martedì 30 ottobre 2018

Mini-mondi a fette


Sul vetro la pioggia si infrange in mille semisfere ottiche, minuscoli mondi capovolti, spiattellati in trasparenza, si auto-plasmano in una spruzzata di cieli e terre sottosopra, i corti orizzonti liquidi, in quelle perle racchiusi, improvvisati livelli di clessidre immaginate, dove il minuscolo si riflette nell’immenso, mentre l’infinito fa da specchio al microscopico, su queste minimali lenti di rimpicciolimento, pluviale promemoria di come il generale e il particolare si contengano e contemplino a vicenda, ogni uomo lungo il cammino di sua vita, prima infante-preistoria, poi fanciullo-medioevo, ragazzo-rinascimento, con inusitati scarti all’indietro verso un’adulta giovinezza greco-romana, seguita dalla barocca maturità, in approdo sui lidi romantici d’un’ottocentesca epoca terza della vita…ma alla fine, le guardo meglio, e sono soltanto quattro gocce sul vetro…

domenica 28 ottobre 2018

Guareschi e il mare strano dello stranomare


Uno dei più divertenti racconti di Guareschi si intitola "Emporio Pitaciò" ed è contenuto nella raccolta "Don Camillo e il suo gregge", del 1953.

Il racconto è naturalmente popolato da vari personaggi pittoreschi, com'è nello stile più classico dello scrittore.

Ma osservando bene la trama e lo spirito della narrazione, ci si accorge come il vero protagonista della storia sia "l'arte di affibbiare soprannomi", usanza così tipica dei piccoli paesi.

In particolare, Guareschi evidenzia come l'atto di "soprannominare", pur nella sua semplicità di fatto, si potesse esprimere sullo sfondo di "sfumature umane" molto variegate, che andavano dal comico, al grottesco, passando talvolta per gli accenti di una "crudeltà poetica" unica.

Vedersi assegnato un soprannome era sempre una potenziale arma a doppio taglio, perché poteva derivarne un motivo di orgoglio, oppure una notevole dose di "pericolo".

C'era sempre il rischio di caricarsi sul groppone un qualche termine al limite, se non proprio dello spregio, perlomeno della bonaria presa in giro.

Il soprannome assumeva allora quell'aura soprannaturale di evento del destino, che poteva piovere addosso dal cielo, con la grazia di una giornata primaverile, oppure con l'irruenza di un acquazzone.

Parafrasando scherzosamente l'incipit di uno dei pilastri della storia del romanzo, "Il processo" di Franz Kafka, si potrebbe rendere in questo modo l'idea:

"…Qualcuno doveva aver diffamato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne soprannominato…" (invece dell'originale "venne arrestato").

Il fatto era poi, che certi soprannomi nati chissà come, in grazia di una spietata genialità, potevano appiccicarsi addosso ai frastornati destinatari per più di una generazione, passando di padre in figlio come un'ingombrante eredità.

Tutte queste considerazioni e sottigliezze, Guareschi le condensa nelle primissime righe del suo meraviglioso racconto, inventandosi un "meccanismo soprannominale" portentoso.

Nella storia, Giosuè Bigatti si era addirittura trasferito in città per sfuggire alla palla al piede di un soprannome per lui intollerabile: "Pitaciò".

Di per sé, non sembrerebbe un epiteto così grave: "pitaciò" è termine dialettale per indicare un fiore rustico, ma tutto sommato simpatico, il dente di leone, o tarassaco, o soffione. Tuttavia Giosuè, il "Pitaciò", proprio non lo aveva mai digerito.

Passano gli anni, e forse anche confidando nella dimenticanza della gente, Giosuè Bigatti torna al paese per aprire un negozio di casalinghi.

Ma subito, un passo falso del tutto innocente gli è fatale nel farlo precipitare ancora e di colpo nel tormento "soprannominante".

Ha infatti l'infelice idea di esporre all'ingresso della bottega un'insegna maldestramente interpretabile:

GIOSUÈ BIGATTI
& FIGLIO
EMPORIO

Il figlio di Giosuè si chiama Anteo, ma per la gente ci vuole un attimo a fondere la seconda e la terza riga del cartello, anziché le prime due, e nel perfido immaginario comune, la frase finisce per suonare in questo modo:

GIOSUÈ BIGATTI
& FIGLIO EMPORIO

Per cui da quel giorno Anteo Bigatti, figlio di Giosuè, per tutti diventa "Emporio Pitaciò", e come tale viene ribattezzato nel repertorio popolare dei soprannomi del paese.

Il resto della storia, ricca di altrettante sorprese, non ve la racconto, perché merita ovviamente di essere letta nella sua bellezza originale.

Ma anche questo di "Emporio Pitaciò" era uno degli innumerevoli esempi della meravigliosa inventiva linguistica guareschiana, che partendo da un retroterra popolare dal sapore dialettale, sapeva dar vita a guizzi creativi degni della più alta tradizione letteraria.

martedì 23 ottobre 2018

Giovannino Guareschi: l'italiano pensato in dialetto


Sarebbero tanti i motivi per leggere i racconti di Peppone e don Camillo, insieme a tutti gli altri scritti di Giovannino Guareschi.

Ma c'è una ragione che, forse più di tutte, dovrebbe avvicinare i lettori al grande autore di Fontanelle. Come i migliori scrittori, Guareschi sapeva dare alle parole significati straordinari, mantenendosi sempre nelle forme di una apparente e sorprendente semplicità.

Questa ragione fa la differenza fra chi usa una lingua semplicemente per comunicare, e chi invece, da scrittore, nelle parole sa cogliere sfumature preziose che una volta rivelate sono in grado di farci capire qualcosa in più sulle cose della vita e del mondo.

Potremmo dirla con un’immagine. Paragoniamo ad esempio la scrittura a un coltello. Mentre le persone in genere vedono questo oggetto soltanto come un attrezzo per tagliare e affettare, lo scrittore sa magari interpretarlo anche come l’asta di una meridiana utile per conoscere l’ora.

Guareschi era talmente bravo a fare questa cosa, che gli bastavano a volte piccoli stratagemmi applicati alle parole, per aprire le serrature di nuove stanze colme di significati mai pensati prima.

Prendiamo una sua celeberrima espressione, creata abbinando due semplici parole: “Mondo Piccolo”. Com'è noto, questa locuzione si riferisce genericamente alla terra della Bassa lungo il Po, anche se sappiamo che lo scrittore, in cuor suo, ha sempre pensato Fontanelle, Roccabianca, Ragazzola, Stagno, Fossa e Rigosa, come i luoghi più profondamente genuini del proprio Mondo Piccolo.

Nel pensare dunque questa felice accoppiata, Guareschi sposta le parole come un abile giocatore di scacchi, cambiando i valori sulla scacchiera con una semplice mossa.

L’aggettivo passa dietro al nome, e un Mondo effettivo si spalanca all’improvviso. Se avesse infatti scritto banalmente “Piccolo Mondo”, si sarebbe limitato a una indicazione di quantità.

Invertendo invece l’ordine dei fattori, in questo caso il prodotto cambia tantissimo, e “Mondo Piccolo” si trasforma in una indicazione di qualità.
Un “Piccolo Mondo” si misura in chilometri, mentre il “Mondo Piccolo” si valuta in valore umano, sottigliezze affettive e sfumature dell’animo.

Ecco allora che potremmo far derivare da tutto ciò una singolare constatazione. Guareschi sapeva usare l'italiano mantenendo in esso la vivacità, la naturalità e l'immediatezza, tipiche del dialetto.

Sapeva creare con le parole una efficace combinazione fra semplicità delle forme e profondità dei significati, da farci ipotizzare che, veramente, pensasse in dialetto ciò che poi andava a far posare sulla pagina in italiano.

giovedì 18 ottobre 2018

The long way hole


Per quel pertugio
Ch'è nostro rifugio
Architettiamo ogni sotterfugio
Diamo il via a una danza
Sotto alla panza
Spremendo l'ultima energia che avanza
Smaniamo di fretta
Ghermiamo una tetta
E ogni appiglio che ci diletta
Con simile stile
Sul fronte femminile
Si va anelando un buon badile
Ogni pensiero va a levitare
Che lasciar cose lì a penzolare
Diventa un lusso da evitare
È il perenne gioco
Ardente come un fuoco
Tanto a ciascuno il suo sembra poco
In ogni caso, sia come sia
A fare di due, una sola armonia
Conta alla fine la fantasia
L'equilibrio fluttua davanti instabile
Sembra talvolta un po' risibile
Ma riesce meglio chi è più abile
Eppure un flebile luminicino
Rimane anche al più meschino
Di ascoltare battere un cuore vicino

Arte a kilometro zero


Non c'è bisogno di andare al mare
Per paesaggi da immortalare
Non serve issarsi sulla collina
A coglier la scena più sopraffina
Stai pure a casa, fatti un pollo lesso
La foto strana la trovi anche al cesso

martedì 16 ottobre 2018

Ma 'ndo vai, se il codone non ce l'hai


Da buon malato di libri, anche io sfoggio il mio fedele, bel codone di lettura.

I libri “messi in coda”, ossia riposti fra le intenzioni di letture prossime, non sono forse così importanti come quelli già letti, ma indubbiamente rappresentano una dimensione di attingimenti immaginifici importanti.

I libri letti e amati sono stati ormai assorbiti dal nostro intimo, finendo per divenire in qualche modo parte di noi, della persona che siamo. I libri che desidereremmo leggere fanno invece parte della persona che saremo, e tutto questo ci apre a un orizzonte di desiderio e propensione al bello.

Il codone di libri da leggere rende allora l'immagine d’un buon paradosso. In qualità di coda dovrebbe starci alle spalle, eppure ci induce a guardare avanti.

Non scambiate però questo fatto per un difetto di metafora del codone: infatti molti libri li conserviamo nel “desideratoio” per così tanto tempo che si gonfiano a mo’ di ricordi lasciati a maturare dietro di noi. Il codone è dunque coda a tutti gli effetti, ma sta dietro e davanti insieme.

Il codone di lettura può funzionare anche come puro dispositivo utopico. Mentre i libri letti sottostanno a una fredda e ineludibile contabilità, il codone lo puoi rimpinzare di tutti i libri del mondo, anche sapendo che poi non si riuscirà o potrà mai leggerli tutti.

Il codone ha dunque quel sapore dolceamaro tipico di ogni desiderare. Senza contare inoltre che un libro (come accennato), se mantenuto nel codone anni e anni, finisce per assumere una fisionomia mitizzata propria, già di per sé grande fonte di fascino. E più un libro invecchia nel codone, più assume sfumature di attesa e di meraviglie potenziali fantasmagoriche.

Io ad esempio prima di leggere “Guerra e pace” di Lev Tolstoj, l’ho lasciato marinare nel codone forse per più di vent’anni.

Quando poi finalmente l’ho letto, non era più solamente il gran capolavoro che è, ma si era aromatizzato di mille tannini di speranza e sogno, per cui la lettura è risultata ulteriormente esaltante.

Il codone è insomma un’ottima cantina di stagionatura delle proprie fantasie di lettore. Sta alla nostra sapienza di osti saper arieggiare il locale delle aspettative, graduare l'umidità di quanto immaginato, e stappare di tanto in tanto la bottiglia che si ritiene maturata al punto giusto per la lettura.

Lunga vita allora al codone di lettura, pascetelo e gonfiatelo a dismisura: nessun limite di pagine potrà farci mai paura!

Liscia, gassata o surrealle?


Ci sono lunghi momenti che non è bello niente di quello che penso. Ogni singola idea sciapa e piatta, lo scivolare lungo il fiume a bordo d’un elucubrare divenuto chiatta, al contempo distratto dal lisciarsi indolente di una chiappa. La mente rimbomba allora di parole, suoni quasi inutili come aria da masticare. Ognuno crede di aver capito come funziona il mondo e sotto sotto lo vorrebbe andare a spiegare a ciascun altro. Quei poveretti…non sanno cosa si perdono! Ma è solo l’inganno dei mille intimi specchi a inebriarci dei suoi riverberati riflessi, e si rimane nella propria convinzione salda, rassicurante di preziosità, e disperante d’un incomunicabile nucleo. Ci si consola lasciando fluire echi interiori di un monologo cantilenante, familiare come un sapore masticato all’ennesimo biscichio.  Oh santi numi dell'autoconvinzione, ridonatemi presto l'immersione nella brulicante culla dell’obliante persuasione! Fatemi soggiornare, bello erotizzato, sul solatio terrapieno, alla gran sagra dei perdifiato. No, no, non sto parlando della pseudo gioia d’una diluita foia equivocata a scaccia-noia. Parlo di Eros l'eterno curioso, che per sapienza in ogni dove il naso vuole ficcare.  Il caro vecchio buon “non-sapere”, unico vero tesoro con gelosia da custodire. Avanti dunque miei gloriosi eroti! Si proceda armati soltanto di quanto andremo a scoprire. E pur muovendosi ad uno ad uno su mille sentieri a vicenda inconsapevoli di quelli altrui, ci rassicuri al nostro fianco l’alito ansante, goloso e caldo del vicino di cammino, anche lui (meglio se lei) rapito dal remoto lumicino dell’abbacinante mistero lontano.

lunedì 15 ottobre 2018

Sospiri in sospeso

Come no...ti do anche la misura del pisello, intanto che ci siamo? O mi sospendete il sospensorio? 😂

giovedì 11 ottobre 2018

Tornerà l'inchiostro sulle dita


Aspetto la scrittura
Come acquazzone nell’arsura
Invoco le parole
Novella sposa alla futura prole
Rimiro il sillabare
Lontano miraggio di rinnovato godere
Prego per il ritorno
Di bei caratteri tutt'intorno
Mi sia rifatta la grazia antica
Del raccontar senza fatica
Stendere frasi sopra la pagina
È tutto il bello che ci si immagina
E far fiorire il bel periodare
Dagli aulenti petali di un folto pensare
Mi ricresca la pelliccia
Di una prosa bella ciccia
Non di raso, né di mussola,
Il mio scrivere ri-odori di puzzola!


L'alba dei neuroni viventi

- Ministero per i Beni Nutriali -
Proposta di legge per il rilancio immediato e diffuso della cultura

venerdì 5 ottobre 2018

Shakespeare in cul


Permettete una volta tanto uno sfogo da illetterato puro. Più che uno sfogo, forse uno sfigo.

Si può dire che Shakespeare mi ha fatto incazzare?

Va beh, ormai l’ho detto…speriamo si potesse dire…

Per il poco che la conosco, adoro l’opera del genio di Strattofordo Sull’Avone.

Macbeth, Giulio Cesare, Re Lear, Sogno di una notte di mezz’estate, Il mercante di Venezia, Amleto, Le allegre comari di Windsor…tutto molto bello, me li sono letti con gran godimento intellettuale e divertimento vero.

Ero così curioso di esplorare un po' anche i sonetti del Bardo. Allora me li sono procurati.

E, d'accordo, anche qui gran qualità, versi eccelsi e maestria letteraria da vendere, però…dopo una quindicina di sonetti, il vecchio Willy è ancora lì che martella duro sempre sullo stesso argomento, ti frange proprio in mille minuzie il tegumento scrotale, a forza di dargli dentro di maglio con la storia che se non hai avuto un figlio la tua vita rimarrà per sempre inutile, sprofonderà nella dimenticanza, si seccherà come un frutto avvizzito, e così via.

Ora, va bene, caro Giacomino da Strattofordo, lo abbiamo capito, con un figlio era forse meglio. Ma vogliamo passare a dire qualcosa di diverso o continuiamo a crogiolarci nell’auto-fustigazione fino all'ultimo straccio di sonetto?

Confido che nel proseguire la lettura dei sonetti, cambierà anche la suonata, ma intanto questa peculiare insistenza mi ha fatto tornare alla mente un fatto alquanto molesto che mi succedeva da ragazzino.

Quando capitavano visite di parenti a casa, oppure si andava a nostra volta a trovare familiari più o meno lontani in geografico o in consanguineo senso, sbucava sempre fuori un simpaticone di uno zio, o una matronal-matriarcale di una zia, che immancabilmente mi rivolgeva la fatidica domanda: “…E tu…ce l’hai la morosina?...” (ndt: la fidanzatina).

Io che di fidanzatine ne trafficavo sempre ben poche, e che per soprammercato avevo anche la sfiga supplementare di essere uno sbarbatello gentile e rispettoso, dovevo ogni volta incassare lo scorno del celibato precoce, e abbozzando due bofonchiamenti indecifrabili, mi affossavo nel colpevole rossore, uscendone come il nipotino strambo della situazione.

Ma adesso che l'insistenza shakespeariana sul tema della progenie mancata mi ha fatto lievemente tracimare la bile, voglio prendermi una piccola vendetta a posteriori, anche riguardo a quella mini tortura subita nei giovanili anni del mio passato “sfigore”.

Capisco solo ora che l’esser stato un ragazzino educato, fu tutto un ozioso errore, una perdita di tempo. E solamente ora, anche grazie alla tangenziale circostanza shakespeariana, ho raggiunto l'illuminazione necessaria a capire la risposta che avrei dovuto dare: “…Caro zio, dolcissima zia: ma vattela a prendere nel culo, te e quella gran vacca della morosina!!!...”.

giovedì 4 ottobre 2018

Incastri su inchiostro


Le nostre giornate sono la sommatoria di un continuo misurare. Dal momento in cui ci svegliamo, a quando ci riaddormentiamo la sera, e probabilmente anche oltre, noi prendiamo misure.

Non mi riferisco a tipi di misurazioni soltanto quantitative, bensì, e soprattutto, a quelle praticate in forma qualitativa.

Il nostro metro privilegiato per misurare qualitativamente la realtà ci è fornito dalle metafore.

In generale, i concetti sono pacchetti razionalmente “stringenti”, atti a raggruppare con un certo rigore fenomeni dello stesso tipo. Le metafore sono invece contenitori più labili, ma nel contempo più adattabili.

I concetti sono precisi, però rigidi. Le metafore approssimano di più, ma con maggiore capacità di includere.

Le metafore ci aiutano allora a trovare dei nessi di senso anche laddove talune cose del mondo altrimenti ci apparirebbero del tutto slegate, causandoci smarrimento.

Una delle metafore più efficaci, e inclusive, scaturente quasi da un inconscio modo spontaneo di porsi verso la realtà, è data dall'idea di “incastro”.

Fateci caso: quante situazioni e circostanze sottostanno alla logica dell’incastro.

Innanzitutto, il nostro tempo stesso è un incessante gioco ad incastro. Incastriamo azioni, progetti, intenzioni, gesti, nelle ore, nei minuti, nei giorni, negli anni. Incastriamo il tempo libero in quello non libero, i giorni nelle notti, le mattine nei pomeriggi.

Le relazioni con gli altri, poi, funzionano ad incastro. Le amicizie, le conoscenze, gli amori, non ingranano se non si trova quella giusta combinazione di adattamento, tra le forme del proprio comportarsi e quelle dell’agire altrui.
Ne deriva, per estensione, che la libertà è forse la più grande ricerca di incastri immaginabile.

Oltre che per il già menzionato tempo, anche per lo spazio è una questione eminentemente di incastri. Le nostre vite si devono incastrare con comodo negli edifici, nei vestiti, nelle auto, nelle strade.

Tanti sono gli aspetti del vivere metaforizzabili ad incastro. Quello che “in negativo” più esemplifica la forza di tale immagine, risiede nel caso clamoroso di incastro mancato,  derivante dal maldestro tentativo fallito di baciare una donna.

Il gioco dell'attrazione talvolta può farsi intenso, senza tuttavia la consapevolezza della sua unilateralità; e se azzardando un bacio con malinteso slancio, questo viene rifiutato, si sente quasi in sottofondo il cacofonico stridio con cui l’incastro non andato a buon fine palesa al mondo l’attrito dei due pezzi impossibilitati a compenetrarsi.

Abbiamo così a disposizione un inaspettato manto di positività da posare sopra le sillabe del verbo “incastrare”. E con novello occhio benevolo, ciascuno potrà guardare alla propria condizione, nell’atto di riflettere fra sé e sé: “…stavolta mi hanno incastrato…”.