venerdì 29 marzo 2019

Il gusto nella macchina


Nella vasta radura riarsa dal sole, giaceva la mastodontica ferraglia, inoperosa ormai da anni.

Un tempo la macchina aveva lavorato a pieno regime, garantendo un “esser bene”, distribuito in gran copia agli uomini e alla realtà.

Le generazioni si erano avvicendate molteplici, nella preoccupazione affettuosa di portare sempre più raffinate migliorie alla macchina.

Chi aveva arricchito le rotazioni interne di ingranaggi vellutati.

Chi si era occupato di dotare il marchingegno di un servofreno “autaltico diploviale”, per rendere più fluido lo scorrimento.

Chi manteneva un disegno sempre aggiornato e puntuale di come la macchina si era fatta via via più complicata, articolata, composta di una miriade di pezzi fondamentali per il funzionamento generale.

E dire che la macchina non era nata con uno scopo preciso. Almeno all’inizio.

Col succedersi collettivo del nascere e del morire, ci si era però resi conto che la macchina aiutava in modo prezioso il vivere.

La macchina emetteva “gudfriame”, una sostanza immateriale, impalpabile eppur sognabile, in grado di rendere migliore lo stare al mondo degli uomini.

Per fare il “gudfriame”, la macchina assorbiva aria da tutti gli alberi intorno. Questo spingeva gli uomini a piantare più alberi e a curarli con mille accorgimenti gentili.

Nell’accumularsi di troppe generazioni, l'attenzione degli uomini tuttavia si allentò, e con la subdola vischiosità di un olio esausto incapace di affondare sotto la superficie, gli uomini erano ormai presi a osservare soltanto la scocca esterna della macchina.

La macchina, invece di “gudfriame”, prese a sputare una malsana bruma “sfacchiosa” dai suoi tubi di strombazzamento.

Le giunture nei pannelli della carrozzeria traspiravano ormai cispa “emolica” sub-slavata, mentre da altri vitali pertugi percolavano minacciosi fiotti di “busgnovata” morchia “fudibonda”.

Nessuno, da anni, aveva più tenuto aggiornate le carte della fisionomia sotterranea della macchina.
Prese dal panico, le nuove sprovvedute ondate di nati-uomini, si erano allora affannate ad appiccicare improbabili cerotti “malcollosi” qua e là, nei vari punti epidermici “magagnati” della macchina.

Con qualche collant sbrindellato e strappato durante ubriacature moleste rimediate in recenti gozzoviglie mentali, si pretendeva di porre comici filtri ai bocchettoni di sfiato, nella malriposta speranza di farli ritornare a soffiare il benefico “gudfriame”.

Tutto invano.

Nessuno sapeva più nulla del disegno interno della macchina, di come il suo cuore pulsava e la sua anima scorreva.

La medesima macchina lo proclamò con evidenza massima quel bel giorno definitivo in cui, con un mastodontico e roboante “spetonzaggio istibustionale” esalò la sua estrema fiatata di resa.

Da quel giorno non si rimise più in moto. Tra le fessure della carrozzeria sbucavano ora solo ciuffi d’erba infestante cresciuti a casaccio qua e là.

Unica vegetazione ormai superstite nella radura rinsecchita, un tempo orgoglioso teatro di una rigogliosa foresta di sogni.



mercoledì 27 marzo 2019

Quel gran quasi mai non credere di esser stato parte d'essere


Ci son giorni furbi e agili con i piedi fatti a nuvole, che camminano irreali in un tuffo di oltre favola, cosa potevo saperne poi io del tuo tempo messo in musica? Quei rari attimi cristallizzati, proprio a mezzo d’un distratto muoverci, ormai dimentichi del loro mare, ci stupiscono un bel domani, come ninnoli gradevoli riscoperti in un cassetto, ci riscivolano fra le mani, sembran quasi mai stati nostri, eppure suggono intera e piena tutta la polpa del ricordo, solo in seguito completo, noi veggenti di noi stessi, bravi molto a prevedere quanto è stato, non invece il ciò banale pronto a venire senza fanale, ben persuasi ormai a sapere il passato uno strano futuro, senza frac né cilindro al muro, ma con indosso soltanto i panni d’un giorno qualunque senz’affanni, di quel bel ieri soltanto adesso fatto panorama e maturo…

martedì 26 marzo 2019

Coordinate esistenziali per non inciampare nel gatto e vivere meno infelici


La vita spesso ci presenta già di suo il conto salato di problematiche e periodiche durezze, difficili da affrontare.

Ma come se questo non bastasse, perché i gatti per soprammercato si ostinano a tagliarci sempre la strada?

Si obietterà che i due fenomeni non hanno nulla da spartire.

Tuttavia mi piacerebbe far notare una lieve, eppur non trascurabile affinità di significati che intercorre fra i travagli del vivere e le bizzarre traiettorie feline d’intralcio.

Per chi non è pratico di mici di casa, bisogna sapere che in virtù di una loro stravagante interpretazione del dimostrare affetto, tendono a infilarsi fra i piedi del padrone a ogni suo passo utile, assicurandogli sempre con solerzia la faceta eventualità di sfracellarsi a terra.

Ma perché i gatti fanno così?!

Dopo anni di frequentazione dell’amletico interrogativo, e dell’aristotelico pericolo gattesco semovente, mi sono dato una specie di risposta.
I gatti sono stati “inviati” a infestare il cammino dell’uomo per ricordargli che la vita stessa si comporta con noi medesimi nello stesso preciso modo.

Non solo.

Quello dei mici non si limita ad essere un promemoria “passivo”, di semplice avvertimento.
Quelle care saette in pelliccia che ci cascano regolari fra malleolo destro e caviglia sinistra, ci illustrano in questo modo anche la via per destreggiarci fra le insidie “sgarbussatorie” (“inciampevoli”) della vita.

Affrontando gli eventi che ci succedono, con passo lineare, preordinato, calcolato nella precisione delle misure previste da una giusta coordinazione, rischiamo sovente di andarci a ritrovare con la falcata incastrata in un ostacolo comparso all’improvviso nel più inopinato dei modi.

La vita bisogna invece “camminarla” come con un gatto perenne fra i piedi.

Il passo dev'essere molle, quasi come “di danza”, sempre pronto a schivare un guizzo concreto di ostacolante pelo inatteso sulla via.

A volte, quando gli eventi precipitano a velocità che vanno oltre la nostra capacità di controllo, è utile traccheggiare un po', procedere in leggera “surplace”, restare un attimo più lungo in sospensione su un piede.

Mentre il micio dell’imprevedibilità dei guai ci sgattaiola sotto, liberando così una nuova eventualità di cammino sgombro, che solo a quel punto potremo sfruttare, praticandolo con nuovo passo affrancato.

Sempre consapevoli che non sarà mai finita lì, perché a una schivata felina, corrisponde sempre, uguale e contraria, un’ulteriore nuova virata micesca.

Ed ecco che saremo ancora da capo, a dover dribblare la rinnovata insidia, scansata poco fa a dritta, ma rinfacciatasi puntuale a mancina.

In ogni caso, di tutto ciò, al gatto, non date la colpa.
Anzi, lui sta lì giusto ad avvertirci come sia la realtà stessa a indossare di buon grado uno stravagante costume corredato di baffetti e pelliccia.

giovedì 21 marzo 2019

Lo sgusciar dell'inapparente


Sotto il velo del presente sta nascosto il non-assente
In superficie d’ogni cosa
Affiora patina luminosa
Dentro alberga il gran mistero
Tre grammi sempre lontani dal vero
Sfugge il senso più profondo
Nell’insaputo errabondo
Più riluce meno si arguisce
È profumo da ascoltare
Un bel suono da leccare
Che risponde con un bacio
Lieve tocco d’aereo micio
Abbacinante sole del meriggio
Reca enigmi a vasto raggio
Il non osare si fa legge
In evidenza candida da gregge
Viene meno così il coraggio
Della rinuncia al gran miraggio
Eppur è proprio il non sapere
A risonar in rima con sperare



mercoledì 20 marzo 2019

Di cosa parliamo quando chiediamo le ore


Lungo l’avvicendarsi degli istanti della giornata, ci frulla per la testa e per l’animo uno sfarfallio alternato di mille importanti pensieri, sensazioni, considerazioni magari anche profonde, complicate, contorte, molte volte irrisolvibili.

Nel frattempo però, ci si occupa anche di un sacco di azioni spicciole, inezie che si sbrigano soprappensiero, piccole stupidate attivate quasi in automatico, perché indispensabili allo scorrimento della porzione pratica e concreta di realtà che ci riguarda.

Ci sono poi dei gesti che, pur essendo di per sé banali e ripetitivi (anzi, forse proprio per questo), sembrano mettere in contatto la dimensione dei pensieri elevati con quella del vivere ordinario.

Gesti che squarciano un velo sottile.

Come ad esempio guardare che ore sono.

Mi sono accorto da tempo di un fatto, riguardante questa semplice azione.

Quando sto aspettando che venga il momento di un appuntamento, di un incontro a cui mi devo recare, di una certa scadenza da rispettare a breve, e così via, se consulto appena prima l’orologio tradizionale con le lancette, mi sembra sempre di avere ancora un margine di tempo più abbondante che non a guardare un display su cui l’ora è riportata in cifre.

Questo succede anche se guardo a distanza di pochissimi secondi l'orario “lancettato” e quello “cifrato”: il primo sembra sempre più accondiscendente, caldo, comprensivo, il secondo più inesorabile, intransigente, severo.

Credo che succeda perché evocano due sensazioni di tempo differenti.

Il tondo di un orologio su cui le lancette ruotano ben fissate al loro perno centrale, ci parla di un tempo circolare.

È un tempo che “ritorna” su se stesso e dunque non legato spasmodicamente alla costrizione dell'unicità dell’istante.

Il tempo delle lancette poi, coi numeri schierati a girotondo e presenti in simultanea, è già tutto disteso e valutabile, contiene il prima, il dopo e l’adesso insieme, per cui si mostra più sincero e rassicurante: mette in gioco tutta la giornata, ma suggerisce anche quella di domani o di ieri, prospettando una continuità nella ripetizione.

Il display dell’ora a numeretti è al contrario più ansiogeno, perché i momenti segnalati passano implacabili comunicando una continua impressione di occasione perduta e mai più recuperabile.

Con uno scarto di fantasia metaforica notevole, queste considerazioni sono trasferibili sulle persone.

Ci sono tipi di persona a lancette, e tipi di persona a display numerato.

Con tutto il rispetto e la considerazione dell'importanza di avere nella vita entrambi i tipi umani, ho sempre preferito incontrare persone con un sorriso sulle labbra a suggerire la rasserenante passeggiata in tondo delle lancette.

lunedì 18 marzo 2019

Colto a mezzo di un nonnulla, fra una mattina e nubi a farfalla


L’una e venti del pomeriggio è un'impressione primitiva.
Giusto perché m'hanno garantito ch'è vera, ma fosse per me, giurerei che l’una e venti del pomeriggio è un istante mai esistito.
L’una e venti del pomeriggio è l'eccentrico frangente che sfila in bici da corsa a passo d'uomo scivolando su note fracassone.
Eppure sembra proprio impossibile di aver sentito qualcosa oltre lo strombettio a bassotuba dei piccioni.
All’una e venti del pomeriggio la realtà fa uno scarto lungo il tempo, si auto-nasconde sotto il tappeto, poi quando risbuca non pare nemmeno d’esser esistiti.
L’una e venti del pomeriggio è una vecchia ora pensionata che ti guarda come avessi nell’anima un cantiere edile.
L’una e venti di pomeriggio è un complotto inventato dalla lobby degli orologiai per giustificare il prezzo di vita speso per un paio di numeri sul quadrante altrimenti inspiegati.
L'una e venti del pomeriggio sono pensieri in ammollo come cipolline in agrodolce, quando nel piatto sta già passando la torta.
All’una e venti del pomeriggio, qualsiasi idea ti venga in mente, sembra sempre destinata a non sopravvivere per un minuto ancora.
Ma poi con somma sorpresa, te le ritrovi tutte imbottigliate dentro a un sogno.
L’una e venti del pomeriggio è un sogno tirato su dalla pentola ancora ben al dente.
L’una e venti del pomeriggio odora di chiacchiere indolenti scivolate via sull’odore di una manciata di secondi fritti.
All’una e venti del pomeriggio se ti nascondi dietro a un dito stai sicuro che nessuno ti vede.
L’una e venti del pomeriggio è tempo anziano e scivolato lungo il filo dei ricordi.
Lo saluti, ti fa un cenno, ma in quell'attimo stesso poi ricade nel largo abbraccio di dubbi sordi.

domenica 17 marzo 2019

Che cosa ho imparato cantando in un coro


Cantando in un coro ho imparato che cantare è uno dei modi più belli di stare insieme agli altri.

Cantando in un coro ho imparato che non conta tanto l'importanza del coro: conta quanto senso di bellezza ci si riesce a trasmettere a vicenda.

Cantando in un coro ho imparato che anche se a volte stono un po', o non tengo il tempo, o non ho la voce abbastanza forte, ci sono gli altri a sostenerti, a metterci una pezza, a riempire le mancanze.

E se la difficoltà viene da parte di altri, ho imparato la soddisfazione di poter essere io di aiuto.

Cantando in un coro ho imparato la meraviglia di sentire la mia voce diventare una sola impalpabile nuvola, con altre dieci voci o più.

E vedere quasi la massa del suono che si alza nell’aria, e disegna uno sbuffo di gioia generale, andandosi a spalmare contro il soffitto e le pareti, come un affresco dipinto di calore umano e fiato.

Cantando in un coro ho imparato quella incredibile sensazione dell’imparare da zero una canzone tutti insieme.

E più ci si addentra nel mistero della melodia, più ci si sente uniti e si ha la gradevole e inspiegabile impressione, di conoscere un po' meglio se stessi e chi canta con te.

Cantando in un coro ho imparato che saper ridere in compagnia è una cosa molto seria, e la si raggiunge con l'esperienza e un po' di prove.

Cantando in un coro ho imparato che anche le voci che si sentono meno sono fondamentali come quelle più squillanti e voluminose.

Perché spesso le voci che si sentono meno introducono una sensibilità di sottofondo capace di guidare l’insieme delle voci.

Cantando in un coro ho imparato che il cammino da percorrere insieme è spesso molto più bello della meta da raggiungere.

Cantando in un coro ho avuto la conferma dell’importanza decisiva di ascoltare la voce degli altri.

E, stupore degli stupori, mi sono reso conto che tante volte, più la voce ascoltata è diversa dalla propria, più il risultato della loro fusione e sorprendente e ricco.

Cantando in un coro ho imparato che, va beh, è una gran soddisfazione riuscire a dire “io”, ma è assolutamente fantastico poter cantare “noi!”.

giovedì 14 marzo 2019

Bella storia


Il bello dei libri è che insegnano cose.

Ma ancor più bello è che spesso dai libri si possono imparare cose che vanno oltre l'argomento diretto in essi contenuto e trattato.

Sto leggendo un bellissimo saggio che in teoria sarebbe destinato agli studiosi di Storia. Si intitola “Sei lezioni sulla storia”, è stato scritto nel 1961 da Edward H. Carr (1892-1982).

In pochissimi nella vita faranno gli storici di professione, ma il libro di Carr è illuminante riguardo a un tema che interessa a tutti: osservare la realtà con occhio il più possibile onesto.

Lo storico è in pratica uno studioso di fatti accaduti. Anche vivere, in un certo senso, significa confrontarsi continuamente con dei fatti.

La correttezza con cui i fatti vengono “trattati”, è fondamentale sia per lo studioso, sia per il “normale vivente”.

Afferma Carr: “…I fatti storici non ci giungono mai in forma <<pura>> […] ma riflessi nella mente di chi li ha registrati…”.

Una meccanismo del genere interessa anche i fatti del vissuto di ciascuno.

Innanzitutto, le vicende raccontate da altri (anche in perfetta buona fede) che arrivano a interessare la nostra vita, sono sempre in qualche modo già filtrate dall’interpretazione di una certa sensibilità particolare.

Lo stesso succede con i fatti che ci succedono in prima persona: noi stessi li filtriamo sulla base della nostra sensibilità.

Con questo non si vuol dire che sia impossibile guardare alla realtà in modo oggettivo. Però si introduce un importante criterio di cautela. L'oggettività non è mai assoluta, ma sempre parziale e da costruire e verificare in continuazione.

Con un gioco di parole allora, anziché di modo “oggettivo” di guardare alle cose, è preferibile parlare di modo “obiettivo”, nel senso che la realtà non riusciamo mai a coglierla nella sua pienezza definitiva, bensì soltanto come continuo “obiettivo” di ricerca.

Carr stesso, d’altra parte, invita contemporaneamente a porre estrema attenzione al rischio di cadere in un relativismo che tutto appiattisce: “…Il fatto che una montagna assuma forme diverse a seconda dei punti di vista dell'osservatore non implica che essa non abbia alcuna forma oggettiva, oppure un'infinità di forme…”.

Si legge ancora nel testo di Carr: “…lo storico deve possedere la [capacità] di rappresentarsi e comprendere la mentalità degli uomini che studia…”.

Calarsi nei panni degli altri: questo è fondamentale in ogni frangente del vivere, per sforzarsi di capire tutto ciò che è “altro” da noi.

Ultima citazione dal saggio di Carr che mi piace riportare (ma questo libro è una fonte grande di intuizioni riguardanti di riflesso una certa idea di “democrazia del vivere”): “…noi possiamo guardare al passato e comprenderlo soltanto con gli occhi del presente: lo storico vive nel suo tempo…”.

Trasportata sul piano del confronto personale con la realtà, questa considerazione ci mette in guardia sul fatto che la nostra visione del mondo si evolve sempre.

Noi non siamo dei meccanismi di “registrazione fissa”, ma osservatori “innestati” in una propria vicenda biografica e umana personale, e a seconda della posizione in cui ci siamo trovati o ci troviamo, lungo la linea di questa vicenda, il nostro punto di vista si modifica.

Il confronto con la realtà si basa dunque su un dialogo incessante con essa: non ci si deve mai stancare di interrogarla, e di rimanere in ascolto delle sue risposte col massimo della disponibilità a capire ed entrare in sintonia col loro senso più complesso.

Questi erano solo alcuni spunti, parziali, di riflessione tratti da un libro di grande interesse, anche al di là del tema specifico affrontato.

Giusto per dire che un buon libro riesce sempre a raccontare molto di più di quanto non sembri a una lettura “stretta” del suo testo.



martedì 12 marzo 2019

Pio Po


L'uomo, di man in mano che diventava “moderno”, si è andato sempre più convincendo di essere, lui stesso, il centro della realtà.

Gli antichi invece sapevano che l’uomo, rispetto al resto del mondo, non è altro che un fesso qualunque.

Per i romani, come per altri popoli dell'antichità, ogni cosa reale, animata o inanimata, possedeva un suo spirito, o “genio”.

L’uomo si sentiva dunque immerso in una miriade di altre entità degne di rispetto.
Non sempre capiva il senso profondo di queste altre “porzioni di essere”, e allora, per cercare di farsene in qualche modo una ragione, cercava una spiegazione nei miti.

Una bellissimo leggenda riguarda proprio il Po, e in qualche modo quindi anche la Bassa.

La riporta, nella sua meravigliosa opera “Metamorfosi”, Ovidio (43 a.C. – 17 d.C.), uno dei più grandi scrittori latini, e di tutti i tempi.

Fetonte era figlio del Sole (Helios) e della mortale Clímene.

Un giorno, giocando con un amico che si vantava di aver un grande papà, Fetonte sopportò fino al limite della pazienza la boria di quel piccolo strafottente, ma quando non ce la fece più, gli sbottò nei denti: “…Ah sì? E allora sappi che mio papà è il Sole…”.

Subito l'altro gli scoppia a ridere nei denti e gli fa: “…Ma vai per nespole, pajàs (pagliaccio)…stai a sentire tutte le frottole che ti racconta quella sciroccata di tua mamma Clímene?…”.

Fetonte se ne torna a casa tutto adombrato (il massimo dello scorno, per un figlio del dio della luce), e rivolto alla dubbia genitrice, le fa: “…Mamma, ma com'è questa storia? Mi prendono in giro, mi dicono che il mio babbo non è il Sole…”.
Clímene giura e spergiura che si tratta della verità, lui è figlio proprio del Sole, e per averne certezza, non deve far altro che andarlo a trovare nella sua reggia.

Fetonte si incammina e seguendo le indicazioni di mammà, arriva proprio nell’immensa dimora di suo babbo, il Sole, che si era sistemato non male in un gran villone dalle parti dell'Etiopia, o dell'India, o giù di lì.

Helios, il Sole, accoglie il figliolo con grandi feste e saputo il motivo di quel viaggetto a casa sua, lo rassicura e aggiunge: “…Certo che sono tuo papà…per dimostrartelo, ecco, chiedimi ciò che vuoi, e lo avrai…”.

Fetonte gli chiede di poter condurre, da solo, per una giornata, il carro del sole.

Al papà, nonostante fosse un tipo focoso, vengono i sudori freddi: “…Azz…ma no…ma sei sicuro? È troppo pericoloso, sono capace solo io, nemmeno Zeus in persona si azzarderebbe…”.

Ma non c'è niente da fare, il ragazzino testardo come un mulo non cede, e il papà non può rimangiarsi la parola.

Alla fine, fra mille raccomandazioni, Fetonte prende le briglie e parte per la salita azzurra del cielo, c'è da mettere in scena l'alba sopra al mondo.

Ma un po' che sentono alla guida uno senza patente, un po' che gli vogliono tirare un bello scherzetto, i cavalli subito si mettono a fare i matti, scompigliando la rotta e scorrazzando a casaccio nell’aria col carro solare.

Cominciano dei disastri che non vi dico, città ustionate, fiumi in secca, un caldo boia dappertutto…tanto che alla fine, la Terra stessa, temendo per la sua sopravvivenza, implora Giove di porre fine a quello strazio scottante.

Giove, seppur a malincuore, piglia in mano uno dei suoi fulmini più potenti, e con la sua infallibile mira, sbatte una saettata precisa addosso al povero, scriteriato cocchiere, e lo incenerisce con gran sollievo del mondo.

I resti di Fetonte precipitano in un punto non meglio precisato, lungo le rive del fiume Eridano, nome usato dai latini per indicare quello che per noi sarebbe stato il Po.

La mamma Clímene, saputo della disgrazia, girovaga dappertutto, per avere anche una minima notizia sulla fine del suo sfortunato virgulto.

Arriva infine a una tomba, sopra la quale le Nàiadi d’Occidente, ninfe fluviali che vegliano sulle acque del Po (con l'aiuto del soprintendente alla fauna ittica, Nàśalaria), avevano pietosamente riportato questa epigrafe:

“Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre; Non seppe guidarlo e cadde, ma fu impresa grandiosa”

(In latino: “Hic situs est Phaëthon, currus auriga paterni, quem si non tenuit, magnis tamen excidit ausis”).

Clímene si mette a piangere con somma disperazione, inondando di lacrime la tomba dello sfortunato ragazzo.

La raggiungono nel frattempo le Elíadi, altre sue figlie, nate anch’esse dalla sua unione col Sole (Helios).

Anche loro si mettono a disperarsi e a versare maree di lacrime per il dolore di aver perso così tragicamente il fratello.

Faetusa, Lampezie (questi i loro nomi), e una terza Elíade non nominata da Ovidio, si struggono talmente tanto e a lungo per il dolore, che lentamente vedono i propri corpi tramutarsi in pioppi.

La mamma Clímene cerca disperatamente di estrarre i corpi dalle cortecce, mentre la trasformazione non è ancora completa, ma ottiene solo di spezzare fragili rametti, e “…da questi stillano gocce sanguigne, come da ferite…” (“…at inde sanguineae manant tamquam de vulnere guttae…).

L’ultima parte delle Elíadi a venir soffocata dalle cortecce fu la bocca, mentre le estreme invocazioni alla madre si spegnevano sotto lo spietato avanzare ligneo.

E quando la scorza severa si chiude definitivamente, le ultime parole delle povere giovani sfumano nel vento, mentre le loro lacrime si mutano in gocce d'ambra, che indurite dal sole si staccheranno da allora, cadendo nelle acque del Grande Fiume, dove verranno raccolte dalle donne latine, per adornarsene.

La prossima volta dunque che farete un giretto lungo il fiume, intravedendo un pioppeto e “intrasentendo” un sussurro ventilato fra le foglie, sappiate che quello non è un semplice rumore fra gli altri, starete invece ascoltando il secolare sospiro delle dolci Elíadi.

lunedì 4 marzo 2019

La miniera del desiderare


Riguardo a certi fatti, o realtà, oppure situazioni della vita, a volte un piccolo, ma netto cambiamento del punto di vista, può essere decisivo per ribaltare tutti i significati in gioco.

È sentimento comune, rimpiangere quello che nella vita non si è riuscito a realizzare, o addirittura, nei casi meno esaltanti, nemmeno si riuscirà a realizzare mai più.

Ma non c'è forse modo di capovolgere la prospettiva e guardare alle cose mancate, come a desideri rimasti “in boccio” e come tali ancora carichi di una loro forza vivifica?

L’uomo, per suo “destino esistenziale”, non può fare altro che vivere “nel tempo”, in un continuo confronto mentale ed emotivo con ciò che il suo mondo, e lui stesso, diventeranno.

La nostra “natura” non può essere basata altro che su un continuo proiettarci nel futuro. Siamo di conseguenza esseri desideranti.

Il desiderio tuttavia è un gioco dal meccanismo fragile.

In un certo senso, la parte più bella risiede nell’inseguire qualcosa, nel “tendere a”.

Quando la cosa si realizza, d'accordo, è tutto molto bello, ma venendo ormai a mancare l’obiettivo desiderato a lungo, si prova anche senso di vuoto.

Col desiderio insomma, funziona in questo modo strano: ci piace molto di più la corsa, del traguardo; ci appassiona più il percorso, della meta.

Ecco qui dunque il possibile cambio di prospettiva: i desideri che non abbiamo mai realizzato, rimangono in qualche modo vivi in noi nella loro forma più nobile.

Si possono paragonare a delle molle cariche, che conserviamo dentro l’animo ancora belle tese, non “sbalestrate” e “spompe” come quelle che invece sono scattate, perdendo però per sempre il proprio slancio potenziale.

Ora si potrà obiettare che in questa “teoria”, si nasconda un po' la stessa filosofia dei mal vestiti, tutta riposta nella speranza che faccia un buon inverno.

Ma forse non è fino in fondo così.
Intorno alla questione del desiderare, si gioca una parte fondamentale della vita.

Non realizzare nessun desiderio, sfocerebbe in una frustrazione devastante.

Realizzarne tanti, oppure (per assurdo) addirittura tutti, può essere altrettanto oneroso per l'equilibrio del vivere.

Con un’immagine alquanto pacchiana, possiamo allora chiudere paragonando il filo sottile che corre tra la realizzazione dei desideri, e il mantenimento dei medesimi come tali, alla cresta dell’onda, da cavalcare con estrema sapienza da parte del surfista.

Non conta il numero di evoluzioni realizzate, né la velocità raggiunta, e nemmeno la forza della prestazione atletica.

Conta sapere che da una parte e dall'altra dell’onda, ci sono due parti di mare altrettanto importanti e significative.

E che stando in sospeso sul crinale spumoso, si riescono a vedere e apprezzare meglio entrambe.


Fluttuando fra spazio e tempo


Accedere alla pagina scritta è come mettere piede in un tempio. Non a caso, tra scrittura e gioco esistono grandi somiglianze.

La parola “fissata in segno grafico” presuppone l’accettazione di un patto da parte di chi legge e da parte di chi scrive.

A chi legge è richiesta la disposizione a venir introdotto in un recinto di sospensione dall’ordinario. A chi scrive il compito-onere-piacere-onore di orchestrare questa sospensione.

Questa sospensione rappresenta il rito primario del tempio: spazio e tempo non funzionano come siamo normalmente abituati a vederli e sentirli funzionare “al di fuori di lì”.

Sono invece deformati, annullati o dilatati, plasmati a piacere.

Chi scrive è il cerimoniere principale, detta i confini del rito, fissa le regole, ma non per questo gode di una indipendenza totale rispetto a chi leggerà.

È vero infatti che lo scrivente può stabilire le regole a sua completa discrezione, ma se si allontana troppo da qualcosa di atteso, se forza il linguaggio fino al limite dell’incomunicabile, o addirittura del caos, spezza il possibile senso del rito e vanifica tutto.

Nel rito della scrittura, è necessaria dunque la realizzazione di una possibilità effettiva, che da qualche parte esisteva, e lo scrittore ha saputo andare a mettere in luce.

Quando la cosiddetta “civiltà dell'immagine” sembrava imporsi come una specie di “dittatura della comunicazione”, molti avevano previsto la fine della scrittura.

Invece, non c'è mai stata forse come ora un'epoca in cui si è scritto tanto.

Anche chi un tempo, finita la scuola, non avrebbe più messo in fila un soggetto e un verbo, oggi lo fa. Magari solo due brevi frasi da qualche parte su internet, ma lo fa.

Al di là degli aspetti pratici della cosa, c’entra senz'altro la questione del rito.

C’entra il fatto che scrivere e leggere ci portano in una dimensione diversa, simile a quella del gioco e del sogno.

È una dimensione di distacco dai limiti del mondo, uno spazio di “libertà sperimentale”, difficilmente ritrovabile da altre parti.

E a quella dimensione, tutti desideriamo accedere. Perché alla fine dei conti, ci rendiamo conto che “lì dentro”, si sta bene.