Il problema che di fatto sia l’unica unità di misura esistenziale a nostra disposizione, è tutto un altro discorso. Avendone tuttavia potuto contrattare a tempo debito le regole col sostegno di sindacati più influenti, si sarebbe riusciti a spuntare qualcosa di meglio.
Scivoliamo via lungo la prima decina d’anni, qualche mese più qualche mese meno, immersi in una sorta d’incanto entro il quale i confini del respirare e del meravigliarsi si confondono in labilissime sfumature. Scoccato l’undicesimo o il dodicesimo compleanno poi, tutto il resto del tempo lo trascorriamo a crogiolarci nello spasmodica bramosia di essere qualcun altro rispetto a chi siamo.
Di colpo, con la stessa stupita rapidità (o rapita stupidità, non cambia granché…) con la quale ci rendiamo conto di essere stati invasi dai peli nei più curiosi recessi del corpo, non vorremmo più essere noi.
Chi ha un’indole pacata e cortese, prende ad invidiare gli scavezzacolli. Chi è irruente ed immediato nei modi, spererebbe magari in maggiori ponderatezze, in una misura più controllata nel fare e nel dire. Ciascuno insomma, intorno agli albori di quella seconda decade della propria esistenza, si sente dentro alla propria identità come se vestisse un abito oltremodo sottotaglia. Tutti presi dal formicolio della stessa medesima urgenza di volerselo cavare di dosso. Anche il rischio di ritrovarci semplicemente nudi siamo disposti a correre, pur di non essere più quelli che siamo.
Questa fregatura si chiama adolescenza, una malanno che s’infiltra tanto profondamente dentro noi da non lasciarci guarire poi mai più fino in fondo.
Ricordo che la mia fame di diversità si manifestò ad un certo punto con risvolti particolarmente bizzarri. Nel momento che la si attraversa non ci si rende bene conto di cosa stia accadendo. Sono cose che si focalizzano meglio di seguito, una volta rielaborato l’uragano di sensazioni e di vibrazioni in cui si è capitati.
Quello che accadde, di fatto, fu che mi misi ad invidiare la cattiveria.
A scuola me la sono sempre cavata bene, anche se a dire il vero non mi sono mai ammazzato di fatica sui libri. O meglio, il mio impegno ha oscillato spesso tra momenti di intense impennate e altri periodi di più placide cavalcate al trotto leggero. La riflessività e la capacità d’introspezione non mi sono mai mancate. Forse era soprattutto grazie ad esse che nello studio la sfangavo con una certa agevolezza.
Il periodo in cui desiderai essere cattivo non durò a lungo. Anzi, volendo si può condensare in un episodio preciso, o in pochi episodi tutti collegati ad una vicenda comune. Nei pressi del luogo di ritrovo più frequentato dai ragazzini della mia età, c’era pure l’abitazione di una vecchia più bisbetica che cattiva, suonata al punto giusto da meritare piuttosto il compatimento anziché astio e malevolenza di ritorno.
Ma si sa, il cucciolo d’uomo in quel periodo della vita risulta spesso perfido ed irragionevolmente litigioso, tanto che pian piano, come una piccola valanga di eventi frammentari che si andarono sommando di giorno in giorno, andò a finire che scoppiò la guerra con “La Vecchia”. Un minimo screzio aveva portato ad una discussione, a sua volta ingrossata da altri scontri e così via, in un crescendo di dispetti, bravate, urla e sguaiataggini da entrambe le parti.
La mia genialità a scuola non era mai stata esagerata, come detto, però sufficiente da farmi rimanere al di fuori da tutto quel trambusto, in particolare per la gran pena provata e distribuita un po' su entrambe le parti contendenti. I ragazzi erano spietati ed ottusamente ostinati nella loro battaglia senza senso, mentre nemmeno “La Vecchia” aveva quei pochi grammi d'intelligenza necessari a capire che ignorando un paio di volte le provocazioni, avrebbe potuto smorzare senza tanta fatica la furia sgangherata di quei teppisti più stupidi che malvagi.
A gragnuole di fango dal basso, indirizzate contro le serrande, facevano seguito secchiate d'acqua calda distribuite dall'alto a sorpresa sulle truppe nemiche, fra alterni rumoreggiamenti di tapparelle calate di botto e rialzate altrettanto fragorosamente, a sottolineare la grandi manovre che “La Vecchia” metteva in atto scorrazzando di stanza in stanza, per sorprendere l'orda invadente appostata sotto l'una o l'altra finestra del primo piano in cui abitava.
Fu un pomeriggio di bruma autunnale, quello durante il quale invidiai la cattiveria e la stupidità degli altri ragazzi, indaffarati in quella pratica demenziale. Ero stufo della mia pacatezza, di essere posato e ragionevole. Desiderai diventare stupidamente spietato come loro, perché se nella loro incoscienza erano capaci di comportamenti simili, mi immaginavo che la lacerante tristezza dell'essere adolescenti non fosse ancora riuscita a penetrare le loro menti e i loro cuori. Come se la cattiveria avesse potuto ridonarmi l'incantata spensieratezza infantile appena perduta.
La mia invidia di concretò in un unico e poi mai più ripetuto attacco, sferrato contro la casa della “Vecchia”. Appostato dietro il riparo dell'edificio vicino, usato spesso come trincea per gli scontri, mi unii al piccolo esercito dell'idiozia, rasentando il muro con le spalle e sporgendomi giusto il tempo di scagliare, non ricordo più bene se una o due sassate, oppure manciate di terra fradicia contro la roccaforte “vecchiesca”.
La sensazione provata in quei pochi secondi la compresi fino in fondo solamente diversi anni dopo, quando mi capitò di vedere quel capolavoro del cinema che è «Full metal jacket». In una scena ambientata nella camerata degli allievi marines, una notte tutta la compagnia decide di compiere una missione punitiva per dare una svegliata al soldato “Palla di lardo”, che con il suo comportamento tragicamente goffo ed involontariamente sguaiato, sta procurando a tutti i soldati una serie di punizioni inferte dal tremendo sergente addestratore.
La scena è terribile, di una cattiveria inaudita, capace di rivangare nell'istintualità umana primordiale più remota, come spesso succede con certe suggestioni kubrickiane. Il povero “Palla di lardo” viene immobilizzato da alcuni commilitoni che lo “fasciano” contro la branda tenendolo fermo con diversi asciugamani passati trasversalmente da parte a parte del letto, chiudendogli in quel modo anche la bocca. Il resto della truppa, armato di saponette arrotolate in altri asciugamani, passa poi in rassegna lungo il giaciglio del malcapitato, assestando pesantissime frustate sul suo corpo inerme, dal quale si elevano lamenti strazianti.
L'ultimo della fila è il soldato “Joker”, colui che più di tutti si era preso a cuore il caso del soldato pasticcione “Palla di lardo”, cercando di aiutarlo a recuperare nell'addestramento e a non commettere più pericolosi e sguaiati errori. “Joker” esita pesantemente, preso nella morsa di una conflitto interiore fortissimo, ma poi, anche cedendo alle esortazioni di un altro soldato, sferra ripetuti colpi sul corpo ormai acciaccato di “Palla di lardo”, con una cattiveria ottusa che non conosce altra ragione che se stessa.
Pur nelle ovvie differenze di proporzioni epiche, la mia sassata scagliata contro la dimora della “Vecchia” era stata innescata da moventi simili a quelli del soldato “Joker” nel mazzolare “Palla di lardo”. Mi ero lasciato risucchiare dal “gregarismo” obnubilante, rifiutando di essere me stesso pur di trovare sollievo al mio disagio di vivere abbandonandomi senza riserve alla miopia collettiva.
Fortunatamente fu soltanto un episodio sporadico. Mi sentii immensamente stupido, quasi in tempo reale, ma di quella stupidità sana che fa comprendere l'inutilità della fuga da se stessi. Questo non fu il solo fatto che mi fece capire i meccanismi del diventare grandi, ma di certo quella volta andai un passo più vicino al rendermi conto di come la nostra indole vera, il nostro carattere più genuino, sono i soli luoghi al mondo dai quali non ci potremo allontanare mai.
Mettendo in conto le dovute sofferenze, ovvio.