Inseguendo le muse della moda, questa settimana Kika è incappata in un argomento all’apparenza lontano dal mondo dell’arte “ufficiale”. Trattando per l’occasione di motociclette e bellezza femminile, la sua scelta è caduta su alcuni manifesti pubblicitari della leggendaria Harley-Davidson, dove le famose curve motoristiche sono riecheggiate da quelle in carne ed ossa di altrettante icone classiche dell’immaginario americano, le celeberrime pin-up dal tipico sentore anni ’50.
La pubblicità non è arte, su questo siamo d’accordo. Tuttavia essa è portatrice (magari anche involontariamente) di una serie di valenze e questioni estetiche, intorno alle quali l’arte del ‘900 ha ampiamente riflettuto. Anzi, per essere più precisi, l’arte si è confrontata con le immagini destinate ad una “fruizione di massa” già dalla fine dell’800. Artisti come Alfons Mucha (1860-1939) e soprattutto Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901), si interessarono a questa moderna forma di espressività, cogliendo in essa interessanti moventi psicologici e comunicativi.
Il movimento artistico che però ha portato a compimento la più articolata riflessione sulle forme della comunicazione di massa, è stato quello della Pop-Art. Quando si parla di Pop-Art, non si può non fare riferimento al suo nume tutelare più autorevole, Andy Warhol (1930-1987). L’opera di Andy Warhol rimane sempre ammantata da un beffardo dilemma. Se si considerano le sue realizzazioni, non si è mai abbandonati dal dubbio se sia stato un grande genio o un grandissimo paracu…ehm “para-genio”. Chissà, forse anche questo interrogativo fa parte della sua grandezza.
Warhol s’interessò di studiare quello che accade ad un certo “quanto estetico” (se mi è concesso questo indebito uso terminologico ispirato alla fisica quantistica), dal momento in cui viene immesso nel moderno circuito dell’utilizzo massivo. Quali fenomeni s’innescano, quando un’immagine (come possono essere quelle effigiata sui nostri poster della Harley-Davidson) viene ripetuta, diffusa, vista, rivista e stravista all’infinito, da centinaia di migliaia di occhi? Quell’immagine, entrando nella gran sarabanda mediatica, andrà incontro ai più disparati destini, ma uno fra i tanti le accadrà di certo: essa si “usurerà”, diverrà “frusta” per l’eccessivo uso, si banalizzerà, si svuoterà di scopo, confondendosi nel marasma “non finalizzato” dello scorrere della vita “spicciola”.
Fu proprio concentrandosi su questo passaggio, che l’intuizione di Andy Warhol diede il meglio della propria originalità. E’ qui che la poetica dell’artista americano ribalta secoli di arte intesa nella maniera, per così dire, tradizionale. Come spiega Massimo Donà nel suo “Arte e filosofia” (Bompiani, 2007): «…L’arte occidentale si è sempre caratterizzata come ricerca di uno “spazio altro”, in cui la vita potesse finalmente esperire l’ebbrezza della propria “im-possibile” eccedenza…». Ciò che la Pop-Art, e in particolare Andy Wahrol, cercarono di fare, fu di cambiare punto di vista a questa prospettiva.
Se l’arte aveva sempre ricercato uno “spazio altro” rispetto alla vita, di volta in volta sotto forma di catarsi, sublimazione, trascendenza, evasione verso dimensioni ulteriori, Warhol, elevando al rango artistico le immagini usurate della comunicazione di massa, ci ricorda che, in fondo, la vita vera, quella vissuta nella quotidianità, è fatta soprattutto di momenti banali e noiosi, affrontati quasi per inerzia.
Warhol stesso ha provato a chiarire il concetto in alcuni appunti e riflessioni scritte che ci ha lasciato (citati sempre da Massimo Donà): «…Quello che mi ha sempre affascinato è il modo in cui la gente può stare alla finestra o in veranda tutto il giorno a guardare fuori e non annoiarsi, ma se vanno al cinema o a teatro subito protestano di essersi annoiati…». Per sviluppare questo aspetto, Warhol girò anche numerosi film, nei quali non succedeva assolutamente nulla: «…Come […] alla finestra o sulla panchina di un parco, “quando si stava seduti per ore, e senza annoiarsi, anche se non succedeva niente di speciale. Questo è il mio tema preferito quando faccio un film, semplicemente osservare qualcosa per due ore”. A differenza di quelli di Hollywood, “noi” avrebbe precisato Andy Warhol “non siamo gente finta che tenta di dire qualcosa”. No, “noi siamo gente vera che non tenta di dire nulla”; o forse - assai più semplicemente -, tenta di estendere lo sguardo, di guardare la stupefacente insensatezza delle nostre azioni quotidiane, dei nostri affanni, delle nostre preoccupazioni, dei nostri desideri delle nostre sofferenze…».
Per questi motivi, Warhol sentiva che le sue immagini, riprese dall’usurata miniera del circuito della comunicazione di massa, sanno a loro modo entrare maggiormente in sintonia col flusso della “vita effettiva”, in fondo fatta di uno stillicidio di tanti attimi il cui senso non sappiamo mai ben spiegare fino in fondo.
Ora, di Warhol si potrebbe parlare ancora a lungo, e ciascuno ha il diritto di rimanere convinto che, al di là di ogni elucubrazione critica, fosse soprattutto un gran “para-genio”. Sia come sia, di fatto per noi è venuto il momento di vedere gli esiti dell’indagine fisiognomica di oggi, ispirata alle signorine “grandi forme” dei poster della Harley-Davidson. Ho trovato due somiglianze, neanche a farlo apposta, entrambe alquanto retrò.
Ecco il primo volto scovato:
Visto il tema, non poteva che trattarsi di una diva vintage, però di casa nostra: è Giovanna Ralli, famosa sul grande schermo soprattutto negli anni ’50 e ’60, in tante commedia all’italiana e non solo, la cui carriera è poi proseguita fino agli anni recenti.
Ed ecco il secondo volto:
Si tratta ancora di un’attrice, Francesca Romana Coluzzi, anche lei protagonista di film commedia negli anni ’60 e ’70.
Finisce qui questa puntata un po’ particolare della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Ora, se volete sapere come la nostra maghetta modaiola Kika ha reinterpretato l’abbigliamento delle pin-up-bikers, non dovete fare altro che spostarvi sul suo blog e gustarvi la sorpresa.