giovedì 22 agosto 2019

Chiediti dove sta andando un gatto



Ma che giro fanno i giri dei gatti, indaffarati e trasognati, nel trastullo di traiettorie, trascurate e tutt’altro che trafelate?

Loro vagano senza meta, in un’apparenza di casualità assoluta, ma in realtà perfettamente calcolando l'imperscrutabilità della poesia felina, in un passaggio rasente a un muretto, nella sosta al cassonetto, lungo la coda tenuta a terra, dentro una sorta di guardinga gioia in guerra.

I gatti son molto seri passeggiando, ma in ogni loro atto pare che il mondo stiano beffeggiando, con quella pelliccia indossata ad ogni costo, quasi per irridere l'ustoria boria d’agosto.

I giri dei gatti sono senza fatti, si soffermano sopra un niente, fanno di un filo d’erba la ragione onnipotente.

Non gliene frega di diavolerie satellitari, schivan come cacche certi rettilinei dai gusti militari, fan più che a meno del GiPiESSE, bastando loro un ben più sgangherato MiCiESSE.

Se non ti sei mai domandato dove vanno i gatti, sappi che finora hai vagolato fra i matti.

È nel loro ondivago andare e stare, che si nasconde il mistero del mare.

Fra i gatti e la risacca, non ci capiremo mai un’acca.

Entrambi raccontano di felicità nascoste nella fiacca: e chi proprio non ci crede, ignaro se ne sta del mondo, lieto pargolo di baldracca, del suo sé gran grullo, e giocondo.


domenica 18 agosto 2019

L'irriducibile mondo omo-umano di Maurice



Se per “arte” s’intende la libertà piena di poter esprimere l'essenza genuina del proprio esistere (come credo sia giusto intenderla), allora l’arte e il senso della vita coincidono.

In questa accezione, arte e vita sono una cosa unica.

Questo ho imparato, di ciò ho avuto ottima conferma, dalla lettura dello splendido romanzo di Edward Morgan Forster, “Maurice” (1914 - pubblicazione postuma 1971).

“Maurice” racconta “all’apparenza” vicende di amore omosessuale fra uomini.

Questo, per una sorta di sfumata sensazione pregiudiziale, ha fatto sì che il libro, acquistato ben otto anni fa (avevo conservato lo scontrino fra le pagine), sia rimasto a boccheggiare sul secondo ripiano del comodino tanto a lungo, prima che mi decidessi a leggerlo.

Per prevenire eventuali, doverosi strali di meritate accuse di omofobia, che mi potrebbero venir lanciati addosso, ci tengo a precisare.

Sono il primo a sostenere che l’amore espresso in ogni sua forma possibile, purché sempre nei limiti della libertà e della sensibilità altrui, debba essere tutelato, rispettato e valorizzato.

Ero incuriosito da “Maurice”, avendo letto gli altri tre capolavori assoluti di Forster: “Camera con vista”, “Casa Howard” e “Passaggio in India”.

Le mie remore di lettura erano piuttosto dovute a un senso di estraneità: il mondo dell’omosessualità, come dimensione che non mi riguarda, mi appare quasi del tutto privo di interesse, anche solo se considerato a livello di argomento narrativo.

Non c’entrava dunque assolutamente nessuna questione di giudizio preventivo, ma si trattava solo di puro disinteresse: come se a un tale a cui non può fregare nulla dell’ippica, si pretendesse di raccontare tutto quanto c’è da sapere sulle corse dei cavalli.

Come tutti i libri davvero grandi, però, “Maurice” mi ha smentito in pieno, colmandomi della meraviglia pura dell’inatteso.

Perché sì, il romanzo parla molto di omosessualità, ma ci racconta in primo luogo una immensa, essenziale verità che riguarda la vita di ciascuno.

Ci racconta che l’unico, il più genuino, fondamentale “tratto comune” a tutti gli esseri umani, è l’assoluta diversità di ciascuna vita rispetto a tutte le altre vite.

Ciò che abbiamo in comune come uomini, risiede proprio nel “non poter venire accomunati”.

Ogni individuo, in quanto tale, nella profondità più significativa del proprio “sé”, è una singolarità unica e probabilmente irripetibile del vivere (fatte salve ovviamente certe caratteristiche molto generali che ci possono accomunare).

Non ci dobbiamo rispetto e stima reciproca in quanto omosessuali, eterosessuali, o chissà cos’altro: ci dobbiamo comprensione e “compassione” umane, in quanto tutti diversi l’uno dall’altro.

La diversità è quella terribile, fascinosa, sconvolgente malattia che ci travolge nell’epoca della nostra adolescenza, e dalla quale non guariremo mai più lungo il corso di tutta la vita.

In questo risiede la straordinaria bellezza che trapela da un romanzo come “Maurice”: non tratta di vagheggiate rivendicazioni di questa o quella “minoranza umana”.

Tratta invece esattamente dell’umano nella sua grandiosa irriducibilità a qualsivoglia etichetta, catalogazione, incasellamento.

Tratta dell’orgoglio di essere, in fondo, tutti diversi.

Per questo in apertura parlavo della coincidenza fra arte e vita: perché ogni vita vissuta nella sua originalità più piena, è il grande, inimitabile capolavoro che ciascuno deve a se stesso.

E soprattutto di ciò “Maurice” racconta.


lunedì 29 luglio 2019

Interstizi


È profondamente sbagliato e ingiusto pensare alla scienza come a qualcosa di freddo e arido.

Altra questione è parlare della complessità del mondo della scienza. Lì siamo d’accordo: i temi non sono sempre accessibili a tutti.

Per fare allora una sintesi: mi annovero fra coloro che spesso faticano a capire la scienza, ma non di rado riescono a cogliervi sfumature, se non proprio poetiche, perlomeno portatrici di grande stupore e “ulteriorità” immaginativa.

Un bel libro che condensa in sé molti di questi aspetti si intitola “La fisica dei supereroi”, lo ha scritto un professore americano di origini greche, James Kakalios (Einaudi, 2014).

Non è di facilissima lettura, va detto, ma di voli della suggestione ne fa fare parecchi.

Con un interessante excursus, passa in rassegna tappe fondamentali della storia del fumetto americano, ma soprattutto cerca di spiegare i fenomeni fisici attraverso i super-poteri di tanti personaggi cari al pubblico di mezzo mondo: Superman, Spiderman, Flash, ecc.

Su questo libro, ho riletto una cosa a me già nota, ma che ogni volta mi induce una meraviglia grande.

Sappiamo che la materia è composta di atomi. Un pezzo di legno, di ferro, il nostro corpo, una fetta di torta: nella profondità minuscola di ogni cosa, tutto è formato da questi mattoncini infinitesimali chiamati atomi.

Fin qui niente di strano: siamo abituati a pensare una cosa grande come la somma di tante componenti minori (una casa è fatta di mattoni, un’auto dei suoi pezzi, e così via).

Se però si va a vedere (si fa per dire) la “geografia” profonda dell’atomo…oooohhhh…gran sorpresa sorprendente!

L’atomo è formato a sua volta di ancor più minime parti: i protoni e i neutroni, appiccicati insieme in un cuore centrale detto nucleo, e gli elettroni, che ruotano attorno al nucleo come piccoli satelliti.

Ora, sto semplificando molto, ma già un primo motivo di bellezza emerge: la similitudine fra infinitamente grande e infinitamente piccolo.

L’universo è impostato sopra il “paradigma” generalissimo del “ruotare attorno”: dall’atomo ai grandi sistemi galattici, passando per gli innamorati…cose, esseri ed entità sono attratti fra loro in moti circolari diffusi per ogni dove della realtà concepibile.

Il bello più bello viene poi considerando le proporzioni fra gli elementi atomici.

Il nucleo misura un trilionesimo di centimetro.

Solo a dirlo, o a pensarlo, ci si cappotta di “strabilianza” (parola che invento per l’occasione, non esistendone sul vocabolario di sufficientemente degne).

Vuol dire: prendere un centimetro e dividerlo un miliardo di miliardi di volte (minchia! E scusate il termine, ma si tratta di un numero formato da un 1, seguito da diciotto zeri).

Il raggio dell’atomo interamente inteso è grande invece diecimila volte la misura del nucleo: questo rappresenta la potenziale “sfera di movimento” entro cui ci si aspetta che la rotazione degli elettroni possa spaziare.

Ora, immaginando (per avere un’idea dei rapporti in gioco) che la misura del nucleo fosse di un centimetro, in proporzione, il raggio di orbita degli elettroni sarebbe di novanta metri.

E doppia minchia, mi viene qui da dire.

Perché se le proporzioni in gioco sono queste, ne deriva che l’atomo in pratica è fatto quasi interamente di spazio vuoto.

Qui un poeta ne avrebbe da ragionarci sopra forse molto più dello scienziato.

Quello che pensiamo sia compatto, dal punto di vista delle nostre dimensioni del vivere usuale, è in realtà un conglomerato di vuoti. Certo, l’energia che tiene legati questi vuoti fra loro, e ciascun atomo di per sé, è immensa (energia nucleare e atomica, per l’appunto).

Ma questo non fa altro che aggiungere magia a incanto: ciò che al livello macroscopico dei nostri sensi appare come materia “in quiete”, è in realtà un brulichio di energia terribilmente agitata, è un portento di mini particelle in moto frenetico, instancabile, perennemente mutevole, agitatissimo, in inimmaginabile rimescolio.

Mi prendo una licenza poetico-scientifica, a questo punto, e azzardo una conclusione sgangherata, ma apprezzabile in pieno da qualsiasi sognatore degno di questo nome.

Per me, l’energia di cui la realtà brulica fin nelle sue più intime fibre, la si può ribattezzare solo con un nome noto a tutti: amore.

C’è questo, in fondo a tutto, dentro l’atomo e nelle più vaste distanze cosmiche: l’amore.

Non lo posso dimostrare scientificamente, ma sfido chiunque a venirmi a smentire, armato delle sole armi della poesia: non ci potrà mai riuscire.

venerdì 5 luglio 2019

Brugnoni



A volte scrivo complicato. Non lo faccio per atteggiarmi a chissà chi, o per snobismo, o cose peggiori.

Scrivo complicato perché sono affascinato dalla complessità. E qui c’è già qualcosa da precisare.

Tra complessità e complicazione c’è infatti una differenza fondamentale.

La complessità è una caratteristica della realtà: il mondo, la vita, sono complessi.

La complicazione è invece nella mente dell’uomo, nasce da un imperfetto confronto con la complessità.

Se scrivo complicato è dunque solo per i limiti che non riesco a superare nella strada verso una qualche comprensione della complessità.

Fa sempre parte di questo discorso, la distinzione fra semplicità e semplificazione.

La semplicità è imparentata con la complessità

La semplificazione è invece legata alla complicazione.

Riuscire a raggiungere un certo grado di semplicità, vuol dire aver guardato in faccia onestamente la complessità.

Non significa naturalmente avere abbracciato completamente ciò che è complesso. Ma almeno averlo considerato con serietà e impegno, questo sì.

Pervenire a una semplificazione vuol dire invece essersi trovati davanti la complessità e averla vista solo come complicazione.

La semplicità sì conquista, la semplificazione è un atto di resa.

L’idea allora sarebbe questa: non temere di osservare la complessità, fiduciosi che semplicità parziali (pur se raggiunte con dedizione e sforzo) ci aiuteranno nel cammino.

Questo è il periodo in cui l'antico “brugnone” in fondo al campo dietro casa matura regalando i suoi abbondantissimi anche se quasi inutili “brugnoncini” (terminologia derivante da “brugna”, dialettizzazione di prugna).

Sono acerbi a manetta e per ricavarne una sorta di marmellata-beverone accettabile al palato, vanno integrati con una buona metà in peso di zucchero.

Mia zia, che ha avuto una lunga vita, diceva di ricordare il vecchio “brugnone” che già elargiva “brugnoncini” fin dai tempi in cui lei era ragazza.

Cosa c'entra un umile “brugnone” in un discorso su complessità, complicazione, semplicità, semplificazione?

Se ve lo state domandando, siete più propensi in generale a vedere complicazione nelle cose e ad aspirare alla semplificazione.

Se invece vi è sembrato tutto lineare, siete sulla buona strada per riuscire ad amare la complessità, riponendo molta speranza nell'esistenza di qualche semplicità salvifica tutta da scoprire.

giovedì 4 luglio 2019

Quando la vita si riversa nell'arte e l'arte si rivela nella vita


Ho avuto il privilegio di leggere uno dei migliori libri dedicati al mondo dell’arte, e dunque al mondo stesso in senso generale.

Solamente per una auto-imposta forma di miope (seppur umanissima) “difesa esistenziale”, continuiamo infatti a non voler vedere come mondo e arte coincidano.

Condividono infatti la medesima essenza, intrisa di paradossalità e prerogative comuni, verso una tensione continua ad abbracciare gli opposti
In questa prospettiva, ciascuna vita è un dipinto, una scultura, un film, un romanzo, ma spaventa, turba, disorienta ammetterlo, e ci si rifugia nel rassicurante incasellamento in “vite-documentario” (o “resoconto-aziendale”, oppure “referto-medico”).

Il libro in questione è un saggio critico molto acuto riguardo alle più fondanti questioni estetiche, e insieme una pregevole e godibile autobiografia.

Si intitola “La mia vita”, lo scrisse nel 1945 Carlo Carrà (1881-1966), esponente di spicco del movimento Futurista prima, e protagonista primario dell’arte del Novecento nel corso della sua lunga esperienza creativa (“Abscondita Edizioni” ne ha curato una bella riedizione nel 2016).

Al termine di una lettura veramente buona, deve rimanere dentro quel vago e prezioso senso di essersi avventurati in un nucleo puro di complessità avvincente, vivifica e molto nutriente per l'animo.

La biografia di Carrà sfocia perfettamente in questo esito.

L'impianto generale del testo è articolato su una intelaiatura aneddotica.

Si passano gradevolmente in rassegna vari episodi nelle tappe principali della vicenda umana del pittore.

Si incontrano tanti protagonisti della vita artistica e culturale del primo Novecento (Marinetti, Boccioni, Picasso, Apollinaire, Modigliani, Dino Campana, Medardo Rosso…) e a ciascuno di loro Carrà riserva note affettuose, cenni a particolari curiosi, preziose considerazioni umane personali.

Ma il cuore vero, il tesoro essenziale di questa messe di ricordi, si dipana intorno all'articolato discorso tenuto dall’autore lungo tutto il testo, riguardo al significato dell’arte.

Per capire meglio che cosa l’arte sia, la lettura del libro di Carrà non sarà sufficiente, ma dopo averlo conosciuto mi sento di dire che è sicuramente necessaria.

Pensiamo solo a una cosa: forse il 90% (sparo una cifra simbolica) di cittadini del paese più “densamente artistico” del pianeta (l'Italia) sono convinti, al meglio della propria considerazione in merito, che fare arte significhi praticare (e non si saprebbe a quale scopo) una riproduzione più fedele possibile della realtà.

Allora ci rendiamo conto dell’importanza di testi come quello di Carrà. Attraverso una raffinata riflessione personale maturata lungo un’esistenza intera, il pittore-scrittore ci accompagna con mano sicura nelle profondità di senso dell'espressività artistica.

Comprendiamo cosi insieme a lui, come l’arte non sia propriamente un qualcosa che si crea, ma soprattutto uno stato conoscitivo a cui si tende e al quale si tenta di addivenire.

Entrare nel senso artistico è cercare di assestare una presa chiara, sicura e onesta sopra al “vero”.

Altrettanto depistante è infatti la versione di un'altra non meglio precisabile percentuale di osservatori delle vicende artistiche, i quali pretenderebbero di vedere nell’arte un percorso di radicale astrazione dalla realtà.

Non c'è meno realtà in un astrattissima opera di “dripping painting” (“pittura per gocciolamento”) di Jackson Pollock, di quanta ce ne sia in un concretissimo ritratto di Antonello da Messina.

Il punto è, come Carrà ci spiega, che entrambi (Pollock e Antonello) prendono il “vero” (le cose nel proprio manifestarsi) come base di partenza, “trasfigurandolo”, nel tentativo di andare a cogliere il senso essenziale del “reale”, celato sotto il velo del suo “apparire”.

Carrà ci fa capire come fra la caducità “trascorrente”, mutevole delle cose, e la intravista, intuita, fondatezza di un “essere” immutabile ed eterno, si frapponga il termometro esistenziale della sensibilità umana.

Con Carrà ho capito dunque ancor meglio come la pittura tenda a cogliere “…L'immagine trascendente delle cose…” (pag. 126).

La pittura non è riproduzione pedissequa e nemmeno fuga dal reale: “…La pittura crea una cosa nuova, una nuova entità…” (pag. 151), cerca di cogliere “in essenza” il significato di raccordo che intercorre tra la dispersività frequentativa del “esistere”, e la fissità sintetizzante del “essere”. E non si potrebbe riassumere meglio il concetto, che con le parole di Leonardo, citate a pag. 223: “…La pittura è cosa mentale…”.

Grazie al testo di Carrà, mi sono addentrato meglio in quel filo di senso che tiene unite pittura, musica, matematica e geometria: tutte concorrono, con gli strumenti propri, alla ricerca di “…corrispondenze arcane…” (pag. 220).

Carrà mi ha spiegato poi molto sottilmente la strettissima parentela fra pittura e architettura. Fare architettura infatti altro non è che immettere “dosi di umano” nelle cose del mondo, medesima finalità del dipingere.

Leggendo la vita di Carrà, ho infine capito più precisamente perché taluni pittori a me molto cari, tra quelli che meglio hanno saputo trasmettermi il profondissimo senso conturbante del mistero nascosto nelle cose (Jan Vermeer, Giorgio Morandi, Edward Hopper, René Magritte, Giorgio de Chirico, Paul Klee, Mark Rothko), dipingevano innanzitutto la luce, nella quale è paradossalmente custodito l’invisibile.

E se tutto ciò non bastasse, la gioia di aver conosciuto un simile prezioso testo si sarebbe potuta condensare tutta in talune perle incontrate in corso di lettura, come la seguente citazione da una lettera indirizzata a Carlo Carrà dall'amico Dino Campana, fra le righe più belle mai vergate sulla carta da mente e mano umana in combutta fra di loro: “…Credi che è così dolce sentirsi una goccia d'acqua, una sola goccia ma che ha riflesso un momento i raggi del sole ed è tornata senza nome!...” (pag. 153).

lunedì 1 luglio 2019

The catcher of the flies


Ogni giorno compiamo piccole-grandi prodezze, del fisico e dell’animo.

Ma nessuno se ne accorge, nessuno le valorizza, oppure ci fa soltanto un piccolo applauso. Nessuno, tranne noi stessi, che ne siamo i soli coscienti spettatori e attori insieme.

E loro, le mini prodezze, se ne svaniscono gloriose nella pura inutilità, sfumando lontane lungo la smisurata prateria delle prodezze non riconosciute.
Stavo sparecchiando la tavola.

Una moschina molesta era posata sulla tovaglia.

Senza nemmeno pensare a cosa stavo facendo, mi lancio in un passo alla Rudolf Nureyev, e nel mentre che le sono quasi sopra, allungo con grande eleganza la mano sinistra, aprendola nel frattempo, con la delicatezza di Michael Jordan quando andava a posare a canestro la palla dopo aver veleggiato nell'aria una vita e mezzo intera, concentrata in tre secondi di volo sul parquet.

La mente sempre spenta,  in un puro gesto e basta, sento un lieve vibrare di alette dentro la mano che si è serrata passando rasente al pelo della trama di stoffa della tovaglia.

Ma poteva anche trattarsi di un frullo illusorio.

Quando tenti la cattura di una mosca in questo modo, non sai mai se ci sei riuscito davvero, fino al momento in cui riapri le dita, e verifichi il suo rinnovato volo liberatorio.

Così ho fatto. Mi sono avvicinato alla finestra aperta, ho spalancato il pugno, e la mosca c’era davvero, viva e pronta per balzare di nuovo libera nell'aria di fuori.

Nessuno ha saputo nulla di quel mio piccolo gesto atletico. E anche se ora ho tentato di diminuirne un pizzico l’anonimato venendolo a raccontare qui, nemmeno voi ne sapete davvero qualcosa fino in fondo.

Perché ogni cosa che facciamo, proviamo, sentiamo, rimane una più o meno grande “privatezza” personale, racchiusa nella nostra esperienza, che sola ne conosce gli effettivi termini e confini di bellezza, completezza e significanza piena.

Ciascuno è un miracolo perfetto e disperato di incomunicabilità. E trascorriamo una vita intera, nel volitivo e sempre rinnovato sforzo di farlo sapere agli altri…

martedì 25 giugno 2019

Sentirsi il nulla di un tutto...


Per ogni minimale goccia di questa linfa di tempo che mi scorre dentro, stasera, un universo esplode lontano dentro diecimila altri universi, ed è ogni cosa un moltiplicarsi di infiniti assorbiti dentro ad altri infiniti, germoglianti l’uno nell'altro nella globale pastura vivificante dell’amore totale.

Niente ha senso e, ciascun dove, e ogni qual quando, risplendono limpidi, laddove la contraddizione sconfinata del tutto non è mai stata così chiara, perfetta, logicamente ineccepibile.

Abbracciamo la vastità del paradosso per aggrapparci al sentirci vivi, unico dato che conta ormai.

Entrando nel mondo, abbiamo pianto, originario marchio di fabbrica di una bramosia d’esistenza che continuamente ci respinge.

Anche.

Dolore e gioia sono così dannatamente appiccicati vicini, un velo talmente sottile, a separare la disperante euforia, dall’inabissarci a pupilla asciutta nelle densità della meraviglia.

Tienimi immerso in te, mia ancora dell’adesso…in questo momento, di questo tempo, sperduto nell’oceano dell’inafferrabile, sei tu sola capace di accendere un prezioso lumino sui marosi d’ogni “incomprendibile” cosa.

domenica 23 giugno 2019

The east is the best


Leggendo, studiando, ascoltando, curiosando, cercando di imparare, meditando, oziando fra mille pensieri, mi sono fatto nel tempo l’idea che esistono due vasti modi molto generali di concepire il mondo, la vita.

Quello occidentale (a noi più noto e familiare).
E quello orientale.

Secondo la tradizione occidentale, la realtà sarebbe questa nostra dimensione di appartenenza, dove regna l'impressione principale che “ci si possa sempre fare qualcosa”.

L'orientale invece ritiene che perlopiù della nostra realtà non si possa fare granché, ma bisogni lasciarla fluire, accomodandosi nelle sue pieghe in modo da adattare la nostra alle sue forme.

Sono nato in un contesto occidentale e dunque mi ritrovo ampiamente immerso nella nostra grande visione del tutto.

Fin da piccolo mi è stato insegnato che le cose “si ottengono”, si realizzano, gli scopi si raggiungono.
Causa ed effetto: si parte dall’intenzione di ottenere un risultato, si mette in pratica il comportamento più adatto, e si arriva allo scopo desiderato.

Questo me lo hanno insegnato a casa, a scuola, nella nostra società, me l'hanno insegnato gli uomini, insomma.

La vita mi ha insegnato invece che molto spesso non funziona così.

La realtà è un flusso che va per conto suo: contempla forse la presenza di questo strano suo componente chiamato uomo, umanità. Ma “nell’economia generale” degli accadimenti, l’uomo rimane pur sempre un dettaglio.

Di questo l’uomo deve tener conto: le cose molto spesso non vanno come lui vuole.

Vanno come vuole “il reale”.

Con questo, non s'intende che ci si debba allora abbandonare a un ottuso fatalismo, al “sia quel che sia” più menefreghistico e irresponsabile.

Molto più articolatamente, il punto di vista orientale ci suggerisce un atteggiamento più sottile, esemplificabile con un’immagine.

Diciamo così: da occidentali siamo abituati a considerare la vita come un discorso da pronunciare.

La visione orientale ci invita invece a trattare la vita, il mondo, la realtà, l’essenza del vero, come un discorso da ascoltare.

Pensateci un attimo, e mi saprete dire…


sabato 15 giugno 2019

Due pensieri, ascoltando "Ask" degli Smiths


Fra le rock-band “della vita”, gli Smiths occupano senza dubbio un posto altissimo nel mio cuore.

L’anima musicale degli Smiths per me si esprime nel particolare “punk da secchioni” che hanno saputo creare.

Nelle loro canzoni energetiche, disincantate, ironiche, enigmatiche, malinconiche, rapide, “melodecadenti”, ci ho sempre letto principalmente questa piccola confidenza: la rivoluzione non si fa “cioccando” (sbattendo) i piatti, ma si può tentare di farla volendo bene all'anormalità (roba da intellettuali un po' problematici, insomma …il che indubbiamente mi ricorda qualcuno…).

“Ask” (1986) non sarà la canzone migliore degli Smiths, ma forse la più nota e rappresentativa sì. E anche quella che è arrivata a un pubblico più vasto.

Nei testi degli Smiths, mi hanno sempre affascinato certe affermazioni stravaganti che nell’economia suggestiva della canzone, sull’onda dell’entusiasmo melodico, ti senti di accettare come verità rivelate.

Fra una nota e l'altra, ti sparano spesso lì una sentenza che ti stende. E a te non rimane altro da fare che crederci.

In “Ask”, ci sono tre o quattro passaggi di questo tipo, che mi fanno sbiellare di bellezza poetica.

Si inizia subito nella prima frase: “…Shyness is nice, and Shyness can stop you / From doing all the things in life / You'd like to…”. Che vuol dire: la timidezza è carina, e la timidezza ti può frenare dal fare tutte le cose che nella vita vorresti fare.

Il verso si ripete quasi identico poco dopo, solo che al posto di “shyness” (timidezza), troviamo un termine più ricercato, “coyness” (ritrosia).

La timidezza e la ritrosia possono essere “carine” probabilmente solo nel mondo degli Smiths, e questo mi è sempre piaciuto un sacco.

Il cuore strambo della canzone sta però in un’altra frase, detta per inciso e buttata lì come fosse la cosa più scontata del mondo: “…Spending warm summer days indoors / Writing frightening verse / To a buck-toothed girl in Luxembourg…”. Che vuol dire: spendere (trascorrere) calde giornate estive in casa, scrivendo versi terrificanti a una ragazza dai denti di cerbiatto in Lussemburgo.

Qui si esprime al massimo fulgore l’essenza nerd di Morrisey (che solo i suoi sanno ormai si chiamasse anche Steven), carismatico e istrionico cantante e paroliere della band.

Da adolescente asociale quale fu, Morrisey aveva fatto dello stare in casa un’arte, ma si dilettava a intrattenere una fitta corrispondenza con tanti amici sparsi nel mondo (anche tutto ciò mi ricorda qualcuno…).

Al di là del riferimento biografico spicciolo, la frase buttata lì come se niente fosse, per me è fantastica: passare (sprecare?) giorni caldi d’estate a scrivere versi paurosi a una ragazza dentona in Lussemburgo…

Sono parole semplicissime, ma esprimono un concentrato di diversità adolescenziale densissima.

La sequenza delle perle si completa poi con pregiati assaggi di saggezza surreale:  “…Because if it's not love / Then it's the bomb […] / The bomb that will bring us together…”. Che vuol dire: perché, se non è amore, allora è la bomba che ci porterà insieme (ci farà incontrare).

Tra l’amore è una bomba, cosa cambia? Entrambe le cose ci stravolgono, e dopo il loro passaggio, nulla sarà mai più lo stesso.

E infine: “…Nature is a language, can't you read?...”: la natura è un linguaggio, riesci a leggerla?

Chi molto rimugina, si abitua a confrontarsi con ogni aspetto del mondo come se lo stesse leggendo: altra nota di merito per entrare a pieno titolo nell’universo sotto-sopra degli “strani”.

Insomma, gli Smiths, e “Ask” in particolare, non potrei non sentirli così fortemente “miei”, perché mi ricordano troppo qualcuno, e quel qualcuno è qua, ogni momento dentro di me.

lunedì 10 giugno 2019

Che cosa ho imparato rampando con propensione letteraria da barone calviniano, su di un ciliegione fragile dispensatore di sparuti frutti, mentre venivo a mia volta colto nel bel mezzo di una spasmodica tendenza all’intitolazione Lina-Wertmülleriana del vivere


Ho un ciliegione piccolo. Ha il tronco esile, si sviluppa più in verticale che in orizzontale.

È fragile, un po' malaticcio, ma si ostina a dire la sua nel discorso faunistico universale.

Se le sue parole migliori sono le ciliegie, dopo qualche stagione taciturna, con poche sillabe smozzicate a stento, quest'anno si è espresso in una discreta chiacchierata.

Sono ragionamenti alti però, si fatica a posarci la scala, dove le frasi più eleganti, succose, rosse e mature, vengono pronunciate.

I rami secondari, dopo una prima biforcazione bassa abbastanza robusta, si frangono in steli inconsistenti, sparati all’insù e incapaci di reggere il peso dell’aspirante raccoglitore.

Là, stanno le ciliegie cariche di maggiore desiderabilità, sui rami sottili, lontani e inavvicinabili.

Rimane solo la via della scalata a ramo nudo, senza l’ausilio di nessun genere di pioli.

Per arrampicarsi “a corteccia” su una pianta, bisogna farci conoscenza.

I primi movimenti devono essere lenti ed esplorativi, serve capire dove si possono e dove non si possono posare i piedi.

Molto importante poi fissare i riferimenti ai quali ci si possa appigliare con le mani: presto, si comprende infatti come, per salire, sia necessaria la cooperazione di tutto il corpo.

Se le ginocchia, le anche o il sedere hanno un appoggio di passaggio, è tanto di guadagnato per l’equilibrio.

E non voglio esagerare in poeticismo ritrito romanticheggiante di bassa lega melensa, ma addirittura, dopo un po' che si sta lassù, ci si rende conto di essere diventati una propaggine dell’albero: ci si sente in continuazione diramante con lui, le braccia, le gambe, le dita, tutto una conseguenza di corteccia e foglie.

Così, un appoggio che porterebbe più su, valutato rischioso in un primo momento, diventa accessibile, compiendo sequenze di movimenti misurate e imparate in quella prima fase di studio.

Allora anche le ciliegie più in vetta, quelle che a un primo sguardo erano sembrate relegate a quote inespugnabili, ce le ritroviamo a portata di mano, e scivolano nel cestino con notevole soddisfazione.

Non bisogna tuttavia cadere nell’ebbrezza del trionfo: rimarranno sempre ciuffetti rosso-verdeggianti impervi e assolutamente inconquistabili, se non a rischio della grave eventualità di franare rovinosamente a terra.

È necessario dunque capire anche quali ciliegie dovremo per forza abbandonare: rimarranno per noi solo un bel ricordo di desiderio. Senza rimpianto, perché l’aver desiderato è cosa nobile di per sé, che si sia conseguito o no l’obiettivo.

È stato così che, mentre il cestino piano piano, ma inesorabilmente si riempiva, mi ha attraversato la mente una piccola folgorazione: che la vita è una pianta fragile ma ostinata di ciliegioni.

Ancor più preoccupante, ho pensato che se ormai non riesco più a fare la benché minima azione quotidiana, senza poi “scriverci dietro” (*dialettismo) un mezzo poema, la situazione dev'essere davvero grave.

Sono definitivamente afflitto da “scrivania acuta”, con le complicazioni aggiunte di un intenso “metaforismo” che rischia in continuazione di esplodere in eccessi di smodato abuso allegorico.
Ho la mente tramutata in apparato scrivente permanente.

Ma finché porto a casa, oltre a tante parole, anche un cestino di ciliegie, direi che il bilancio si può considerare in pareggio.



Il raggio verde


Non so nemmeno perché scrivo le seguenti righe, talmente contorte che le capirò, forse, solamente io. Eppure, mi sentivo di scriverle.

Le persone, il più delle volte, le incontri sulla superficie del loro “esistere”.

Ne nascono anche scambi cordiali, c'è stima reciproca magari, piacevolezza del vedersi, parlare, scherzare forse.

Ma non si scatena mai “l’andare oltre”, non se ne sente la necessità: l’involucro esterno di quelle persone è tutto ciò che interessa vagamente sapere, riguardo a loro.

S’incontra poi la luminosa miracolosità di un “raggio verde”.

(Prendo a prestito l'immagine del fenomeno ottico naturale da cui deriva il titolo di un romanzo minore di Jules Vernes, poetizzata poi nel languido film di Eric Rohmer: "Il raggio verde”, appunto. La reinterpreto tuttavia per tratteggiare i termini qualificativi di certe persone speciali).

Un “raggio verde” è una persona che ti viene incontro direttamente col profondo del suo essere.

Ti si mostra fin da subito come essenza inafferrabile da cui ti senti come risucchiare dentro.
La persona, sul cui “esistere” scivoli tangenzialmente di sfuggita, potremmo allora ribattezzarla “raggio giallo”.

Mentre il “raggio verde” è puro “essere” che ti calamita, promessa di bellezze alle quali senti di tenere tantissimo.

È il lato oscuro della propria luna interiore, perché riesce a far emergere aspetti del proprio intimo che non si credeva di possedere, oppure si presumeva fossero occultati nel buio di territori non di nostra competenza.

L'incontro con un “raggio verde” è anche oneroso, perché assorbe forti dosi di risorse emotive: svuota, illanguidisce, macera in eroici sapori di dubbio, esaltazione, donchisciottismo utopico.

Un “raggio verde” ti spalanca porte sull’immenso, fa viaggiare a velocità dell’animo talmente elevate da sentirsi continuamente sorpassati dal desiderio di volerne sapere sempre di più riguardo alla sua luminosità.

Un “raggio verde”, col solo fatto di esserci nel mondo, e di averlo incrociato lungo i sentieri del vivere, ti prende per mano e ti accompagna fino ai confini del non dicibile.

E adesso che ho scritto, senza nemmeno sapere io bene cosa, vi auguro di incontrare almeno una volta un “raggio verde”.
Oppure, di essere a vostra volta un “raggio verde” per qualcuno.

Solo così, magari, se vi tornerà alla mente il guazzabuglio di questo mio scritto, ne coglierete forse il senso, sussurrando fra voi e voi: “…Però, al gh’ava ragióŋ, cùl siucàt là!...” (però, aveva ragione quello sciocco!).

sabato 8 giugno 2019

Quattordici secondi diversamente reali


(…Ovvero: quando in un rimpallo di sguardi, passano ottomila-quattrocento-ventitré interrogativi, poi risolti nella sventagliata fulminea di uno sbuffo surreale…)

Due passi serali in centro con gli amici.

Il grande prato urbano sfila sulla destra, stranamente recintato con delle alte reti da cantiere.

Oltre, si vede ogni cosa, ma nessuno può accedere all'erbetta, un po' spelacchiata per l’occasione, e normalmente disponibile a ospitare il placido calpestio di passanti, turisti, perditempo, gitanti urbani, cultori del picnic a mani vuote, varie ed eventuali altre tipologie di avventori spiccioli.

Nella radura verde-terra deserta, spicca come una mosca nel latte la felicità di un cagnetto nero, solo, là nel mezzo.

È la contentezza fatta cane, “scoriatta” (scorrazza), si cappotta, lancia la pancia alle stelle, riparte a razzo, frena, sgomma, traccheggia di gioia, come l’ergastolano che ha trovato aperto l’uscio della cella con tanto di chiavi nella toppa.

Fa tutto questo nel giro di due attimi, lo stesso tempo che quasi subito impieghiamo a domandarci cosa ci faccia un cane apparentemente abbandonato a quell’ora nel mezzo della città.

Intanto i nostri passi non si erano interrotti, ci portano oltre, mentre lo sguardo si srotola sul primo angolo di palazzo utile, sul contorno del grande prato.

C'è un uomo, apparente in possesso delle sue piene facoltà mentali, che si acquatta spalle al muro contro l’edificio, in compagnia di un altro cane al guinzaglio.

Sbircia oltre l’angolo, proprio verso il prato, con gran fare furtivo; torna a nascondersi, risbircia allungando il collo con estrema cautela, nemmeno avesse l’FBI alle calcagna, più tre detective dell’Agenzia Pinkerton.

Lo scorgiamo, ci guardiamo due millisecondi, ha notato che l’abbiamo notato, l’imbarazzo è totale e reciproco.

Lui non vorrebbe esser stato colto nel pieno di quello strambo rituale, noi non vorremmo quasi guardarlo per quella forma di pietoso pudore che di solito induce a ripiegare lo sguardo di fronte alla follia conclamata.

Siamo intanto ormai alla sua altezza, sull'angolo del palazzo, e il gran “condensato equivocale” che gli si è accumulato dentro, da zero a cento in tre secondi netti, non può più essere contenuto.

L’uomo è colto allora dall’urgenza di scagionarsi da quella bizzarra imputazione di infermità mentale fattagli cadere indebitamente fra capo e collo come un beffardo destino.

In un de-gregoriano canto giustificante, con ulteriori occhiate piene di pathos, prima ci lancia il suo accorato e muto “…ma io non ci sto più, e i pazzi siete voi…”.

Poi ci fa: “…Ecco…mi nascondo per non farmi vedere dall’altro cane (quello libero e felice nel prato)…l’ho mollato un attimo, ma se mi vede, non torna…se invece pensa che me ne sono andato, mi cerca per rientrare a casa…”.

Stupore nostro, divertimento e meraviglia, tutti in un colpo solo. E senso di sollievo.
Per aver scoperto che non c’era un cane abbandonato in città.

Tutt'altro: c’era invece in giro “solamente” un cagnetto felice, affidato alle cure di un padrone tanto sensibile e fantasioso nel proprio essere, da piombare involontariamente in buffissime situazioni da cabaret dell’assurdo.

Al punto che, dal selciato ancora caldo di sole di giugno, sul proseguir di passeggiata, ci è poi sembrato di sentir salire in uno strascico melodico, la voce del poeta:  “…e Lili Marlèn, bella più che mai, sorride e non ti dice la sua età, ma tutto questo Alice non lo sa…”.



venerdì 7 giugno 2019

Sfumature egregie


Alby, una dolce pecorella ben lanosa e in salute, era impiegata nella ditta “Sonni lieti & Affini ronf.r.l.”.

Con diversi anni di servizio alle spalle (o alla coda), Alby aveva già provato un po' tutte le attività dei vari reparti in cui la ditta era specializzata.

Per un periodo era stata al “settore previsioni meteo”, ma lì si era scontrata con l'inconveniente delle maledizioni dei contadini, nel caso di mancate catinelle d’acqua, promesse in precedenza con belle apparecchiate di pecorelle nei cieli.

Si era fatta trasferire allora alla “divisione pecore nere”, con l’incarico di insinuarsi negli ambienti più svariati per portare sempre e ovunque un’eccezione negativa, certificata con marchio di fabbrica di prestigio.

Però anche quella era una mansione onerosa e usurante: a fine turno, non riusciva a scrollarsi di dosso i malumori e il malcontento distribuiti nell'ambiente di lavoro, e a lungo andare la faccenda finiva per pesare sull’animo a batuffolo di Alby (tra l’altro, il nero non le donava nemmeno tanto…).

Neanche nel reparto “capri espiatori” era andata granché: si facevano soltanto grosse scorpacciate di sensi di colpa, manie di persecuzione e complessi di inferiorità.

Così, Alby aveva chiesto al responsabile della “retro-divisione-posteriore kamasutra”, se ci fosse per caso un buco libero al “reparto pecorine”.

C’era.

Per un po' trascorse un periodo professionale di grandi soddisfazioni. Lavorava in ambienti molto eccitanti, con una clientela che si dimostrava spesso soddisfatta al di là, e al di qua, di ogni rosea aspettativa.

I guai non mancavano tuttavia nemmeno in questo particolare ambito operativo: si faceva della gran dietrologia, spesso si accampavano scuse di emicranie fittizie, le ansie da prestazione fioccavano e, quel ch’era peggio, s’incappava talvolta in sedicenti principi del foro, con la subdola mania di cambiare canale alla vigliacca su “Radiodue”.

Per Alby, si rese necessario allora un nuovo trasferimento. Alla fine le venne assegnato un incarico nel posto che forse sarebbe stato a lei più congeniale fin dal principio: il “reparto pecorelle da contare per prender sonno”.

C'è da dire che qui Alby si trovò subito molto bene. Lavorare coi numeri le piaceva, era bello perché a seconda della più o meno accentuata “durezza” del cliente nel pigliare sonno, ogni sera c'erano da trasportare tanti numeri diversi.

Considerando che la frenesia di vita moderna costringeva ormai tantissimi clienti a riconciliarsi col sonno solo dopo duemila o tremila pecorelle contate, la ditta non poteva in ogni caso impiegare tutti i dipendenti solo sul “reparto pecorelle” da sonno.

Si organizzavano allora piccole squadre ben affiatate di pecore da conta, che a turno sfilavano in rassegna davanti ai pensieri “pre-dormienti” dell'aspirante sognatore, ciascuna reggendo ad ogni giro un numero progressivo sempre più alto, sino a ottenimento dell’obbiettivo “ronfatorio”.

Alby, era ben lieta e fiera di fare le sue sfilate dinnanzi alle palpebre abbassate del cliente, portandosi dietro quei numeri per lei così significativi. Si accorse però che le colleghe non eseguivano il proprio compito con lo stesso spirito.
Pescavano con fare ripetitivo dal cestone dei numeri, senza badare tanto a cosa avevano tirato su, per loro un “236” valeva quanto un “721”, bastava solo si arrivasse a fine turno, col cliente ronfante, e del resto nulla importava.

Riguardo alla questione, una buona volta, in “pausa-brucata”, Alby si volle sfogare con le colleghe.

Prendendo in disparte le amiche più fidate, Ab Bacchia, Ke Babba e Gregoria Peck, Alby fece loro un piccolo discorso appassionato: “…Credo sia importante non dare semplicemente dei numeri alla persona che vogliamo far dormire…ogni numero in aggiunta all'elenco, dovrebbe essere invece il dono di un pizzico di esperienza in più, nell’avvicinamento al regno del sonno…chi sta per cadere nell’abbraccio dell’addormentamento, deve sentirsi come se stesse facendo l’amore coi numeri che gli portiamo…ad esempio, i numeri pari contengono la dualità, celano in sé il mistero del rapporto con l'altro; i multipli di tre riecheggiano invece il senso di relazione aperto ai più; i numeri primi sono preziose gemme impazzite; ciascun numero ha poi suoi colori e forme, l’8 è un grassoccio giocoso in giacca viola, il 6 verdeggia gentilezza sotto un ciuffo ribelle in tinta senape, il 5 emette luce giallissima nella sua tutina sexy attillata…coraggio allora: andiamo sulla soglia del sonno e conduciamoci gentilmente chi si affida a noi, non portandogli soltanto delle cifre, ma regalandogli una poesia numerica in grado di fargli sognare tutto quanto desidera sognare…”.

Così fecero.

Da quella volta, nel “reparto pecorelle da contare per prender sonno” della prestigiosa ditta “Sonni lieti & Affini ronf.r.l.”, un piccolo gruppo di ben armonizzate colleghe lavorano di gusto, facendo contenti anche tanti affezionati clienti di sogni.

E, quasi inutile dirlo, la dolce pecorella Alby, sempre ben lanosa e in ottima salute, non fece più domanda di nessun trasferimento.



giovedì 6 giugno 2019

Con in tasca California


Siamo noi
Sospesi su un gradino del tempo
Sorpresi lungo il binario di un sorriso
A esplorarci le buffe periferie del viso
Bloccati in un incanto
Increduli di tanto
Del non potuto essere
Di quanto bello a perdere
E dolcezza d’ossessione
Che l'innamorarsi è ciclico
Come il rewind d’una canzone
Di cui nessun tono pratico
Saprà mai scriver l'equazione
Perché l’eccesso di bellezza
Avrebbe saputo scioglierci
Nella gran certezza del farsi
Di una solenne persuasione
Con l’anima a schiantarsi
Contro il muro di un magone
Val la pena di rischiare
Se l’immenso è il vero gusto
Acciuffato per scampoli di ore
Dietro a un velo di incombusto
Somigliante a un tuffo al cuore

Con le pagine ai piedi


Nella mitologia greca, Hermes era il messaggero degli Dei.

Suo, il compito di fare da tramite fra gli uomini e la divinità: doveva trasmettere al mondo ciò che gli Dei intendevano comunicare a esso.

L’iconografia classica (pittura, scultura e così via) ha sempre rappresentato Hermes con due alette per piede (spesso le sfoggia anche ai lati dell’elmo, ma non è raro vedergliele proprio alle caviglie).

L’immagine di due ali spalancate in volo, me l’ha sempre suggerita anche la sagoma di un libro aperto.

La duplice curva delle pagine, nel loro congiungersi centrale alla costa della copertina, unita alle due “svirgolate” sugli estremi, suggeriscono proprio l’idea di un involarsi chissà dove.

Tra l’altro, pur avendo i due termini origini diverse, di passaggio si può anche osservare un’ulteriore analogia di immagini fra la parola “libro” e la parola “librarsi” (in volo, in aria, nel cielo).
Una mezza macedonia di queste suggestioni, mi è piombata in mente durante un momento di lettura.

Ho posato un attimo il libro di turno sulla pancia, e i piedi in prospettiva si sono subito vestiti delle ali del volume.

Cosa può voler dire mettersi ali di libri ai piedi?
Inteso nel senso filosofico più profondo, per i greci, il volere degli Dei è il volere della realtà (stante che la filosofia nasce da un vasto “respiro mitologico” antecedente, immesso nei polmoni del senso dell’esistenza, molto tempo addietro).

Con ai piedi ali libresche, diventiamo “hermes-messaggeri” a noi stessi, dei significati del mondo. Cerchiamo di capire cosa vuole la realtà.

Tra parola e realtà c'è differenza? Molto probabilmente sì, ma rimane il fatto che, se larghissima parte della realtà non venisse raccontata, se non prendesse vita, vigore e fisionomia, in virtù del proprio passare attraverso la parola, cadrebbe nell’oblio e nell’indifferenziato.

Vivere è nominare e raccontare le cose. Ciò che non viene nominato, né raccontato, in pratica non esiste. Anche il pensiero è un racconto fatto a sé.

Con ai piedi ali di libri, idealmente scritti o molto più comunemente soltanto letti, spicchiamo il volo fra i significati delle cose nominate, raccontate e pensate.

Facendoci biblio-Hermes di noi stessi, spicchiamo il volo nel racconto-vita di cui siamo parte integrante.

E d’altra parte, se le “molecole della realtà” non fossero fatte di parole, uno dei più grandi testi di tutti i tempi, non inizierebbe così: “In principio era il Verbo…”.


lunedì 3 giugno 2019

M - Il figlio del secolo


Sosteneva il grande poeta americano Ezra Pound (1875-1972) che soltanto la buona letteratura sa regalarci notizie capaci di rimanere attuali per sempre.

Solo fra le pagine di un buon libro, possiamo leggere cose che non diventano mai “di ieri”, conservando invece tutta la propria freschezza e una pregnanza di significati perpetuamente odierna.

Lo straordinario romanzo storico “M – Il figlio del secolo”, di Antonio Scurati, sembra davvero aver preso alla lettera le parole di Pound, facendone una sorta di obiettivo programmatico di fondo delle proprie modalità narrative.

La “M” del titolo sta naturalmente per Mussolini Benito e non si tratta di una semplice biografia romanzata del duce del fascismo. È piuttosto la biografia di un’epoca, vista attraverso l’ingombrante “lente  d’ingrandimento drammatico” della vicenda umana e politica di Mussolini (il volume prende in esame gli anni di “incubazione” sociale e politica del fenomeno fascista, dal 1919 al 1924).

Il “problema”, con gli avvenimenti importanti che segnano il passo al cammino dell'umanità, sta perlopiù in una duplice difettosità.

Dapprima, gli eventi ci scorrono davanti in rassegna come elementi di cronaca un po' indecifrabili e durevoli lo spazio di qualche settimana al massimo.

In seguito, dopo parecchio tempo, noi (o chi per noi) li ritroviamo “impaludati”, “addobbati a festa”, cristallizzati e spesso devitalizzati, fra le pagine di un libro scolastico di storia.

La storia, per chi la sta vivendo, è difficilmente leggibile con chiarezza.

Mentre la distanza del tempo accumulato sopra i fatti, rischia talvolta di incasellarli in una visione stereotipata e svuotata dell’immediatezza originaria, della “presa diretta umana” di cui erano carichi nel loro accadere.

L’operazione di Scurati risiede nel tentativo (a mio avviso ben riuscito) di riportare i fatti alla “flagranza del momento” in cui si verificarono.

Questo viene fatto ovviamente nel pieno privilegio della finzione romanzesca: stipulando un patto di complicità con lo scrittore, leggendo, quasi ci auto-invitiamo a far finta di non sapere come andarono poi gli eventi nel loro effettivo svolgimento storico.
Allo stesso tempo però, lo sappiamo.

Per cui alla fine, ci gustiamo sia lo stupore di un’immediatezza cronachistica rispolverata, sia la consapevole di una panoramica temporale di ampio respiro, che pur possediamo.

La storia, calata di nuovo nella sua dimensione di dubbio, e nello stesso tempo già ben pregna di un ampio sottofondo di “senno di poi”, risulta in questo modo rivitalizzata da un nuovo vento di passione conoscitiva.

In questo modo, numerosi personaggi a tutti ben familiari (oltre a Mussolini stesso, compaiono D’Annunzio, Marinetti, Giacomo Matteotti, Filippo Turati, Giolitti, e così via) vengono “estratti” dallo stato di fantasmi storici in cui la memoria comune spesso li tiene relegati, e riportati ad essere protagonisti vitali di un racconto tragico, denso di energia narrante, appassionato nel contempo e “super partes” (per quanto possibile).

Va aggiunta una nota dolente. Il libro di Scurati ha subito anche molte critiche, perché da alcuni studiosi sono stati rilevati nel testo non pochi errori e imprecisioni riguardanti date e altri dettagli storici.

Personalmente, mi è spiaciuto molto per questo “infortunio”.

Proprio quello, ho provato: il dispiacere che ti coglie quando sai di un amico che stava creando un qualcosa di così bello, da non riuscire a controllare tutti i particolari, tanto la bellezza lo teneva impegnato e lo rapiva completamente nei momenti del proprio lavoro.

Questa non è una scusante. La gravità delle imprecisioni, per un libro che ha fatto della fedeltà alle fonti una delle sue motivazioni primarie, rimane.

Ma a me rimarrà, ancor prima, il ricordo di una gran bella lettura, che mi ha aperto una nuova prospettiva su un possibile modo alternativo, più vivo e partecipato, di guardare alla storia.


venerdì 31 maggio 2019

Tutto gira intorno a ogni cosa


Col tempo rimesso un po' per il bello, possiamo tornare ad aprire le finestre, e insieme all’arietta gradevole, torna un super classico di stagione: la gravitazione universale “moscata”.

Non si è mai capito bene perché, ma se hanno a disposizione una stanza tiepida e luminosa, con un bel lampadario appeso al centro, stai sicuro che le mosche inizieranno a ruotarci attorno, in instancabili orbite da mini satelliti entomologici.

Così subito noi umani, giù a pensare: ma che fesse queste mosche a girare sempre in tondo così.

E poi tronfi del nostro antropocentrismo, magari saltiamo sulla bici, o saliamo in auto, oppure ci incamminiamo semplicemente, ma in ognuno di questi casi, mantenendoci sempre fedeli a un logicissimo e razionale moto rettilineo.

Ma hai visto mai che le mosche abbiano ragione?
Per risolvere il dubbio, non c'è forse un modo più semplice e immediato che osservare la realtà. O meglio, il succo della realtà.

Se lo facciamo, considerando in particolare gli estremi dell'infinitamente piccolo e quelli dell'esageratamente grande, constatiamo che in effetti nella realtà ogni cosa ruota in riferimento a qualcos'altro.

Nel minuscolo, gli atomi sono costituiti da piccoli centri detti nuclei, sferette solari in miniatura, attorno a cui girano certe particelle-satellite, dette elettroni (sbalorditivo tra l'altro pensare come il diametro dell’intero atomo sia centomila volte quello del nucleo).

Sul fronte opposto, nell'immenso, satelliti ruotano attorno a pianeti, pianeti attorno a stelle, stelle attorno a centri di galassie, e così via, forse l’universo stesso ruota attorno a un suo centro che fa da perno ad altri universi, vai a sapere…

Insomma, gli atomi sono micro sistemi solari, mentre gli smisurati complessi astronomici sono sistemi atomici spropositati, e noi, siamo ancora così sicuri di essere più furbi delle mosche?

Pensateci bene, anche nel mondo di ogni giorno tutto ruota.

Basta innamorarsi, e ruoteremo attorno a una persona; leggiamo un libro, ecco ancora che ruotiamo attorno al fascino delle pagine, della storia contenuta, della bellezza assorbita; ascoltiamo qualcuno e ruotiamo attorno alle sue parole; parliamo noi, e chi ci ascolta ruota attorno al nostro dire; mangiamo un succulento piatto, e ruotiamo attorno alla fame, alla golosità, alla pietanza stessa; e via di questo passo.

La cosa più sorprendente avviene però col tempo. Siamo tanto convinti della giustezza e ragionevolezza del procedere in linea retta, da ritenere anche il nostro “spostarci” lungo il tempo lanciato in una simile direzione.

Sembra quasi stupido porre la questione: noi, nel tempo, scorriamo diritti come fusi, non ci sono dubbi.

E se invece, anche attorno al tempo, noi ruotassimo?

È vero che, nella sostanza, indietro nel tempo non si può tornare, ma allora cosa sono quelle continue vampe di consapevolezza infantile, o di consistenza adolescenziale, che di continuo sperimentiamo e riassaporiamo, come se non fosse trascorso nemmeno un secondo dall’attimo in cui provammo certe emozioni da bambini o da ragazzi?

Com'è che basta una canzone o un ricordo intenso, per rivivere tutto pari pari?

Non sono, tutti questi, null'altro che modi diversi di ritornare allo stesso punto della nostra orbita di rotazione intorno al tempo?

La prossima volta che becco uno sciame satellitare di mosche attorno al lampadario, chiedo informazioni…

martedì 28 maggio 2019

Romanzotti in umido di maggio


Il “romanzotto” è una particolare forma di micro-romanzo di mia “invenzione”.

L'idea di base è molto semplice: ogni “romanzotto” deve essere scritto con un massimo di otto parole.

Unici benefit aggiuntivi: il titolo, naturalmente, e una descrizione del genere in cui la minuscola storia si colloca.

Quale vantaggio può dare tutto ciò? Che vi leggete dieci “romanzi” in un minuto:

Romanzotto 1
Titolo: “Nel buco nero della galassia Ciambella ”
Johnny abbandonò l'astronave. Dentro, il tempo rallentava.
(genere: crono-dramma fantascientifico)

Romanzotto 2
Titolo: “Quella sporca piattaforma contrattuale”
Mandrie nei saloon scaricavano guai sul sindacato cowboy.
(Genere: western di lotta sociale)

Romanzotto 3
Titolo: “Scoperte novità”
Col piede in fallo, la pornostar lanciava mode.
(Genere: hardidattico)

Romanzotto 4
Titolo: “Cronaca di ottici amanti”
Facendo l'amore con gli sguardi, lacrimavano luce.
(Genere: sentimental-visionario)

Romanzotto 5
Titolo: “Se il futuro ci sorprenderà…”
Coglievamo petali dal fiore degli anni. Api immaginifiche.
(Genere: entomologico-sentimental-botanico)

Romanzotto 6
Titolo: “Scornarsi coi proverbi”
La moglie ubriaca spillava amanti dalla botte piena.
(Genere: tanto va la commedia al lardo…)

Romanzotto 7
Titolo: “Il passato è futuribile”
Rivivendo l’incubo, dagli scavi archeologici affioravano smartphone.
(Genere: anti-utopia passatista)

Romanzotto 8
Titolo: “Triste, grottesco e finale”
L'idiozia, gettando plastica, morì plastificata. Albeggiavano dinosauri.
(Genere: catastrofico definitivo)

Romanzotto 9
Titolo: “Labirinto voyeurista”
Guardando dal buco della serratura, si vide nudo!
(Genere: thriller surreale)

Romanzotto 10
Titolo: “Disperante speranza”
Il nulla nella radura deserta si faceva adulto.
(Genere: esistenzialista estremo)



Ma te?...Mah!...


Moltiplicare fra loro due numeri, in matematica, vuol dire sommare il primo tante volte, quante ce ne indica il secondo (o viceversa).

Ad esempio: 48 x 27 si può sostanzialmente trovare scrivendo una fila di 48 + 48 lunga ventisette volte.

Sembra un modo ben astruso di considerare la moltiplicazione, eppure è così che la intendevano certi popoli antichi, tra i quali, fra gli altri, anche i Romani.

Non possedevano infatti la nozione di scrittura delle cifre in base alla posizione, sviluppata invece, “a parte”, dalla matematica indiana e poi portata in occidente attraverso la mediazione degli arabi.

In numeri romani III vuol dire 3, dove ogni stanghetta verticale indica 1, con ciascun 1 in questa cifra che vale quanto gli altri.

Nel sistema che abbiamo imparato noi fin dalle elementari, invece, se scrivo 111, innanzitutto vuol dire centoundici, ma poi ogni 1 ha un valore diverso dall’altro. Il primo, da destra, vale 100; il secondo, 10; il terzo, 1.

Con la posizione, ogni numero cambia significato: questo consente già di dominare cifre molto più grandi, che non usando una scrittura e una concezione dei numeri indifferenti al posto occupato.

Questa idea, unita all’introduzione del concetto dello “zero” (anch'esso sconosciuto ai Romani), fornì alla mente umana un “panorama” dei numeri in cui calcolare, molto più potente di prima.

Data la conoscenza delle tabelline, moltiplicare due cifre, allora, se prima era una lenta aggiunta di “strati”, diventa come infilare quelle due cifre (anche grosse) in una centrifuga che gira molto veloce e le risputa unite nel risultato finale.

Dietro questa idea, non c'è solo una conquista matematica, ma anche un diverso modo di guardare al mondo, e a se stessi nel mondo: una trama filosofica di fondo più raffinata.

Quel “centrifugare” fra loro i numeri, probabilmente non sarebbe stato concepito dagli antichi indiani se non avessero sviluppato prima una forma di consapevolezza di se stessi, contenente già i tratti intesi ancora oggi.

Gli indiani, forse fra i primi nella storia, presero coscienza di un “io” e di un “sé”, che pur contenuti nella stessa persona, sono anche due entità distinte.

Ogni individuo è una persona unica, ma può e sa pensare a se stesso come “guardandosi dal di fuori”, come personaggio di uno scenario in cui egli si vede calato, protagonista di un racconto, nel quale può anticipare mosse, prevedere scenari, ipotizzare possibili sviluppi, e così via.

Questa capacità di riuscire a “raccontarsi a se stesso”, attore e spettatore insieme, non è sempre stata in possesso dell’uomo.

L’ha scoperta.

Così come ha scoperto la moltiplicazione.
La cosa bella che imparenta le due idee, emerge da una particolare eccezione contenuta nell’atto del moltiplicare.

Quando calcoliamo 1 x 1, mettiamo in relazione due unità, ma il risultato ottenuto è ancora una unità sola.

Così accade nella nostra coscienza, che sa sdoppiarsi in auto-osservazione di sé, pur dando sempre come risultato l'unicità dell'individuo che siamo.

1 x 1 = 1

È forse questa la scrittura più significativa per cogliere la dualità condensata in individuo, nella quale consistiamo.

[Lo spunto per questa “forse” macchinosa riflessione mi è venuto dalla lettura di un misteriosissimo, criptico, ma affascinantissimo libro: “L’ardore” (2010), di Roberto Calasso (Adelphi)].


venerdì 24 maggio 2019

Quel pezzo di me che il mondo mi deve, ma forse preferirei si tenesse...


Questo è un classico della mia vita: vado in un posto pubblico, ho bisogno di andare in bagno; quando ho fatto, mi appresto a lavarmi le mani e zac…non c'è modo di vedersi in faccia.

Lo specchio è appeso sempre troppo in basso, oppure il mio muso è appeso troppo in alto, (dipende dalle opinioni), così che regolarmente il mondo mi ruba la testa e io, se fosse possibile, ogni volta la rivorrei indietro.

O forse no…

Sono nato alto, o perlomeno abbastanza oltre la media. Ma giuro che dentro di me, mi sono sempre sentito di statura normale, e da una vita faccio i conti con gomitate sbattute dove credevo ci fosse l’aria, ingobbimenti forzati, file troppo anguste di sedili al cinema o in corriera, water che mi sembrano turche, e così via.

La gente crede che essere alti sia bello, è opinione comune che dia dei vantaggi.

D'accordo, non dico di no, ha i suoi aspetti interessanti, con vari risvolti positivi, e tutto sommato sono contento dei miei centimetri in più, ma fa anche molto strano portarsi sempre in giro quel piccoletto interiore che vorrebbe esprimersi su raggi d'azione più normolinei, e invece è costretto a rimaner imprigionato in una “spilungonità” imprescindibile.

Non so se in ogni alto si nasconda un bassetto che desidererebbe sbocciare come tale, ma io personalmente mi sono sempre sentito così.

L’effetto elefante in cristalleria mi è molto familiare, almeno dai tempi delle scuole elementari, da quando cioè il mantra del “ma come sei alto” cominciò a fare da ritornello comune alle mie giornate.

Magari, mi sarebbe piaciuto tante volte dare più carezze a persone, animali o cose, ma credo che mi abbiano spesso frenato i due badili appesi ai polsi, al posto delle mani.

Mi sarebbe piaciuto entrare in punta di piedi in molte circostanze del vivere, ma le cassette da uva che mi ritrovavo alle caviglie consentivano tutt’al più una goffa comparsa sulla scena.

Chissà…forse è anche per questo che ha finito per piacermi così tanto questa faccenda dello scrivere.
Quando scrivo, posso probabilmente  sprigionare il piccoletto che mi scalpita dentro.

Può piroettare con eleganza fra spazi risicati, fare un dribbling intorno a ostacoli nei quali, dal vero, mi incastrerei come un salmone fra zampe d’orso, può sgusciare con modi aggraziati in un mondo di movenze commisurate, laddove andrei a sbattere a ogni metro con tonfi disgraziati.

In generale, una certa tensione fra interiorità e mondo esterno può essere dunque faticosa, ma anche portatrice di fecondi slanci liberatori.

Credo che sia un sentimento comune, questo differenziale percepito, fra una condizione “di dentro” desiderata e una “di fuori” in qualche modo, per forza di cose accettata.

Ma questa tensione può essere volta in positivo, proprio in forma di un “tendere a”, se si riesce a farne motivo di ricerca di una propria strada espressiva, riequilibratrice della bilancia sui cui piatti posano aspirazioni e contingenze di fatto.

E la mia via è forse giusto la scrittura.

Quando scrivo posso sedermi sul quel water di misura mai conosciuto nella realtà, e lì finalmente riesco a dire tutto ciò che su quelli veri non ero riuscito a esprimere.

E il primo che si azzarda a dire che sono per l’appunto soltanto stronzate…

giovedì 23 maggio 2019

Cosa ne è di ciò che fu


Bruno Munari (1907-1998) ha fatto la storia del design italiano.

Oltre che grande artista, è stato un attivissimo promotore culturale e inesauribile miniera di idee, nonché studioso attento del mondo dei bambini, osservato dal punto di vista della creatività.

Da uomo saggio qual era, Munari per i bambini lavorò molto, ma cercò anche di imparare da loro.

In un suo libro, lessi una cosa che non ho mai scordato.

Si confrontava spesso con l'espressività “artistica” dei più piccoli, e consigliava a maestre ed educatori di buttare i disegni dei bimbi o le altre loro creazioni, una volta che l’esperienza della loro realizzazione si era compiuta e completata in tutte le fasi.

I bambini non si sarebbero così fissati sui risultati ottenuti, rivolgendo invece la loro attenzione al percorso di conoscenza che stavano facendo.

Non discuto qui della validità pedagogica di questa idea. Non sono un esperto di nulla, tanto meno di metodi educativi, dunque non saprei valutare nel merito specifico.

Da piccolo ero gelosissimo dei miei disegni e scarabocchi, per cui non avrei cuore a gettare una roba fatta da un bimbo nemmeno con un mitra puntato alla schiena.

Del suggerimento di Munari, mi piace però la riflessione che può far fare, riguardo alla vita in generale.

Cosa rimane di quanto abbiamo fatto e di ciò che siamo stati?

O forse è meglio domandarsi: cos'è bene che rimanga?

Di sicuro (o almeno così a me sembra), è bene che non rimangano degli “idoli” congelati nel passato.

Col tempo, i conti li dobbiamo sempre fare, che ci piaccia o no.

Ostinarsi nel rimanere attaccati a ciò che non è più, e soprattutto non può più essere, è come gettare l'ancora e pretendere che si fissi a una nuvola.

Del passato però rimane una parte più evanescente, ma più profonda.

Non sono importanti i ricordi ormai rinsecchiti di cose fatte o vissute. Ciò che più conta è “come siamo stati” nel vivere certi attimi.

Che persona ero quando vivevo certe gioie, o anche certi dispiaceri? In che forma personale mi inserivo nel flusso del tempo?

In altre parole, a che punto mi trovavo del mio cammino di conoscenza del mondo?

Le cose fatte in sé, le situazioni esatte, la magia dell’attimo, anche se a volte ne rimangono tracce concrete, non potranno più tornare.

È inutile volersi struggere per quello, a meno che non si tenga così tanto al classico pugno di mosche stretto in mano.

Rimane invece sempre “chi eravamo” quando vivevamo quelle cose. Il camminare è stato più importante delle tappe fatte. E quel camminare di allora va inserito con giustezza di proporzioni in quello che seguitiamo a fare oggi.

In questo senso, accogliendo l'insegnamento di Bruno Munari, possiamo serenamente gettare i disegni del nostro passato, ma conservare con profitto la nostra “essenza personale” dei tempi in cui li disegnammo.

Può essere anche una buona ricetta per attenuare le vampe della nostalgia, o del rimpianto, sempre umanamente molto propense a riaccendersi.

E per trattare lo scottante materiale del nostro passato senza ustionarci le dita (rischio altrettanto alto).

mercoledì 22 maggio 2019

Le mini avventure di una virgola girata


Una piccola virgola era nata con la codina girata verso destra, anziché a sinistra come tutte le altre virgole.

Subito si era messa a fare quello per cui ogni virgola si sente portata: entrare nei discorsi e dirigere le parole.

La sua curiosa sagoma creava però smarrimento sulle labbra di chi parlava e nelle penne di chi scriveva.

Il modo tutto particolare che aveva, di mettere in sospeso per un attimo la frase, non risultava così netto come quello degli altri milioni di “virgole dritte” in circolazione su ogni pagina e dentro ogni ragionamento.

La piccola “virgola storta” aveva un maniera tutta sua di assecondare il flusso della frase. Creava un breve stacco gentile, semi-scorrevole, che lasciava spazio alla grazia del dubbio e della scelta fra alternative.

Ma l’epoca in cui la piccola “virgola storta” era capitata, era un’epoca assetata di certezze granitiche, di verità indiscutibili, di sentenze certe e definitive.

Così, con la sua indole modesta e possibilista, la piccola “virgola storta” si rassegnò a mettersi un po' da parte.

Non si azzardava più a entrare nei discorsi, perché fra le parole era ormai mal tollerata, incompresa, se non addirittura dileggiata come una stramberia ortografica o un'eccentricità oziosa.

Si ritrovò allora a passare il tempo in compagnia di altri “scarti grammaticali” simili a lei.

Faceva colazione con gli apostrofi scacciati dai “qual è”.

Giocava a briscola con gli accenti sbagliati su “stà”, “quì”, “fà”.

Andava in visita al capezzale degli infelici “piuttosto che” usati bislaccamente nel senso di “oppure”, coricati doloranti in un letto di sudore, nel delirio ripetuto di una ossessiva dichiarazione: “…noi significhiamo <<anziché>>, non significhiamo <<oppure>>…”.

Ma alla piccola “virgola storta” capitava di pensare: “…Che cosa ci faccio qui, io? Questi sono tutti cari amici, ma loro sono errori, sono vittime dell’ignoranza, di menti superficiali e facilone!...Io invece sono una singolarità, sento che posso dire qualcosa di buono!...”.

Allora, non si sa bene come, le venne subito dopo una curiosa idea: “…E se provassi a posarmi fra le parole non ancora nate di uno scrittore in pieno blocco da pagina bianca?...”.

Così fece.

Cercò il primo scrittore disponibile completamente paralizzato di fronte al timor panico che incute il foglio di carta del tutto vergine, privo di qualsiasi segno inchiostrato, e si tuffò a pesce su quel “biancore” di espressività potenziale, ma ancora inespressa per intero.

Lì successe un piccolo portento inaspettato.
Non appena posò la sua codina sulla pagina dello scrittore in blocco, la “virgola storta” divenne tutta bianca, come la carta.

Dopo un breve attimo di grande stupore misto a paura, la piccola “virgola storta” si mise a ridere di gusto.

Ci si trovava infatti benissimo, tutta bianca sulla pagina bianca: non si era mai sentita così in forma e interamente espressiva, prima di allora.

Un grande coraggio la attraversò tutta, dalla sua capoccia a puntino fino all'estremità della coda diversamente direzionata.

Sospinta dal rinnovato ardire, trovò la forza per decidersi a fare ritorno sulle normali pagine dei libri scritti, o fra i suoni dei discorsi della gente.

Lì, non vista, portava un nuovo vento di gentilezza fra le parole.

I parlanti, gli scriventi, i leggenti, non capivano perché, ma da quando la “virgola storta” in versione albina si era intrufolata non vista fra di loro, si sentivano più sereni, più distesi, usavano il linguaggio con un piacere e una soddisfazione quasi dimenticati.

La piccola “virgola storta” fu così molto felice della sua nuova vita in incognita e di tanto intanto tornava a trovare i suoi amici errori ortografici.

Lì, faceva ogni volta il pieno di quel buon umore che solo fra le cose sbagliate si può trovare in forme così pure e innocenti.

Poi si rituffava di nuovo in pagine e discorsi, per continuare a svolgere il suo prezioso ruolo di mediatrice invisibile e ambasciatrice di fertili incertezze.

sabato 18 maggio 2019

Giro-tonto per tutti e per nessuno


Tutti desiderano essere desiderati
Ognuno desidera desiderare altri
Chiunque ha desiderio di desideri in sé
Nessuno ama essere odiato
Tutti odiano non essere amati
Tutti amano sentirsi dire sei bravo
Nessuno vuole sentirsi dire sei brutto, incapace, inutile
Potendo, molti preferiscono perlopiù non sentirsi dire nulla
Tutti vogliono vincere
Pochi capiscono che al mondo è molto importante chi perde
Tutti sono fragili
Molti fanno finta di no
Alcuni sono forti perché sanno di essere anche fragili
Ciascuno cerca la compagnia
Nessuno vuole sentirsi solo
Tutti ogni tanto vogliono stare soli continuando a sentirsi come in compagnia
Chiunque gode a godere
Quasi tutti godono a far godere
Molti godono ad essere goduti
Nessuno vuole mai piangere
Ciascuno preferisce sempre sorridere
Tutti in generale stanno meglio seri
A chiunque piace fare l'amore
Nessuno vorrebbe aspettare che l'amore venga fatto
Tutti puzzano di quando in quando e di dove in dove
Il problema di ciascuno son le volte che il quando non conosce il dove
Chiunque preferirebbe odorare di buono sempre, o al limite di niente
Tutti scoreggiano di gran gusto
Molti non si sono ancora riconciliati con l’idea
Pochi sanno di non sapere
Molti credono di conoscere
Ognuno, più sa e più soffre, però con la coscienza distesa
Nessuno vorrebbe soffrire, ma si ritrova con la coscienza accartocciata
Molti non riescono a guardarsi dentro, per la paura insostenibile
Tanti continuano a guardarsi fuori e intorno
Alcuni si osservano dentro e vedono un gran vuoto
Qualcuno comprende che provare a colmare quel vuoto è un’avventura affascinante, e ne vale la pena
Tanti pretendono di sapere
Nessuno sa veramente qualcosa
Tutti non sanno nulla
Tutti vorrebbero essere nessuno, ogni tanto
Ciascuno è obbligato a essere qualcuno, quasi sempre
Io non so niente e ringraziando il cielo non sono nessuno
O almeno così molte volte mi piace sperare


Io sono in me


Lo confesso.
A volte in libreria mi piace scegliere libri dal titolo molto astruso, giusto per darmi un tono da gran intellettuale “sbraga-verze”, sfilando poi fra gli scaffali col mio tometto in mano, ostentato solennemente con enigmatico ghigno neo-brežneviano dell’ultima ora.

Un po' lo faccio anche per il gusto di vedere la faccia che farà il tizio alla cassa.

Ma stavolta credevo di aver proprio esagerato.

La mia scelta infatti è caduta su “IL CROLLO DELLA MENTE BICAMERALE E L’ORIGINE DELLA COSCIENZA”, un saggio di antropologia psicologica (se così possiamo dire), scritto nel 1976 da JULIAN JAYNES (1920-1997).

Quando ho cominciato le prime pagine tuttavia, mi sono reso conto di non aver esagerato per niente.

A dispetto infatti del titolo in apparenza contorto e oscuro, il testo si rivela molto lineare, argomentato con sapienza espositiva, e in grado di tener alto l’interesse del lettore (forse con qualche calo d'intensità e rallentamenti solo nelle parti in cui si addentra fra prove storiche e documentali delle proprie tesi).

E non potrebbe essere altrimenti, perché Jaynes (insegnante all'università di Princeton dal 1966 al 1990) si occupa di una della più umane fra le peculiarità dell’uomo. Anzi, forse proprio di quella in virtù della quale possiamo effettivamente definirci umani: la coscienza di sé.

Cosa vuol dire avere consapevolezza di se stessi come individui? Come si è formata, storicamente e psicologicamente, tale consapevolezza?

Padroneggiare una concezione definita di sé, significa possedere quella capacità di auto-osservarsi, quasi come se si avesse di fronte un altro soggetto.

Quando considero me stesso, è come se imbastissi un racconto interiore, nel quale narratore, soggetto descritto e ascoltatore, coincidono tutti con la medesima persona: io.

Ho coscienza di me, quando, per così dire, divento “terzo a me stesso”.

Questa non è una prerogativa presente nell’uomo da sempre, ma una conquista evolutiva della mente (dell’animo?), acquisita con gradualità molto lenta, nei millenni.

L’uomo si distingue dall’animale soprattutto per la capacità di scegliere.

La scelta a sua volta non può avvenire senza coscienza di sé, senza sapersi guardare in un contesto di alternative possibili, ossia senza saper inquadrare se stessi in quel racconto dal triplice “narratore-protagonista-ascoltatore”, tutti condensati in un unico “io”.

Se è vero, come ormai è accettato sia vero in base all’evoluzionismo, che le nostre origini hanno radici animali, ci dev'essere stato allora un passaggio dalla pura istintualità, a un superiore grado di capacità di scegliere con consapevolezza.

Jaynes ipotizza che il nostro primordiale status di animali gregari, ci inducesse a una originaria condizione “esistenziale-decisionale” basata sulla introiezione di una volontà collettiva del branco di appartenenza.

I nostri antenati primitivi non sapevano ancora agire per libera scelta consapevole, ma in qualche modo si uniformavano agli imperativi del gruppo, assunti come direttive interiorizzate, ai fini della sopravvivenza.

Questa condizione di “automatismo mentale”, secondo il cuore della teoria di Jaynes, si specificò e “specializzò” in una sorta di doppia “compartimentazione interiore”, supportata anche da prove anatomiche e fisiologiche riguardanti la conformazione del cervello (da cui l’espressione “mente bicamerale”).

Per dirla in termini molto semplificatori, nella mente dell’uomo preistorico funzionavano due reparti: uno impartiva i “comandi”, mentre il secondo li eseguiva.

In questo quadro, la consapevolezza di sé era ancora molto nebulosa, se non praticamente inesistente.

Il cammino verso la coscienza individuale fu lunghissimo, e straordinari indizi del precedente stato “bicamerale” si trovano nella mentalità dell’uomo omerico (Iliade e Odissea), o in diverse epopee poetiche ed eroiche di altre civiltà (ad esempio anche nella Bibbia, o nella tradizione babilonese).

Il “sentire le voci” degli dei, o di un Dio, non consisteva dunque solamente in un'espressione metaforica-figurata, ma faceva parte dell'esperienza comune effettiva di quell'umanità “pre-consapevole”.

A questo punto, va precisata una cosa: Jaynes non è certo uno che si fa pregare a “spararle grosse”. Nel senso che le sue ipotesi sono molto cariche di fascino, anche se la comunità scientifica non le ha sempre accolte propriamente “a braccia aperte”.

Però la cosa fondamentale, alla fine, è che questo libro sprizza onestà intellettuale da ogni sillaba.

Jaynes non accampa pretese di rifilare verità stabilite, ma argomenta ogni volta in modo molto puntuale quelle che in ogni caso propone sempre come ipotesi.

Alla fine ne risulta un racconto storico, antropologico e psicologico, appassionante, intelligente e molto stimolante sul piano culturale, che contempla, non da ultime, anche interessantissime considerazioni sulla funzione e sul senso del linguaggio, nell'ambito di questa affascinante avventura di conquista della coscienza.

giovedì 16 maggio 2019

Trasecolar, ascoltando in loop CANZONE D’AMORE delle ORME, ottantasette volte di fila


Sciabolate a scarica, a infrangere a raffica, il gran collo di bottiglia dello champagne spaziotemporale, mentre l'immensità degli altri è solo uno scherzo da carezzare in superficie, che se ti sorprendi in ammirata contemplazione, ti risucchiano all’interno infiniti abissi d’irraggiungibili bellezze interiori altrui, e la vita è la più potente delle droghe, dà terribili assuefazioni, astinenze da crisi, smarrimenti ansiogeni sulla piazza dello spaccio emotivo, sino a non voler altro più che abitare in una canzone sola, soltanto in quella, intanto che una rullata di Michi Dei Rossi vale almeno tre secoli di letteratura, di sicuro il tre, quattro e cinquecento, e aver capito già tutto a nove anni, che esistere è troppo sconvolgente per essere vero, e solo in una canzone, certe volte, diventa sopportabile, perché gli anni 70 sono una malattia radiosa da cui è impossibile guarire, una nostalgia di “mai stato”, incontenibile dall’universo stesso…

martedì 7 maggio 2019

Librarsi


Nel capolavoro di Wim Wenders “Il cielo sopra Berlino”, per certi tratti del film si sentono i pensieri delle persone, invece delle parole dette a voce alta.

Succede per la presenza di due angeli, Damiel e Cassiel, capaci di ascoltare ciò che scorre nelle menti degli altri personaggi umani ordinari.

Questa scelta narrativa lascia un po' spiazzati, ma se ci si pensa è molto più “naturale” dei normali dialoghi.

Perché anche nella realtà in effetti (eccettuata la presenza degli angeli, sulla quale non ci si può pronunciare), quando siamo in presenza di altri, la parte di cose pensate da ciascuno rimane sempre molto più grande rispetto ai pensieri che emergono in superficie cavalcando le parole.

Questa cosa mi viene spesso in mente quando entro in una libreria. È un luogo in cui i pensieri della gente mulinano nell’aria in fretta e gioiosi.

I libri sono generatori di pensieri, estrattori di riflessioni, casse di risonanza di impressioni interiori.

Lo fanno in due modi (forse tre).

Quando leggiamo, ripetiamo in pratica le parole scritte con la voce silenziosa della mente. Non si tratta però di una pedissequa ripetizione “a pappagallo” del pensiero dello scrittore o delle immagini da lui proposte.

Leggendo rielaboriamo già, interpretiamo, amalgamiamo in un nuovo impasto quelle lettere e sillabe che sembrano risalire dalle pagine come suffumigi mentali, molto efficaci nel liberare le vie respiratorie di un senso dell’altrove immaginato.

Il secondo modo in cui i libri creano pensiero, è quando solleviamo un attimo lo sguardo dalle righe appena lette, e tutta quella ventata meditativa ed emotiva ricevuta, continua a scompigliarci il ciuffo delle idee e delle rielaborazioni personali.

I libri sanno poi suscitare una terza via “all'insinuazione mentale”.

Semplicemente rimanendo chiusi e in bella mostra davanti a noi, magari con la possibilità di poterli soppesare, toccarne le copertine, sbirciare al volo qualche frase.

Già solamente facendo questo, stando lì in bella mostra, producono tantissime aspettative (soprattutto se a ronzarci attorno sono degli appassionati lettori-ape, golosi di pagine come i gialloneri insetti a pungiglione di fronte a un vasto campo fiorito).

Tutte queste belle sensazioni in libreria si amplificano rispecchiandosi all’infinito fra uno scaffale e l’altro.

Dalle scansie, sale caldo un vapore buono di pensiero, un profumo di bellezza invisibile, che finisce per confondersi con quello della carta.

Ed è bello stare lì, immergersi in tutto quel lavorio mentale potenzialmente nascosto nelle migliaia di pagine chiuse, e anche in quello prodotto da tutti gli altri avventori presenti, nel loro desiderio di lanciare un sentiero nuovo fra voglia di sapere e future letture.

E quando vai alla cassa col libro alla fine scelto, e il commesso chiede: “…Vuole un sacchetto?...”, a me viene sempre quasi naturale rispondere di no.

Non tanto per quei pochi centesimi risparmiati (anche).

Ma per poter gustare il piacere, una volta uscito, di spargere tutta quella messe di infinito pensiero possibile, custodito fra le pagine, anche per le strade e in ogni angolo della città.