venerdì 31 agosto 2012

Squarci d’indicibile



Cari amici viandanti per pensieri, oggi rivolterò un po’ la frittata di certe idee già rimestate in altre occasioni. Questo blog sta diventando vecchio, io sto diventando vecchio, quindi spero vorrete perdonare alcuni lievi segnali di rintronamento senile.

Cercherò di spiegare (o capire con voi…) come la “sindrome del rockettaro” possa influire sulla tendenza ad osservare il mondo artisticamente. «…Strataboing e’mmminchia’hai’dett…!?!?!?...» mi pare quasi di sentire risuonare nell’aria l’onomatopeico moto di stupore del povero lettore molestato.

Chi è “rockettaro” nell’intimo, almeno nel senso che voglio mettere in rilievo qui, potrà forse capire meglio. Il “rockettaro” è un tipo dallo stupore e dagli entusiasmi facili, fugaci, lampanti. Con questo non voglio dire che il “rockettaro” sia un sempliciotto dalla bocca buona, capace di accontentarsi di emozioni spicciole a buon mercato. No, è invece a partire dalla stessa essenza del rock che si manifesta il fenomeno, da questa musica in grado di dare adito a fiammate emotive tanto intense quanto rapide, subitanee. Il rock trasmette confidenza col meccanismo dell’eruzione di sensazioni, fuoriuscite di lava emotiva affioranti dall’indifferenziato di tutto ciò che è “il resto” (“…the west is the best…get here, and we’ll do the rest…”). Può trattarsi di un riff di chitarra, di un frammento particolarmente significativo racchiuso in una frase melodica, di un incontro-scontro nei suoni delle parole cantate: non importa la causa, di fatto la canzone rock possiede questa proprietà di saper dare l’innesco a queste illuminazioni emotive brucianti, che si elevano come un picco energetico fortissimo, e con la stessa fulmineità con cui sono giunte, tornano a nascondersi nel magma dell’indeterminato.

C’è una frase fra le tante memorabili contenute nei dialoghi di «Apocalypse now» che mi è sempre rimasta particolarmente impressa. La trama è arcinota: l’ufficiale interpretato da Martin Sheen viene incaricato di risalire il fiume con una piccola pattuglia di soldati, per andare a stanare e disinnescare la follia del colonnello Kurz-Marlon Brando. Ad un certo punto, per descrivere il tipo di soldati che gli erano stati messi a disposizione per la spedizione, riguardo ad alcuni, l’ufficiale-Martin Sheen parla di “ragazzini fanatici del rock’n’roll”. Più che un giudizio sprezzante (come magari potrebbe suonare in apparenza), io ho sempre letto in questa frase la sintesi del carattere di quei giovani soldati: dei tipi “dallo stupore e dagli entusiasmi facili”, come ho appunto scritto sopra, dunque particolarmente esposti al pericolo in una missione terribile come quella da affrontare lungo quel fiume intriso di crudeltà e di insania mentale.

Essere “ragazzini fanatici del rock’n’roll” nell’animo, non comporta però nessun pericolo se si mette in relazione questo atteggiamento con la propensione a vedere artisticamente il mondo. La realtà ci si presenta incessantemente come un flusso ininterrotto, pluridimensionale  ed onnipresente di impulsi, emozioni, sensazioni, impressioni. Attraverso tutti i canali sensoriali e sensibili di cui possiamo disporre, una marea di dati fluisce verso di noi in ogni istante. Questa mole di dati la sappiamo interpretare, sulla base dell’esperienza, però essa ci si pone dinnanzi come il sipario di una superficie illusoria (il “velo di Maya”, lo chiama Schopenhauer, rielaborando il suo pensiero alla luce della tradizione indiana), che ammanta la nostra percezione del mondo delle apparenti forme assunte dalle cose. Questo velo è oltremodo ingannevole, facendo leva sulla forza dell’ovvietà e dell’immediatezza.

L’animo da ragazzini fanatici del rock consente, in qualche epifanica circostanza introdotta da un particolare stato di “grazia sensitiva”, di squarciare per brevissimi tratti questo velo, cogliendo le subitanee disposizioni che talvolta tendono ad assumere le tessere stesse con le quali il “mosaico del velo” è composto. Può trattarsi di una scena vista migliaia di volte, ma che per quell’attimo e poi più ci si mostra sotto una luce particolare. Gli oggetti quotidiani, arci-noti, si dispongono per pochissimi istanti secondo un disegno compositivo che sa sintonizzarsi con misteriosi significati nascosti nel nostro inconscio. Oppure, è l’espressione di una persona cara, un sorriso familiare di fronte al quale siamo stati già infinite altre volte, un gesto, un atteggiamento, che ci si profilano innanzi con espressività del tutto nuova, trasmettendoci una vibrazione empatica particolarmente intensa ed ineffabile con l’individuo in questione.

In quelle occasioni una verità ci si rivela, anche se non sapremmo definirla, imbrigliarla, circoscriverla. In quelle occasioni, abbiamo visto il mondo artisticamente. E la cosa più affascinante sta nel fatto che a tutti è concesso questo privilegio. Non bisogna per forza essere artisti, per riuscire a cogliere il mondo artisticamente. Anche se poi, solo gli artisti hanno l’ulteriore dote di saper convogliare quei bagliori di verità intraviste, nei mezzi e nelle forme capaci di rispecchiarli e ritrasmetterli in qualche modo: in un dipinto, in una scultura, una canzone, un film e così via.

lunedì 27 agosto 2012

Battista la raspa, che la piuma non basta…



Il pessimismo diffuso di questi tempi grigi sembra aver permeato ormai anche ogni minimo aspetto del vivere comune. E’ rimasto poco entusiasmo residuo per le attività normali che, a corollario della quotidianità di ciascuno, hanno sempre aiutato lo scorrere di un’esistenza serena ed appagante, o quasi. Innamorarsi, chiacchierare del più e del meno, persino ridere: sembrano divenuti dei lussi, adesso che il ferale ritornello ossessivamente rimbomba ad ogni piè sospinto nella mente e sulle labbra di ciascuno: «…C’è la crisi!!!...».

Inevitabilmente, il bigio stato attuale delle cose non poteva fare a meno di abbattersi anche sulla dimensione umoristica. C’è la crisi anche delle barzellette. Non se ne sente più raccontare tante, e quando succede le migliori sono solitamente dei revival di storielle buffe d’archivio, oppure vengono raccontate in malo modo.

Ho dunque pensato che, se non vogliamo veder morire definitivamente la barzelletta come forma della genuina espressione popolare, aspettando che passi la nottata, dobbiamo momentaneamente dotarci di barzellette adatte alla presente atmosfera, tutta presa dall’anelito tecnicista e burocraticamente assai poco “burocritica”.

Quel che serve attualmente è la “barzelletta che non fa ridere”: finalmente è giunto il suo momento.

Per decenni spauracchio dei barzelletterie di mezza tacca, la “barzelletta che non fa ridere” ora può vivere una sua rinnovata primavera, del tutto legittimata dal clima in corso. Tutti ne potranno inventare di nuove, tutti le potranno raccontare, anche chi è un vero cane nel farlo. Anzi, soprattutto chi è un vero cane barzellettiere. Questo rinascimento della barzelletta balorda potrà rappresentare un momento di riscatto proprio per i barzellettieri  scalcagnati. Finalmente, dando saggio del meglio della loro imperizia barzellettistica, magari scordando il finale, o anticipandolo maldestramente, sbagliando i tempi e l’intonazione delle frasi, potranno indirizzarsi in grande libertà vero l’unico rinnovato scopo da ottenere: non fare ridere. Anzi, se possibile, far venire proprio il latte ai gomiti, stupire per la stupidità, suscitare pena nell’uditorio, in sintonia con il sentire comune sparso un po’ per tutto l’italico stivalone.

Ecco alcuni luminosi esempi:

- Un contadino con l’allergia da fieno incontra un politico onesto.
Dice il contadino: «…Buongiorno, onorevole, posso offrirle un caffè corrotto?...».
Risponde il politico: «…No grazie, temo che facendo di tutte le erbe un fascio, poi lei mi starnutisca nella tazzina...».

- Qual è il colmo per il re del qualunquismo? Entrare in un bar e ordinare una pizza alle mezze stagioni

- Un ladro viene processato per direttissima. Lo hanno colto in flagrante mentre tentava di svaligiare un appartamento. Durante l’udienza si scopre che mentre era nel bel mezzo del colpo, a causa delle batterie scadenti caricate sulla torcia elettrica usata per muoversi nel buio, questa si è scaricata e poi spenta all’improvviso, facendo maldestramente inciampare il lestofante, con un fracasso da mettere in allarme tutto lo stabile. I vicini hanno avvisato la polizia ed il ladro è stato acciuffato. Il giudice, dopo aver emesso il verdetto - un anno, senza il beneficio della condizionale - in conclusione di sentenza, commenta: «…Duracell, sed cell…».

- Ci sono un tedesco, un francese e un italiano. Arriva un europeo e gli altri tre se ne vanno via sconsolati, per manifesta inferiorità umoristica. Fine barzelletta!!!

Cosa ne dite, cari amici viandanti per pensieri? Vi è venuta la cagliata sotto le ginocchia? Siete stati colti dai conati dell’antidivertimento puro? Perfetto…ora non vi resta altro che fabbricarvi in casa anche voi la vostra “barzelletta che non fa ridere” su misura, per vivere in sintonia coi nostri tempi all’acqua di mozzarella.

sabato 25 agosto 2012

Li mortacci digitali



Si fa un gran parlare dei “nativi digitali”, riferendosi con questa espressione a quei bimbetti novelli, sfornati fra le fila delle più recenti generazioni, capaci di passare senza soluzione di continuità dal seggiolone alle più complesse strumentazioni tecnologiche, con la stessa naturalezza con cui da sempre sono stati tradizionalmente in grado di passare dalla tetta al biberon.

Poco invece si sente dire de “li mortacci digitali”.

Si tratta di quella generazione, o “generazione e mezza”, di persone che, volendo paragonare la vita a una partita di baseball, per questioni di slittamento cronologico sono arrivate in scivolata disperata sul cuscino di “casa base” dell’era digitale, mancandola di un soffio o sfiorandola appena, mentre l’arbitro chiamava inesorabilmente l’«out».

Ciò nonostante, “li mortacci digitali” sono stati costretti in ogni caso a confrontarsi quotidianamente con il moloch telematico che ormai tutto pervade e a tutto soprassiede. Tra l’altro, la definizione di “li mortacci digitali” non si limita solamente a riflettere in negativo la ben più diffusa definizione di “nativi digitali”, ma contiene in sé anche un’assonanza con certe tonalità comportamentali tipiche dell’informatizzato tardivo. Non di rado infatti “li mortacci digitali” danno prova della propria assoluta impotenza di fronte al maleficio informatico, prorompendo in smadonnamenti sacrosanti, assunti come unico e disperato baluardo di difesa residuo.

Anche io mi sento e mi sono sentito spesso di far parte della folta schiera de “li mortacci digitali”, anche se alla fine sono riuscito a recuperare abbastanza bene ed ad aggrapparmi al tram della digitalizzazione con un minimo di dignità, guadagnandomi il mio modesto spazio sul predellino posteriore. Ad ogni modo, molte volte mi sono sentito in sintonia con le sfumature maledicenti del ruolo, per cui sarà forse per questo che credo di riuscire a capire un po’ anche lo spirito de “li mortacci digitali” puri.

Una delle specificazioni più perniciose de “li mortacci digitali” si ottiene quando questa caratteristica si abbina nella medesima persona con la qualifica di dirigente. In quel caso, per i poveri dipendenti, soggetti alle sferzate di nonsenso computeristico che ne derivano, sono guai grossi.

“Li mortacci digitali” e per giunta dirigenziali, non capendoci una mazza di computer, sono i classici fervidi credenti nell’onnipotenza digitale e sostenitori impavidi del motto “basta schiacciare un bottone e poi fa tutto da solo”. Spesso e volentieri, questo tipo di “mortacci digitali” para-manageriali procurano notevole intralcio all’ottimale svolgimento del lavoro, perché costringono il dipendente a svolgere compiti insensati, o ben che vada malamente mirati rispetto alle potenzialità che sarebbero invece offerte da un corretto uso degli strumenti vari, col dovuto rispetto della loro natura informatica.

Poi ci sono “li mortacci digitali” di pari grado, per così dire, o di livello medio. Questi sono più pittoreschi e simpatici. Tutt’al più ti vengono a fracassere gli zebedei a casa, con la richiesta di svolgere operazioni informatiche che ormai anche un bimbo dell’asilo sa fare con un dito solo e ad occhi bendati, mentre con le restanti nove dita gioca otto partite sulla playstation, controlla via internet il sincrotrone del CERN di Ginevra e scrive una mail alla fidanzatina di 6 anni.

“Li mortacci digitali” di pari grado hanno abbandonato la sfida molto tempo fa, praticamente sul nascere stesso della sfida. Puntano tutto su di un approdo pensionistico il più indenne possibile da inquinamento mentale per nozionismo informatico. Di man in mano che i computer invadevano gli uffici, hanno imparato il minino necessario per vivacchiare, mantenendosi arroccati al massimo al proprio sapere operativo tradizionale e demandando ai giovani la singolar tenzone con floppy disk e megabyte.

Siano di alto, di medio o di basso grado, “li mortacci digitali” hanno in comune l’atteggiamento magico - riverenziale nei confronti del mezzo digitale. Essi sono figli dell’era meccanica e per loro, cambiamento significa in ogni caso movimento, spostare un corpo dal punto A al punto B. “Li mortacci digitali” sono abituati a toccare con mano, san-tommaseggiano da sempre e mal concepiscano l’idea che il mondo possa essere smosso solamente facendo attraversare un flusso di corrente elettrica attraverso dei circuiti appositi. Per cui sono propensi ad attribuire proprietà esoteriche ad ogni tipo di apparato tecnologico, cosa che, a ben guardare, non è nemmeno del tutto infondata. Almeno se si osserva il fenomeno della digitalizzazione generalizzata dal punto di vista degli effetti imprevisti e preterintenzionali che essa causa sui comportamenti e sugli stili di vita.

Ma questo forse è un altro discorso.

Dove invece, sempre sul posto di lavoro, “li mortacci digitali” esprimono il meglio della propria classe, è in un effetto collaterale del loro status, denominato “sindrome da paraculismo informatico di ritorno”. Questa si manifesta quando “li mortacci digitali” sfruttano artatamente il proprio “zombismo telematico” e vellicando le sconsiderate brame di protagonismo dei giovani colleghi “semi-nativi digitali”, fanno leva sulla frase di rito: «…fallo tu, io non sono capace…», sino a sbolognare agli altri sedicenti esperti gran parte del lavoro. Il giovin aitante computerizzato si sente gratificato nel suo orgoglio, mentre “li mortacci digitali” se la ridono sotto i baffi, blandendolo ufficialmente, ma godendo nel loro intimo per aver rifilato le incombenze al vanaglorioso. Ma anche questa è un’arte sottile, perché solamente i migliori fra “li mortacci digitali” riescono in questo intento, dando la sensazione di essere stati anch’essi parte essenziale della fatica del gruppo di lavoro.

Ciò non toglie poi, che quando devono usare il computer per i fattacci loro, tipo scaricare film a casa o fare i farfalloni online con qualche ruspante donzella, “li mortacci digitali”si tramutino di botto in super esperti cibernetici.

“Li mortacci digitali”, insomma: un’opzione da non disdegnare del tutto. Dentro ciascuno di noi se ne cela uno: l’importante è concedergli sempre lo spazio giusto al momento giusto.


mercoledì 22 agosto 2012

Tre incipit e una rana bollita




Anche il più scarso degli scribacchini sa che senza un buon incipit si va poco lontano. Il problema, riguardo al mio odierno articoletto, è che mi sono venuti in mente due incipit diversi, ma secondo me ugualmente degni. Incerto su quale scegliere, ho deciso di lasciarli tutti e due, di modo che, uniti al presente mini-sproloquio in forma di prologo, essi diverranno addirittura tre.

Il primo incipit sarebbe stato il seguente.

Bollo ma non mi ribello, disse la rana, quasi grata al fornello. Con una simile facezia rimata si potrebbe riassumere il «principio della rana bollita». Si tratta di una curiosa e surreale similitudine resa in forma aneddotica ed atta ad evidenziare il non senso progressivo, di cui talune dinamiche sociali assai bizzarre lentamente sanno farsi carico.

Immaginiamo di prendere una rana ben pasciuta e di sbatterla d’un botto in una pentola d’acqua a 100° Celsius. Col cacchio che il simpatico zompatore verdognolo la scambierà per la sua vasca da bagno prediletta! Come minimo invece, dopo aver bofonchiato un paio di antropo-bestemmiali invettive a denti stretti («…’zzo sei semo?!?!...»), se ne balzerà fuori, e anche in gran fretta.

Rifacendo da capo il medesimo esperimento mentale, prendiamo ora sempre la stessa rana e la stessa pentola. L’acqua stavolta presenterà una temperatura gradevole, tale da invitare la cara ranetta ad un tuffo con conseguente bagnetto ristoratore. Surrettiziamente, procediamo poi ad alzare la manopola del gas, facendo salire i gradi dell’acqua lentamente, con incrementi di calore quasi impercettibili. La rana non se ne accorge, ma lentamente si avvia verso la bollitura. Quando si renderà conto di ritrovarsi già in un mezzo brodo di cottura, sarà troppo tardi, l’eccesso di calore avrà già infiacchito le sue capacità reattive, lasciandola così rassegnata al suo passivo destino.

L’altro incipit, si sarebbe invece presentato nella seguente forma alternativa.

Fino a che punto la violenza si può insinuare nascostamente fra le pieghe della quotidianità? Non parlo di violenza fisica, ma di un tipo di violenza molto più indefinita, sfuggente, quasi ammantata di bonarie vesti ingannatrici. Sono piccoli gesti insignificanti, all’apparenza, che si assommano lentamente. Piano piano si appallottolano insieme, sino a formare una valanga di non-rispetto e di prevaricazione, la cui gravità, quando ormai è troppo tardi, non viene nemmeno più percepita, tanta è la dimestichezza associata a quei fenomeni stessi, divenuti così pericolosamente scontati.

A questo punto, i due incipit si sarebbero dovuti riunire nell’argomentazione principale, che vado senza meno a sviscerare.

Ho visto nei giorni scorsi alla tele dei leggiadri quizzetti telefonici. Il meccanismo non è che sia una novità e forse si è visto e si vede di peggio, ma tutte queste riflessioni in merito mi sono sorte adesso e quindi ve le sciroppate fresche fresche. 

Il bravo presentatore-imbonitore di turno propone al pubblico una domanda, fornendo anche 2 risposte possibili. Si può partecipare alla vincita di ricchi premi, inviando un sms con la risposta giusta. Ora, dove si nasconde la violenza in una simile banalità? Si nasconde nel livello delle domande, che è un vero e proprio insulto alla dignità umana. Evidentemente il trucchetto, ossia scatenare un ben redditizio sciame di sms, è talmente palese da non meritare nemmeno la pretesa di venire celato dagli organizzatori stessi, sicuri della loro “impunità” proprio in virtù del teorema della rana bollita. 

Se tecnicamente o giuridicamente parlando non si tratta di una truffa, di vero e proprio raggiro si può tuttavia parlare quando si guarda la cosa dal punto di vista del rispetto reciproco e del senso della convivenza civile.

Le domande sono del tipo: «…Quanti erano i nani di Biancaneve?...», opzioni di risposta: A) 7 – B) 8 e ½. Oppure: «…Fa andare di corsa in bagno…», opzioni: A) Mal di pancia – B) Teorema di Pitagora. Ovviamente ho esasperato con facezia la cosa, ma lo spirito dell’operazione non si discosta di molto da simili toni.

Datemi pure dell’esagerato, ma io questa la chiamo violenza. Lo spettatore è ormai ridotto alla stregua di un ottuso bue con l’anello al naso, strattonato di qua e di là senza il benché minimo pudore, né alcuna considerazione per la sua dignità. Pensiamo un attimo se questo meschino giochetto fosse stato proposto, che so, una trentina di anni fa, o anche 35. Credo che la rana si sarebbe ben accorta dell’eccessiva temperatura dell’acqua, balzando fuori indignata dalla pretesa di un inabissamento inglorioso nel piccolo lago della meschinità, o perlomeno un qualche moto di sdegno lo avrebbe avuto, di fronte alla pacchiana presa per i fondelli.

Invece la rana di oggi, dopo decenni di bollitura pubblicitaria a fiamma gradualmente incrementata, non solo non emette più nemmeno un flebile “cra” di lamentela, ma immagino che si adagi pure ad accondiscendere supinamente al miserrimo rito, inviando fiduciosa la sua diligente risposta: «…Sì, io la so, la so!!! Le parole scritte su un libro sono la parte in nero, non la bianca…».

E pensare che, probabilmente, questo è il meno grave dei casi in cui il teorema della rana bollita viene messo in pratica ai giorni nostri...

martedì 14 agosto 2012

Ma vacca boa!


Cari amici viandanti per pensieri, anche la boa di metà annata di questo asfittico 2012 sta per essere doppiata. Ferragosto mi mette ogni volta una vaga mestizia in corpo, cosa ve lo ripeto a fare, ormai lo sapete benissimo. Però ci tengo a farvi gli auguri anche questa volta.

Avrete poi notato che le mie energie narrative si sono affievolite di molto, nell’ultimo periodo. Chissà se quattro anni suonati sono un traguardo di acquisita e conclamata vecchiaia, per un blog. Chissà se dopo questa scadenza, gli argomenti sono destinati inesorabilmente ad essiccarsi, lasciando solo una landa desolata di luoghi comuni e di frasi banali.

Non posso promettervi nulla di certo, ma cercherò di fare in modo che così non avvenga, tenendomi aggrappato il più possibile alla bellezza che ancora talvolta riesco a rinvenire nell’atto di scrivere. Nei giorni scorsi, quando non scrivevo nulla per assoluta mancanza di idee, mi commuoveva il fatto che un piccolo nucleo fedele di lettori continuava a farmi visita lo stesso. Questo mi conforta nel pensare che torneranno tempi migliori anche per la scrittura.

La terra nei campi è riarsa, ma sotto qualcosa lavora sempre, in vista del ciclico ritorno alla fertilità. Allo stesso modo vedo la mia intensa attività di lettore di questo periodo, contrapposta all’aridità del mio scrivere. Mi sto rimpinzando di Tolstoj. Archiviato ormai con somma soddisfazione «Guerra e pace», mi sono buttato ora su «Anna Karenina». Le atmosfere, le riflessioni, le emozioni di queste opere immortali mi si depositano nel profondo, come riserve di acque estive, solo per il momento inarrivabili e non attingibili. Ma un giorno la verzura del racconto tornerà a lussureggiare, pescando la sua forza idrica anche da quella falda tolsojana profonda e da innumerevoli altre esperienze che nel frattempo avrò fatto.

Internet è lo strumento della rapidità istantanea, dei mutamenti vertiginosi e in qualche modo disumani, perché il tempo dell’interiorità dell’uomo ha bisogno di più agio cronologico, di latifondi di momenti, della possibilità di depositarsi piano, corre su ritmi più lunghi e distesi.

Prima c’erano i newsgroup, poi sono venuti i blog, poi i social network, e via, e via, in una girandola che scalza se stessa vorticosamente. Se mi si concede l’ennesima metafora rozza e triviale della mia carriera di scribacchino, il meccanismo di internet è quasi come pensare ad un tale che, dopo aver tirato una scoreggia, immediatamente si ritrovasse fra i piedi un altro tizio ad avvertirlo di come ormai non vada più di moda il fatto di puzzare.

Quello che non può passare mai di moda tuttavia sono la sacralità ed il mistero della parola. Questo mi rinfranca e mi sostiene nel seguitare a scrivere, e nel pensare che forse un blog non può diventare obsoleto, perché la sua struttura si sostiene sulla potenza fuori del tempo posseduta dalla parola scritta.

«…ma l’Austria non ha mai voluto e non vuole la guerra. Essa ci…»

Sapete cos’è questa frase? E’ una riga scelta a caso dal testo di «Guerra e pace». Come potrete verificare, sono 61 battute, spazi compresi. Tenendo conto che ogni pagina dell’edizione da me letta è composta da circa 40 righe, 61 moltiplicato 40 fanno circa 2440 battute a pagina. Moltiplicando ancora per 1400 pagine circa (sarebbero un po’ di più, ma arrotondo facendo la tara delle pagine bianche, delle mezze paginette e casi simili), approssimativamente si giunge alla bellezza di 3milioni e 416mila battute totali (3.416.000). Ecco, non è per fare il polemico o il retrogrado, ma provo un certo orgoglio a pensare che, nel pieno dell’epoca in cui mezzo mondo si arroga di riuscire a dire tutto nello spazio di 140 caratteri, io ho avuto la forza di sbarbarmi le pretese espressive di un tale che, dopo 3milioni e 416mila battute, son sicuro si sentì ancora assai sulle spine e parecchio in sospetto riguardo al fatto di avere ancora molto da dire.

Buon Ferragosto, allora, cari amici viandanti per pensieri. Grazie a chi mi legge sempre con lo stesso affetto che anche io in eguale misura mi sento di ricambiare senz’altro di cuore. Come avete visto, cose degne di nota non ne avevo tante da dirvi, oggi. Il cane per l’aia l’ho menato a sufficienza, ma più che altro era per farvi un saluto, e dirvi che sono sempre qui, anche se scrivente a passo ridotto, ma ben contento che anche voi ci siate.

lunedì 13 agosto 2012

Quando le fate le incontravo sul treno



Esistono le fate, gli gnomi, gli elfi? Spiritelli o folletti, in qualunque modo li si voglia chiamare? Tutti quegli esserini insomma escogitati lungo le varie epoche, nell’ambito delle culture più diverse, e che pretendono di individuare non meglio definite presenze bonarie intorno a noi, auree condensate di essenza positiva spolverata su determinati attimi del nostro vivere?

Ovviamente, non saprei rispondere in misura certa alla domanda. Ma una mia vaga idea in merito me la sono fatta. In modo particolare, dopo quella volta che una fata la incontrai veramente, sul vagone di un treno, alcuni anni fa.

Erano i tempi gloriosi dell’università. Gloriosi, via…si fa per dire, insomma.

In epigrafe a «Il sistema periodico», la bellissima raccolta di racconti di Primo Levi che mi appresto a leggere in questi giorni, ho scoperto giusto ieri notte una frase stupenda: «…E’ bello raccontare i guai passati…». Si tratta di un vecchio proverbio yiddish, che in originale suona: «…Ibergekumene tsores iz gut tsu dertseyln…».

Diciamo che il mio periodo universitario si potrebbe anche definire glorioso, a patto però di inquadrarlo nello spirito di questo meraviglioso adagio yiddish. Più in generale, questa perla di saggezza popolare mi sembra un buon metro di misura per volgere indietro lo sguardo, rimirando un po’ tutte le vicende attraverso le quali si è dipanata la propria vita.

Di fatto, quel mio lontano giorno da universitario di cui vi voglio parlare, si preannunciava sin dalla mattina presto molto più “glorioso” di tanti altri. Dovevo sostenere un esame, e nella migliore delle mie più gloriose usanze, non mi sentivo per nulla preparato. Se mai avete conosciuto un tipo supremamente insicuro, oltremodo timoroso all’idea di presentarsi di fronte ad una commissione d’esame, ed avete pensato che fosse l’asso assoluto nel campionato di tentennamento individuale, riservato ad atleti professionisti di titubanza in assetto variabile, beh, scordatevelo pure: io, in una sfida diretta, l’avrei stracciato alla grande.

La cosa più singolare era che alla fine, nel momento esatto in cui mi sedevo di fronte al professore per essere interrogato, non solo mi mettevo a sciorinare una sequela di nozioni e concetti della cui presenza, nei meandri del mio cervello, non avevo il benché minimo sospetto, ma mi calavo anche in una sensazione liberatoria incredibile. Come un colpevole al quale venga offerta l’opportunità di sgravarsi tutto d’un colpo di ogni fardello della coscienza, non la smettevo più di raccontare cose, mentre il professore si trasformava, da spauracchio paventato, nel più rassicurante dei confidenti, un amico appassionato degli argomenti di cui si trattava, in grado di darti notevole soddisfazione dialettica, perché fortemente interessato ad ascoltarti. Non poche volte mi ritrovai in seguito un 30 istoriato sul libretto, dandomi alacremente del semo per tutte quelle moine preventive da condannato al patibolo. Ma era tutto inutile: all’occasione successiva, il rito si sarebbe ripetuto tale e quale.

Non bastasse il clima da vigilia d’esame, la sera precedente ci si era aggiunta un’aggravante ansiogena notevole. In quel periodo ero parecchio fissato con la pallavolo. Come per tutti gli sport la cui pratica mi ha appassionato nel corso degli anni, anche nel caso della pallavolo amavo soprattutto la ricerca di una sintonia con in movimenti richiesti dalle varie azioni di gioco. Le movenze sportive sono il risultato di una ricerca dinamica di anni, realizzata da numerosi atleti, che lentamente hanno portato il proprio contributo per rendere il gesto sempre più efficace, armonioso, fluido, elegante. Pensate ad esempio, per il salto in alto, alla scorrevolezza dello stile Fosbury che ha soppiantato l’irruenza del ventrale, oppure a tanti altri tipi di miglioria tecnica ed “espressiva” nei vari sport.

Anche lo sport è un linguaggio che si evolve e non c’è niente di più bello, quando ci si appassiona alla pratica di uno sport, del fatto di inserirsi nel discorso di quel linguaggio, provando a dire la propria opinione, espressa con le peculiari parole di quel “modo di parlare per azioni”. Non conta tanto avere ragione, ossia vincere, ma conta più argomentare con arguzia, portare idee brillanti nella conversazione, inserirsi nel dialogo con grazia ed eleganza.

Stavo partecipando a questo piccolo torneo locale di pallavolo, organizzato in un paesello vicino. Niente d’importante, ma con la nostra squadretta riuscimmo ad arrivare alla gara decisiva, ci esaltammo, già ci pregustavamo la vittoria finale, a scapito dei nemici storici di un altro campanile limitrofo e invece…perdemmo come cagnacci. Propria la sera prima del mio esame. Avere ragione non contava, è vero, nel mio personale modo d’intendere il confronto agonistico. Ma quando qualcuno pretendeva di urlarmi malamente in faccia che avevo torto, da una parte mi incazzavo, e dall’altra mi deprimevo non poco.

Masticando adrenalina stantia e rabbia insensata, quella notte non chiusi occhio: premessa ideale per andare a prendere “quel treno per l’esame”, la mattina successiva. Il vagone era intriso del solito odore di pendolarità, un misto di quintessenza kafkiana corretta con puzza di sedili e io, seduto nel mio cantuccio, mi aggrappavo spasmodicamente alle pagine del libro, per il ripassone disperato dell’ultimo momento. Come al solito, per i primi venti minuti del viaggio, il treno era semivuoto. Sino alla “città delle donne”. Nella stazione di questo piccolo centro, succedeva regolarmente una magia: la banchina era sempre stracolma, fra gli altri viaggiatori, di ragazze e donne carine, studentesse, impiegate, una folata di grazia femminile pendolaresca sparpagliata e pronta per l’assalto ai vagoni.

Immerso com’ero nel mio disperato ruolo di sconfitto irrecuperabile, perseguitato dalla sorte meschina e cinica, non feci nemmeno caso che una di queste evanescenti creature era venuta a sedersi proprio di fianco a me. Dovevo proprio avere un aspetto terribile, perché nel giro di pochi chilometri, la ragazza mi rivolse la parola: «…Sei preoccupato per un esame?…» attaccò a dirmi, o qualcosa di simile. La guardai meglio, non capacitandomi ed emergendo a fatica dal torpore rimbambito che mi teneva avvinto alla mia bolla di vittimismo fatale. Minchia, una ragazza, e pure carina, che attaccava bottone con me: di sicuro c’era qualcosa che non funzionava, un grano di sabbia inceppatrice doveva essersi insinuato fra gli ingranaggi dell’immane meccanismo cosmico-esistenziale.

Aveva i capelli neri, lunghi, era snella, di una bellezza non appariscente, ma di certo rassicurante. Mi parlò per tutto il resto del viaggio come fossimo stati vecchi amici di lunga data, rincuorandomi sulle sorti del mio esame, dicendo cose carine, condite con sorrisi non finti. Mi spiegò anche che veniva dauin piccolo paese, in provincia della “città delle donne”. Non ricordo se mi disse il suo nome e completamente rapito dall’eccezionalità dell’evento, non mi preoccupai nemmeno di chiederle un recapito, un numero di telefono. L’epoca dei cellulari non era ancora giunta, ma ero sicuro che l’avrei ritrovata prima o poi, sempre in treno, un altro giorno.

Invece non la incontrai più.

Per questo sono rimasto convinto fino ad oggi che si sia trattato di una fata. L’esame andò discretamente bene e la delusione sportiva svanì con facilità. Ma il ricordo della grazia semplice di quella ragazza me lo porto ancora dentro. Fatalità, fatale: sono termini che contengono nella loro radice un richiamo al concetto di fato, ma per quella volta recarono in sé soprattutto riferimenti alla parola “fata”. La preziosità di un evento che trovò la sua energia più grande nell’irripetibilità assoluta.

Un’altra prova inoppugnabile della sua essenza di fata mi rimase in mente: ai piedi portava un paio di ballerine argentate, che avrei reputato del tutto pacchiane, se indossate da chiunque altra donna al mondo. Invece su di lei non facevano altro che esaltare ancor più il senso di confortante fatalità femminea impregnato nella sua presenza.

Fate, folletti e compagnia bella: esistono. Bisogna avere solo la pazienza di saperli attendere, annidati dietro la singolarità di un evento raro, nell’inaspettato che si nasconde in ogni persona.

Perché non provai a rintracciare quella ragazza, in seguito, quando mi resi conto che le speranze di rivederla per la spontaneità del caso, si andavano assottigliando sempre più? Non vi saprei spiegare. Forse per il fatto che, lontano dai centellinati attimi sospesi per sempre su quella disperata mattina pregna di fiducia irreale, ero certo di trovare definitivamente e semplicemente soltanto una ragazza, e non più una fata.

martedì 7 agosto 2012

A corte ti ci stringerai tu!



Devo confessare che le recenti, “fondamentali” esternazioni di Beppe Grillo riguardo alle competizioni disputate all’ombra dei cinque cerchi, hanno messo non poco alla prova la mia granitica fede olimpica. Uno scrollone non meno terribile ha dovuto poi subire il mio proverbiale amor proprio culturale, quando sono venuto a conoscenza della superba “lectio magistralis” tenuta da Umberto Bossi a proposito di tematiche manzoniane e loro ricadute storiche, “lodevolmente” rivisitate alla luce di una sottile esegesi, frutto manifesto di fatiche di studio durate una vita intera.

Vivendo adesso nel continuo timore di una prossima uscita del guru epocale di turno, che giunga inesorabile a rivelarci come i tre porcellini, in realtà, abbiano sempre operato in combutta col lupo Ezechiele per ingannare il mondo riguardo alla presunta verità del famoso motto «…no, non è morta, è ancora viva: viva la ….! Viva la …! …», nondimeno, forte della mia imperterrita ingenuità, ho seguitato in queste sere a guardicchiare le gare olimpiche alla tele.

Fra uno sprazzo agonistico e l’altro, mi è capitato così di beneficiare anche di qualche piacevole amenità linguistica. Va precisato che alla prima di queste facezie verbali è da riservare più simpatia che non severità, essendo scaturita da un momento di particolare foga partecipativa da parte del cronista, completamente preso dalle vicende sportive che si stavano favorevolmente tingendo di azzurro sul terreno di gara. Tra l’altro, il simpatico commentatore, con sicura preterintenzionalità, ha dato vita col suo involontario strafalcione ad un colorito neologismo, del tutto degno di nota. Ragione in più per non essere troppo cattivi con lui.

Nel bel mezzo di un veemente assalto, portato all’avversario da uno dei nostri bravi fiorettisti nazionali, il caro speaker, per cercare di contenere con un vocabolo degno tutta l’impressione di impetuosità atletica percepita, ci ha piazzato lì una stoccata sostantivale, un lapsus di generosità verbale, che personalmente ho trovato meritevole di svariati bonari e soddisfacenti sorrisi. 

“Straripanza”: questo il rimbombante termine che ne è venuto fuori, per definire l’irruenza del nostro schermidore. Non so come mai, ma subito la mia selettività semantica mi ha fatto filtrare buffamente la nuova parola verso una preminenza della sua porzione finale: è stata la “panza” che mi si è imposta come immagine primaria contenuta in quel fior di conio linguistico. Da lì a pensare al celeberrimo adagio «…omo de panza, omo de sostanza…», è stato un attimo. Mi è venuto allora da immaginare quanta e quale sostanza dovrà essere contenuta in quell’«omo», che non solo è «de panza», e nemmeno s’accontenta d’essere «de ripanza» (= panza ripetuta), ma addirittura sciala alla grande arrogandosi persino il diritto di sfoggiare una incontenibile «straripanza» (= panza ripetuta e debordante). 

E’ proprio vero che la bellezza a sorpresa riservata dall’immenso frullatore di significati e suoni in cui si possono continuamente immergere le parole, non finisce mai di stupire. 

In modo analogo, m’è successo sempre in questi giorni di ricevere, ancora in ambito olimpico, la conferma di un altro buffo risvolto linguistico già notato qualche tempo fa annidarsi nei meandri del mondo calcistico, in occasione degli ultimi campionati europei. In questo caso l’indulgenza è ancora più d’obbligo, perché se era stata opportuna nei confronti di chi, come il commentatore televisivo, bene o male fa delle parole i propri ferri del mestiere, a maggior ragione va usata con gli atleti stessi, dai quali si pretendono più gesti eleganti e prestanza fisica, che non finezze linguistiche.

La facezia in questione emerge in una fase particolare delle gare, ossia nel momento in cui gli atleti sono chiamati  a confrontarsi con l’inno nazionale. Intendiamoci, è già una bellissima cosa il fatto che, a dispetto dei terrificanti strali anti-manzoniani di Bossi, ultimamente un po’ tutti gli atleti si siano messi a cantare con partecipazione le intere parole dell’inno. Ma non per questo dobbiamo rinunciare al divertimento linguistico inatteso, che si rivela ad un certo punto dell’ultima strofa, quando una trappola espressiva a dire il vero assai subdola, perché dettata da un eccesso di forbitezza tardo-ottocentesca, finisce per far incespicare diversi atleti. 

«…Stringiamoci a corte…» proclamano allora con fierezza il più delle volte i nostri cari campioni, presi tra l’altro anche nel gorgo ingannevole della necessità di far quadrare senso delle parole, scansione metrica e scorrevolezza della melodia. Non sempre è agevole cogliere la lieve imprecisione, ma molto spesso il primissimo piano dei volti e la vicinanza di un microfono, lo consentono.

«…Stringiamoci a corte…», dunque.

In realtà, come i più accorti ben sanno, il buon vecchio Goffredo Mameli aveva scritto, e soprattutto inteso, tutt’altro. L’eroe risorgimentale infatti non pretendeva proprio che nessuno si stringesse  a nessuna «corte». Chissà, forse l’intenzione, in questo modo, era quella di non dare adito a malintesi che precludessero la strada a future evoluzioni repubblicane della nostra nazione, di seguito puntualmente realizzate (non stringiamoci troppo alla corte di un re, hai visto mai che poi ci tocca un presidente del consiglio…). Oppure, con minore lungimiranza, egli aveva trascurato di prefigurarsi le esigenze dei nostri atleti moderni, non preoccupandosi della loro tendenza naturale a stringersi particolarmente appresso alla velina o all’attricetta di turno, nel farle la «corte». 

L’esortazione che molto più sottilmente ed ottocentescamente il Mameli ci invitava ad accogliere, con una prima puntigliosa elisione vocalica unita al successivo immediato raddoppio, suonava invece «...stringiamci a coorte...», ossia disponiamoci a ranghi serrati nell’assetto tipico di una particolare antica unità militare romana, la «coorte» appunto.

Ma come abbiamo già detto, per le soddisfazioni che non di rado ci regalano, siamo disposti a perdonare ai nostri sportivi anche queste minuzie verbali: si stringano pure a «corte», se proprio vogliono, e con «straripanza» perfino. Mica saremo noi di certo a fargliene una colpa.