Cari amici viandanti per pensieri, oggi rivolterò un po’ la frittata di certe idee già rimestate in altre occasioni. Questo blog sta diventando vecchio, io sto diventando vecchio, quindi spero vorrete perdonare alcuni lievi segnali di rintronamento senile.
Cercherò di spiegare (o capire con voi…) come la “sindrome del rockettaro” possa influire sulla tendenza ad osservare il mondo artisticamente. «…Strataboing e’mmminchia’hai’dett…!?!?!?...» mi pare quasi di sentire risuonare nell’aria l’onomatopeico moto di stupore del povero lettore molestato.
Chi è “rockettaro” nell’intimo, almeno nel senso che voglio mettere in rilievo qui, potrà forse capire meglio. Il “rockettaro” è un tipo dallo stupore e dagli entusiasmi facili, fugaci, lampanti. Con questo non voglio dire che il “rockettaro” sia un sempliciotto dalla bocca buona, capace di accontentarsi di emozioni spicciole a buon mercato. No, è invece a partire dalla stessa essenza del rock che si manifesta il fenomeno, da questa musica in grado di dare adito a fiammate emotive tanto intense quanto rapide, subitanee. Il rock trasmette confidenza col meccanismo dell’eruzione di sensazioni, fuoriuscite di lava emotiva affioranti dall’indifferenziato di tutto ciò che è “il resto” (“…the west is the best…get here, and we’ll do the rest…”). Può trattarsi di un riff di chitarra, di un frammento particolarmente significativo racchiuso in una frase melodica, di un incontro-scontro nei suoni delle parole cantate: non importa la causa, di fatto la canzone rock possiede questa proprietà di saper dare l’innesco a queste illuminazioni emotive brucianti, che si elevano come un picco energetico fortissimo, e con la stessa fulmineità con cui sono giunte, tornano a nascondersi nel magma dell’indeterminato.
C’è una frase fra le tante memorabili contenute nei dialoghi di «Apocalypse now» che mi è sempre rimasta particolarmente impressa. La trama è arcinota: l’ufficiale interpretato da Martin Sheen viene incaricato di risalire il fiume con una piccola pattuglia di soldati, per andare a stanare e disinnescare la follia del colonnello Kurz-Marlon Brando. Ad un certo punto, per descrivere il tipo di soldati che gli erano stati messi a disposizione per la spedizione, riguardo ad alcuni, l’ufficiale-Martin Sheen parla di “ragazzini fanatici del rock’n’roll”. Più che un giudizio sprezzante (come magari potrebbe suonare in apparenza), io ho sempre letto in questa frase la sintesi del carattere di quei giovani soldati: dei tipi “dallo stupore e dagli entusiasmi facili”, come ho appunto scritto sopra, dunque particolarmente esposti al pericolo in una missione terribile come quella da affrontare lungo quel fiume intriso di crudeltà e di insania mentale.
Essere “ragazzini fanatici del rock’n’roll” nell’animo, non comporta però nessun pericolo se si mette in relazione questo atteggiamento con la propensione a vedere artisticamente il mondo. La realtà ci si presenta incessantemente come un flusso ininterrotto, pluridimensionale ed onnipresente di impulsi, emozioni, sensazioni, impressioni. Attraverso tutti i canali sensoriali e sensibili di cui possiamo disporre, una marea di dati fluisce verso di noi in ogni istante. Questa mole di dati la sappiamo interpretare, sulla base dell’esperienza, però essa ci si pone dinnanzi come il sipario di una superficie illusoria (il “velo di Maya”, lo chiama Schopenhauer, rielaborando il suo pensiero alla luce della tradizione indiana), che ammanta la nostra percezione del mondo delle apparenti forme assunte dalle cose. Questo velo è oltremodo ingannevole, facendo leva sulla forza dell’ovvietà e dell’immediatezza.
L’animo da ragazzini fanatici del rock consente, in qualche epifanica circostanza introdotta da un particolare stato di “grazia sensitiva”, di squarciare per brevissimi tratti questo velo, cogliendo le subitanee disposizioni che talvolta tendono ad assumere le tessere stesse con le quali il “mosaico del velo” è composto. Può trattarsi di una scena vista migliaia di volte, ma che per quell’attimo e poi più ci si mostra sotto una luce particolare. Gli oggetti quotidiani, arci-noti, si dispongono per pochissimi istanti secondo un disegno compositivo che sa sintonizzarsi con misteriosi significati nascosti nel nostro inconscio. Oppure, è l’espressione di una persona cara, un sorriso familiare di fronte al quale siamo stati già infinite altre volte, un gesto, un atteggiamento, che ci si profilano innanzi con espressività del tutto nuova, trasmettendoci una vibrazione empatica particolarmente intensa ed ineffabile con l’individuo in questione.
In quelle occasioni una verità ci si rivela, anche se non sapremmo definirla, imbrigliarla, circoscriverla. In quelle occasioni, abbiamo visto il mondo artisticamente. E la cosa più affascinante sta nel fatto che a tutti è concesso questo privilegio. Non bisogna per forza essere artisti, per riuscire a cogliere il mondo artisticamente. Anche se poi, solo gli artisti hanno l’ulteriore dote di saper convogliare quei bagliori di verità intraviste, nei mezzi e nelle forme capaci di rispecchiarli e ritrasmetterli in qualche modo: in un dipinto, in una scultura, una canzone, un film e così via.