se stesso. Questo nuovo fattore intervenuto è l’invenzione dell’elettricità.

Non a caso, al nuovo “mondo elettrico” la prospettiva andrà sempre più stretta. L’«anti-prospettivismo» è la “cifra” inevitabile di questo nuovo mondo. Per questo, a partire da Paul Cézanne come primo grande precursore, la prospettiva verrà abbandonata come categoria ormai incapace di raccontare la relazione fra uomo e realtà.

Il “mondo elettrico” non può ubbidire più ai dettami imposti da un gradiente spaziale. La sequenzialità viene scalzata dalla simultaneità. L’attitudine a spostarsi gradatamente lungo tragitti misurati, viene sbaragliata dalla facoltà di superare le distanze istantaneamente. Il tempo, che la prospettiva poteva allegoricamente fondere e confondere in accoppiate del tipo “lontano = passato” oppure “vicino = presente”, tende ora invece ad attestarsi tutto su un perenne sentimento del “costante presente”.

Causa ed effetto non sono più discernibili in maniera precisa, nettamente stagliati contro l’orizzonte. Cause, effetti, analogie, similitudini, echi reciproci, s’intrecciano nel nuovo “mondo elettrico” in una rete molto complessa, in una matassa della quale è assai difficile, se non impossibile, andare a trovare i capi estremi. Se non temessi di sembrare un super-fanfarone culturale, aggiungerei addirittura che con la contemporaneità si supera per certi versi anche l’avvinghiante abbraccio “newtoniano” fra spazio e tempo, per approdare sulle inedite e spaesanti spiagge del principio di indeterminazione di Eisenberg…ma dato che così facendo, il tasso di fanfaronismo supererebbe il livello di guardia, quasi quasi mi astengo…

Per questo dunque l’arte contemporanea è così presa dal superamento della prospettiva. Perché essa era ormai un contenitore scaduto, non più in grado di racchiudere fedelmente il modo in cui l’uomo aveva preso a sentire se stesso nel mondo.

Insomma, cari amici viandanti per pensieri, come vedete il discorso è lungo e parecchio articolato. A cercare di dipanarlo nel giro di uno sgangherato articoletto, si pecca forse un po’ di presunzione. Con il fondamentale aiuto del professor Barilli, io ci ho provato. Poi di robe ce ne sarebbero altre mille da aggiungere. Intanto accontentatevi di queste. Sempre meglio di mezz’ora passata ad ascoltare la De Filippi.

O almeno spero…

domenica 11 settembre 2011

Gilli Pixelfredi

«…My future is so bright...
I gotta wear sunglasses...»

Letto stamane su una maglietta
indossata da una leggiadra signorina -

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Mi è scappato piuttosto da ridere nei giorni scorsi, incappando in un curioso articoletto, recante uno di quei periodici sbalordimenti parascientifici grazie ai quali, secondo i giornali, l’«ingonzimento» delle capacità critiche del lettore medio sarebbe garantito al limone.

Se non vi va di sbarbarvi per intero il testo linkato, vi agevolo io una breve sintesi del succo dell’articolo, secondo il quale in sostanza l’uomo con l’anulare di lunghezza pari o maggiore dell’indice, sarebbe un gran maschio, un virilone schianta-tope che non ce ne rimane più per nessuno, un tizio dal carattere aggressivo che tende ad imporsi sugli altri, un bellimbusto sprizzante testosterone da tutti i pori, per di più portato per le materie scientifiche e per certi sport. Insomma, un super sessualoide semi-sgarbato e preferibilmente mal sbarbato (questa l’ho messa più che altro perché mi piaceva fare rima…).

Ma qual è stato il motivo preciso di tanta ilarità, vi domanderete voi. D’accordo, la notizia ha quel tono un po’ surreal-balneare, ideale per passare quei cinque minuti quotidiani di pura inutilità cerebrale, pressoché indispensabili soprattutto in occasione di un fine estate, con tutto il magone delle vacanze terminate da smaltire. Ma di simili proclami sui giornali ne leggiamo sempre più a bizzeffe, dovremmo esserci abituati, non fa più nemmeno tanto ridere.

Infatti. Il motivo più vero della buffezza intrinseca lo potrete capire soltanto dando un’occhiata alla seguente foto:


Non so se si è capito, ma trattasi della mia mano.
Ora, se c’è qualcuno al mondo abbastanza lontano dal quadro caratteriale dipinto dall’articolo, credo di essere proprio io. Tralascio il capitolo sessuale, sia perché non mi va adesso di attivare l’opzione “parental advisor” al mio blog per così poco, sia per via del fatto che non c’è tantissimo da dire. Nel senso che su quel versante credo di navigare fra le onde della più completa normalità, ossia, come qualsiasi maschio italico medio, sono possessore del mio bel chiodo fisso perennemente inchiavardato su certi pensieri sagomati a patata, ma niente di più particolare.

E’ sul capitolo aggressività tuttavia che le più adipose risate vanno a sprecarsi. Dal momento che stiamo trattando di argomenti scientifici, mi avvarrò anche io di uno strumento rigorosamente scientifico: la scala di Mollik. Con questa unità di misura, si determina il grado di aggressività di un individuo. La graduazione funziona in senso inversamente proporzionale, per cui, se all’apice della scala, proprio sul massimo piolo indicato con valore 10, trova posto un quantitativo di impetuosità pari a quello del presentatore Vincenzo Mollica, per andare a ritrovare certi tizi come Chuck Norris o Steven Seagal, dobbiamo scendere fino ai valori intorno ad 1 o 0,5.

Ecco, cari amici viandanti per pensieri, dovete sapere che misurato sulla scala di Mollik, il mio personale gradiente di aggressività si attesta intorno ad un valore di 9,8 circa, un gradino sotto al bradipo che fa 9,9, e una tacca sopra al gatto di marmo, lui bello stabile a quota 9,75. Allo stesso Schopenhauer, mi avesse conosciuto, sarebbero sorti non pochi dubbi sulla sua tesi riguardante la “volontà” pervadente il mondo e calata fra le pieghe delle specificazioni umane allo scopo di mantenere attiva la procrastinazione della specie.

Per quanto mi riguarda, stavolta i giocondi rappresentanti del pensiero scientifico hanno toppato mica poco. Queste ricerche saranno anche simpatiche per spenderci un attimo di divertimento sul giornale, ma alla fine cosa mi rappresentano? Forse nascono come corollario curioso di indagini più vaste, in mezzo alle quali il “banalizzatore” giornalistico va a rovistare soltanto per racimolare le piccole briciole del clamore e della bizzarria.

Non lo so, ma di fatto possono rappresentare anche una deformante fonte di indizi sballati e fuorvianti. Prendi ad esempio la giovin donzella che, confidando nel responso sperimentale, si porti a casa l’aitante amico dotato di anularone bello esteso. Lei è lì bella soddisfatta e già si pregusta estatici momenti di festa dei sensi, quando, venendo al dunque, si ritrova invece in compagnia magari di un teorico del platonismo più estremo, aggressivo come il dolce Tenerone di “drive-in-esca” memoria.

Questa storia dell’anulare lungo mi ricorda, e nemmeno tanto vagamente, certe leggende secondo le quali un naso prominente nel maschio sarebbe promessa di ben più allettanti prominenze nascoste, oppure la parallela legge «indice-pollice», che a seconda di come li si guarda (posizionando la mano “a pistola”, oppure ad indice alzato), denoterebbero nell’uomo la medesima proporzionalità inversa fra misure palesi e misure occulte.

Insomma, cari amici scienziati, io direi una cosa: voi avrete fatto tutte le prove e i rilievi sperimentali del caso, non sto a discutere, mica è di mia competenza, ma andiamoci in ogni modo cauti.

Solo su un dato, vi devo tuttavia rendere atto. Fra le varie propensioni denotate dall’anulare sviluppato, ci sarebbe anche una certa tendenza all’alcolismo. Ecco, beh, insomma…per quanto riguarda il tema, ammetto che nel mio caso ci avete azzeccato abbastanza.

giovedì 1 settembre 2011

Uncattoned life


E se dietro allo «sgattonare» la tastiera si nascondesse una delle più efficaci metafore della vita?

Prima però dovrei spiegarvi cosa significa «sgattonare», termine or ora coniato da me medesimo a partire da un’accezione dialettale affibbiata all’ordinario nome normalmente utilizzato per indicare uno dei più comuni ed apprezzati amici domestici a quattro zampe: il gatto.

Con la parola «gatto», in un ampio circondario di Gillipixiland dal raggio chilometrico piuttosto considerevole, oltre al pelliccevole rappresentante faunistico fusaiolo e miagolante, s’intendono anche quei batuffoli di polvere che si raggrumano negli angoli più impensati della casa meno accessibili da strofinacci, ramazze, aspiratori ed altri ammennicoli spazzolanti vari.

I «gatti» sono fiocchetti grigi di dimensione mutevole e di consistenza più o meno compatta e volatile. Forse non ci avete mai fatto caso più di tanto, ma essi amano molto stabilire le proprie cucce proprio fra gli interstizi della tastiera del computer. Non ci si bada tantissimo, perché s’intruppano belli occultati sotto i tasti, ma ogni tanto, se si procede a «sgattonare» in grande stile tutti quei mini-ricettacoli e le piccole curve nascoste fra lettere, numeri ed “f” varie, si constaterà quali, quanti e ben pasciuti ne sbuchino fuori.

Ci saranno altri strumenti più adatti e tecnologicamente avanzati, ma per quanto mi riguarda, prediligo un tipo di «sgattonata» messo a punto quasi per caso, qualche tempo fa. Quello che serve è un semplice scovolino improvvisato, creato a partire da quei minuscoli fili di ferro usati per sigillare ad intreccio le buste di cellophane di panettoni, dolci, o anche di altri prodotti non alimentari. Normalmente, questi piccoli fermagli hanno appunto un’anima metallica, rivestita con una piccola fettuccia plastica.

Per approntare lo scovolino atto alla «sgattonatura», basta spellare la plastica per un piccolo tratto, portando a nudo alcuni centimetri di filo metallico, che serviranno poi da “stanatore” effettivo dei «gatti» pulviscolari, lasciando sempre ricoperto il restante tratto, in forma di impugnatura del nostro attrezzo «sgattonante». Come detto, la scoperta dell’efficacia «sgattonatoria» di questi piccoli sigilli la scopersi un giorno casualmente, quando me ne capitò a portata di mano uno, proprio mentre scrivevo al computer.

Una volta predisposto lo scovolino, non resta altro che lasciarsi andare alla voluttà «sgattonatoria». Mi esprimo in questi termini, perché è proprio da questo momento in poi che la valenza metaforico esistenziale dello «sgattonamento» rivela la sua vera natura.

Sì, perché proprio mentre ti ritrovi lì a far scivolare lo scovolino con un lungo passaggio seguente, prima dentro la scanalatura «…qwertyuiopè+…» e poi in quella immediatamente sottostante, la «…asdfghjklòàù…», non puoi fare a meno di provare una sorta di piacere fisico, proprio nei momenti in cui i primi «gatti» cominciano a sgusciare da sotto i tasti, sollecitati dal pungolo dello scovolino. E il bello deve ancora venire: perché più “scovoli”, più i «gatti» s’impinguano quasi prolificando sotto il sapiente tocco indagante della piccola punta metallica. Ad ogni passata, ingrassano a valanga, uscendo fuori a “pelucchi” alzati, come vecchi rapinatori del pulito, sorpresi con le mani nel sacco.

Non puoi fare a meno di veder riflesse, in questa operazione, altrettante dinamiche attive fra le pieghe della vita vissuta, egualmente fondate sull’atto del riportare in superficie tutto quanto vi è in noi di più disdicevole e non così semplicemente ammissibile, ma che non di meno costituisce una delle componenti fondamentali del nostro essere.

Come sotto i cubettini della tastiera, allo stesso modo anche fra le scanalature del nostro animo e della nostra fisicità, si celano una miriade di «gatti» all’apparenza poco onorevoli e lusinghieri, ma che a ben guardare sono parte integrante ed imprescindibile della nostra bellezza umana, così ricca, nella sua essenza più vera, anche di numerose imperfezioni e di insufficienze.

In questo senso, si può considerare la graduale scoperta di ciò che si nasconde sotto la patina più civilizzata ed esteriore di noi stessi, come una sommatoria di momenti di crescita verso una consapevolezza maggiore di sé. Acclarare le nostre sgradevolezze più nascoste, non può che risultare in qualche modo un piacere, perché è un’operazione che ci riconcilia con la verità e con la correttezza conoscitiva verso di noi. Non riuscire a fare i conti con le proprie imperfezioni, può rappresentare un grave ostacolo ad una presa di coscienza il più possibile completa della propria umanità. Molti piaceri della vita, fra l’altro, affondano la propria logica contraddittoria esattamente in ciò che è sporco, sconveniente, indecente.

Nascondere a se stessi tutti questi dati di fatto, è insomma come rinunciare al diletto offerto da una buona «sgattonata» di tastiera.