lunedì 30 marzo 2009

Shiny spariglia



Mi sono accorto di aver sproloquiato 17 volte qui su, in questo mese. Ora, io non sono superstizioso, ma per il lettore sensibile a questo tipo di congiunture numerologiche, ho pensato bene di sparigliare con questo brano, che mi chiude pure la mesata in allegria...öööhhhh :-)



Elogio della copertina molle


«…Non sopporto i cori russi
la musica finto rock

la new wave italiana

il free jazz punk inglese.

Neanche la nera africana...».

E nemmeno le copertine dure, aggiungerei io.

Prima che qualcuno legato in qualche modo al mondo dell’editoria passi di qui, sarà più facile veder piovere assegni in bianco.
Ma vorrei comunque catodicamente lanciare il mio monitor agli editori.
Hai visto mai che capiti per caso da queste parti il garzone del pizzicagnolo dal quale si serve la fidanzata del cugino più brutto di un vecchio amico delle elementari di un editore, e che questi due si ritrovino dopo anni su facebook?
In quel caso, confidando ciecamente sullo spontaneo passaparola che scaturirà dal garzone giungendo attraverso i vari passaggi sino all’orecchio dell’editore, mi sento di dire: cari editori, perché vi ostinate ad incartonare certi libri pretendendo in questo modo di sottolineare un’uscita speciale dei medesimi?
Passi per i volumi di grande formato, dove c’è bisogno a volte di tenere ben compattati anche pesi notevoli.
Ma nel caso dei cosiddetti tascabili, la copertina rigida “cui prodest”? (trad: “che minchia mi sta a rappresentare”?).
La rigidità coperturale è solamente un anacronismo insensato, richiama alla mente antichi termini come incunabolo, ma ci azzecca poco o nulla con il concetto moderno di libro.
Facendo un parallelo col settore automobilistico, sarebbe come continuare a dotare i bolidi odierni di predellini e parafangoni sporgenti da carrozza, con grosse lanterne a petrolio al posto degli abbaglianti.
Dalla copertina rigida emana una malcelata puzza sotto al naso, un vacuo vezzo nobileggiante che non ha più nessuna ragione di essere in un oggetto come il libro che è divenuto da tempo una preclara espressione di democrazia.
La bellezza della parola, della quale ciascun libro è portatore, se incastonata fra gli inamidati confini di una copertina dura, si può paragonare alla morbida leggiadria di una fresca fanciulla costretta fra le angustie di un ottocentesco busto con stecche in osso di balena.
La maneggevolezza e la piacevolezza tattile trasmesse da una copertina molle ti fanno invece direttamente apprezzare la “carta fisica” di quella medesima fanciulla senza aver fatto nemmeno la fatica di spogliarla.
Non parliamo poi della sovraccoperta…oddio, oddio, oddio, nooooooooo…la sovraccoperta, nooooooooo!!! Ma che cos’è?
Innanzitutto, quando leggi, dove la sbatti?
A tenerla calzata sul libro, è nei piedi, scivola giù, impaccia, non puoi sfogliare in santa pace che lei ci mette il becco.
La sfili e la posi sul comodino? Nove su dieci che alla fine della lettura, tutto preso da piacevoli postumi narrativi, la spatasci con il peso del libro ormai dimentico di lei.
Concettualmente poi, se la copertina dura ingessa il libro come un busto stile belle epoque, la sovraccoperta lo infagotta malamente come un mutandone della nonna indossato sopra la minigonna.
E si badi bene, non è una questione di prezzo. Le prime uscite, i bestseller, le edizioni speciali: escano pure al prezzo preventivato con la copertina dura, ma per favore ci facciano lo sconto sulla durezza.
La differenza la investano pure nella funzionalità della copertina, perché anche una copertina molle male incollata, con la costa senza spina dorsale che lascia tutte le pagine ondulate all’attaccatura, è una vera e propria schifezza al mondo.

Niente, era solo questo che volevo dire riguardo alla copertina dura.
Ora speriamo solo che il garzone parli al pizzicagnolo. Il pizzicagnolo alla fidanzata del cugino brutto. La fidanzata al bruttone medesimo, il quale si lamenti col cugino amico delle elementari dell’editore, di una copertina dura, che per due soldi, al mercato mio padre comprò.
E dopo vengano pure il fuoco, il toro, il bastone, l’acqua e il macellaio…purché non vengano più le copertine dure.

domenica 29 marzo 2009

L'uomo della collina ha detto


Ritorno sul concetto di "epifania del lettore", che mi è molto caro ed al quale ho dedicato diversi scritti qui su, in diverse varianti e con diverse modalità, dettate di volta in volta dallo stato d'animo del momento e da come minchia mi pigliava.
E' stato anche l'argomento di inaugurazione di codesto blog frattaglioso, nel lontano giugno 2008.
Ci ritorno perchè ho scoperto che l'epifania del lettore, quando ti succede, non solo può procurare un sommo piacere misto ad un senso di "illuminazione".
Non solo può trasmetterti la sensazione che ti sia appena stato rivelato un pensiero che avevi già da sempre nella mente ma al quale non eri mai riuscito a dare una forma precisa.
Non solo tutto questo, insomma.
Ma ho scoperto pure che l'epifania del lettore può darti la misura della tua limitatezza espressiva.
Mi è successo leggendo un passo del bellissimo libro di James Hillman, "Il codice dell'anima".
Fra le sue pagine ho scovato l'epifania del lettore più intensa in rapporto alla concisione di parole con la quale è espressa: solamente 2 termini.

Ora, io mi sono diverse volte arrabattato per cercare di cogliere le distorsioni del modello consumistico che ci permea le vite.
Non ho badato a spese dandoci dentro di ironia, di prese per i fondelli, di strali umoristici scoccati contro ipermercati, outlet, automobili, passioni insensate come il tifo sportivo portato ai suoi più folli estremi, stili di vita coatti e così via.
Ho sbeffeggiato Grandi Fratelli, Fattorie e Talpe assortite, Marie de Filippi e Filippi de Maria.
Ho stigmatizzato il conformismo mercificatore di esistenze, l'esasperazione produttivistica, la folle ed insensata accelerazione temporale applicata a tutti gli ambiti della vita.
Ma ogni volta, invece di sentirmi come uno che coglie nel segno il significato da trasmettere, alla fine mi sono sentito come un cagnetto tignoso avvoltolato nella polvere, intento a mordere ringhiosamente l'illusione di un osso succulento che si rivelava invece poco più di un bastone rinsecchito.
Se lo avessi saputo che tutta quella roba si poteva dire con due parole, le avrei dette subito.
Ma c'è stato bisogno di leggere "Il codice dell'anima", perchè altrimenti io non sarei io e James Hillman non sarebbe lui.
C'era bisogno insomma dell'uomo della collina per sapere che bastava dire:

"...iperattiva passività..."

Il codice dell'anima
James Hillman - 1996



sabato 28 marzo 2009

Affetto vegetale


C'è una piccola pianta alla quale sono affezionato.
Non saprei ben dire nemmeno io il perchè. E lo confesso, sono un campagnolo anche scarso, nel mio genere.
Perchè non conosco i nomi delle piante, a parte quelle due o tre tanto stra-famose che le sanno pure a Quarto Oggiaro.
Di questa non so il nome, infatti. Credo sia una sorta di pruno selvatico... boh...di certo avrò sparato un'eresia.
Ma la cosa importante è come sa catturare immancabilmente la mia attenzione con il passare delle stagioni. Tra me e questa pianta sento che corre una specie di non meglio definita affinità elettiva.
Mi piace come si apre a "V" verso l'alto, quasi un segno di modestia mista al dubbio sulla direzione da prendere nel diventare grande.
Però non è triste o emaciata, come potrebbe sembrare ad una prima impressione.
Se si guarda bene infatti, ha un buon senso dell'ironia: le due "ali" di rami che si dipartono dall'univocità mancata del suo tronco somigliano ad una specie di sorriso mezzo trattenuto sotto agli occhi.
In questi giorni ha messo su anche i suoi bei fiorellini, sempre riservati e garbati, com'è nel suo modo di fare.
E così affiorellata nella sua stranezza, contro questo cielo rabbuiato che c'era stamattina, mi è sembrata ancor più densa di significati affettivi.



Il fagiano ombrellaio


Quando l'uomo mette troppo le zampe nelle faccende della natura, possono derivarne anche disastri notevoli e gravissimi scompensi ambientali, come purtroppo ben tutti sappiamo.
Ma a volte, fra le pieghe dell'andazzo generale, si possono anche cogliere piccoli sorprendenti segnali di compensazione, che offrono in un certo qual modo la misura della saggezza secolare degli elementi naturali.
Da qualche giorno è arrivato un piccolo amico, dietro casa. Si tratta di un fagianotto stupendo, che zonza sereno nei paraggi.
Non ha eccessiva paura degli umani.
Mantiene le giuste distanze, ovvio, mica vuole averci a che fare più di tanto con dei bipedi balordi che non hanno nemmeno le ali e si credono importanti per il solo fatto di viaggiare su scatole di lamiera che scoreggiano veleni nell'aria.
Ma a parte un doveroso sospetto di prammatica, per il resto pascola placido nei campi vicini all'abitato.
Non lo so per certo, ma l'insolita visita di questo bell'esemplare di pennuto credo sia il risultato di un'operazione umana che già a partire dalla bruttezza del termine con cui è definita, denota un certo qual senso di squallore: "ripopolamento".
In pratica, lepri e fagiani vengono immessi artificialmente sul territorio per poi aver modo di sparare a qualcosa durante la stagione venatoria. E con tutto il rispetto per le passioni e per le idee altrui, se non è distorsione mentale questa...boh...
Non mi sono messo tuttavia a scrivere oggi per imbastire una polemica.
L'ho fatto solo per farvi notare la genialità di Umby.
Sì, non gliel'ho chiesto, ma secondo me il fagianotto visitatore si chiama Umby (dall'inglese "umbrella").
Perchè, anche senza averlo visto materialmente compiere l'atto, me lo immagino che in cuor suo, mentre passeggia serafico nella terra di nessuno compresa fra abitato e zone più interne libere alla caccia, idealmente compie tanti piccoli gesti dell'ombrello all'indirizzo degli uomini
Un ombrellino ad ogni passetto che allunga fra l'erbetta: "...Tiè!!!...".
Come un ladro penetrato nella villetta videosorvegliata, Umby si accaparra il suo spazio di campi privi di pericolo badando bene di starsene sempre dietro la telecamera.
Non volevo rompergli le scatole più di tanto. Ho usato anche il teleobiettivo, per stare più lontano possibile. Ma alla fine Umby, pur senza panico nè agitazione, si è comunque lentamente scostato da me.
E anche se il mio non era il botto di una fucilata, ma un ben più benevolo clic, nondimeno, mentre Umby zompettava bel bello verso il largo dei campi, mi è parso di sentire in sottofondo il netto "ssshhh-ciaaakk!!!" che fa il palmo aperto quando impatta sull'incavo fra braccio ed avambraccio.
E ne sono andato fiero.

venerdì 27 marzo 2009

Chiacchiere controcorrente


In certi frangenti, è possibile raggiungere un livello qualitativo della chiacchiera che procura una goduria suprema al mondo. Anche un orso come me, permanentemente stazionario sul limitar del consorzio umano, ha capito questa cosa.
Ma non solo.
La prova del nove della bellezza e della completezza di un’amicizia con certe persone, ci deriva proprio dalla qualità delle chiacchiere che si possono imbastire insieme a loro.
Ma non solo ancora.
A sua volta, la prova del nove della bellezza e della completezza di una “sessione” di chiacchiere, ci deriva dalla “reversibilità” applicabile a quel malloppo di parole fatte in compagnia.
Niente panico, l’I.N.P.S. non c’entra nulla.
Parlo di un gioco che non so se vi siete mai divertiti a fare. Ora che ci penso, anche io l’ho fatto poche volte. Perché è una cosa che deve nascere spontanea, senza pensarci su troppo e senza che nessuno di preciso la proponga.
Ma quelle poche volte che mi è successa, non è stato male.
Funziona così: serata con gli amici, birrette o vinelli diffusi (ovvio), ma gli amici devono essere d’infanzia o almeno di vecchia data, oppure di una data sufficiente per aver creato insieme un gergo condiviso. Per intenderci: amici coi quali hai una familiarità semantica tale che ti basta dire “bai” e ci si è già capiti al volo.
Quando ci si accorge che tante chiacchiere sono ormai andate in circolo con una loro sequela sconclusionata, si prova ad andare a ritroso seguendo il filo (spesso illogico) lungo il quale certi argomenti sono saltati fuori e si sono collegati fra loro.

Una delle più belle risalite fra le rapide chiacchieratorie che io ricordi, mi capitò 21 anni fa a Parigi.
“…Minchia!!!...” francesisticherà con eufemistico stupore il mio sbigottito lettore.
Lo so, è leggermente folle: non solo non saprei dire cos’ho mangiato ieri sera a cena, ma per di più mi muovo di casa ogni glaciazione e mezza, e salta fuori che mi ricordo di una vaccata del genere successa nei pressi della piramide del Louvre, col solo difetto che all’epoca non l’avevano ancora tirata su.
Va beh, ma questi sono dettagli. E poi non è che mi ricordo proprio ben bene tutto.
Ero insomma in vacanza nella capitale gallica con questo gruppo di amici.
Alloggiavamo in una sorta di piccolo quartiere studentesco che a distanza di oltre 4 lustri non ho ancora capito bene cosa fosse. Di giorno scarpinavamo come ossessi per monumenti e siti notevoli, sotto terra metà del tempo come talpe metropolitane. Dopo il tramonto, ci stravaccavamo sull’immenso prato sotto casa, con un boccione di vino nel mezzo, a sparare discorsi senza pretese.
Quella sera il ragionamento, dopo un bel po’ di indomite sterzate fra i meandri più strani della conversazione, era andato a parare sui personaggi pittoreschi del nostro paese.
Ad un certo punto, uno di noi disse: com’è che siamo arrivati a parlare di questo? E da lì rifacemmo tutto il percorso della nostra chiacchierata a ritroso. Come dicevo, purtroppo non ricordo bene tutti i passaggi, ma solo un paio.
Fra i personaggi del nostro paese ultimi citati, vi era anche una cara figura che sedeva fra i banchi del consiglio comunale. Era uno di quei “politici locali” così candidi anche dopo essere stati eletti. Nella fattispecie questa persona era stata tirata in ballo per il fatto che una volta, durante una seduta del consiglio molto intensa, era talmente preso dalla discussione in corso e soprappensiero, che grattandosi la testa con la mano che reggeva la penna, si era fatto un bel ghirigoro d’inchiostro sulla sua perfetta pelata.
Qui la memoria mi tradisce e mi mancano tantissimi passaggi di quella chiacchiera controcorrente.
Ma ricordo che ricostruimmo di essere giunti a questo episodio grazie al fatto che questo politico di casa nostra fosse un Socialista. E il discorso sui socialisti era venuto fuori a sua volta dall’aver io fatto cenno ad un buffo episodio capitatomi giusto quella mattina.
Mi ero recato alla “ritirata”, non senza essermi prima munito dell’irrinunciabile materiale da lettura per accompagnare l’atto (com’è mia abitudine da tempo immemore).
Dopo aver letto ed espletato (o meglio: letto espletando), avevo constatato, con grande senso di smarrimento, la momentanea non dotazione nel luogo preposto del necessario materiale cartaceo non scritto, ma altrettanto utile in quei frangenti.
Lo smarrimento tuttavia durò solo un attimo.
Attraverso un risolutivo sillogismo potei infatti giungere alla conclusione che, reggendo io in mano un foglio del Corriere della Sera, la carta scritta poteva “vicariare” benissimo le funzioni della carta non scritta.
E fu così che l’interessantissimo articolo che avevo appena letto (sulle vicissitudini del Partito Socialista all’epoca), si prestò egregiamente alla duplice funzione.
Così, alla fine di quella appassionante risalita della corrente del discorso, giunti ormai un po’ brilli alla foce scatenante di tutto il nostro parlare, io e miei amici ci divertimmo a constatare che quella chiacchierata, un po’ come questo scritto che vi ho propinato stasera, era stata proprio una gran chiacchierata di m….

giovedì 26 marzo 2009

mercoledì 25 marzo 2009

Pensieri oziosi all’ombra di un tiglio


«…Era lei la donna che volevo per essere chiamato col mio nome…» cantava qualche tempo fa il buon Angelo Branduardi, passeggiando là nella landa, proprio sotto il tiglio.
Questo verso potrà forse suonare alquanto banale, ma a me ha sempre “parlato” parecchio. Io non considero per nulla banale il fatto di essere chiamato col mio nome. E ancor meno scontato, con il mio cognome.
Pur disponendo di un nome e di un cognome del tutto ordinari (forse solo il cognome sfocia su un lieve sfumatura buffa), ci ho messo anni ad abituarmi all’idea di essere proprio io la persona che corrisponde a quei due suoni.
E anche adesso, devo dire, il biunivoco sostegno che intercorre fra il mio essere e quella sequela di sillabe non mi suona ancora poi così liscio.
«…Io sono quel suono lì…»: una considerazione del genere mi ha sempre lasciato dentro un gusto di estraniamento. Soprattutto da bambino.
Nell’atto del nominare è racchiusa forse una delle caratteristiche più profonde della nostra essenza umana. Non a caso, nella Genesi si narra come Dio concedesse ad Adamo il privilegio di dare il loro nome agli elementi dell’Eden:

…Poi Dio disse: «Non è bene che l'uomo sia solo; io gli farò un aiuto che sia adatto a lui». Dio, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all'uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l'uomo gli avrebbe dato. L'uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi; ma per l'uomo non si trovò un aiuto che fosse adatto a lui. Allora Dio fece cadere un profondo sonno sull'uomo, che si addormentò; prese una delle costole di lui, e richiuse la carne al posto d'essa. Dio, con la costola che aveva tolta all'uomo, formò una donna e la condusse all'uomo. L'uomo disse: «Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Ella sarà chiamata donna perché è stata tratta dall'uomo». Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne. L'uomo e sua moglie erano entrambi nudi e non ne avevano vergogna…

Dio è Uno.
E come tale non aveva bisogno di conoscere il nome delle cose, perché non c’erano altri Dei con cui fare due chiacchiere sul tempo o sulle sfumature della tinta dei fiori.
Adamo invece aveva bisogno dei nomi delle cose.
Di lì a poco sarebbe arrivata Eva e il fatto di “possedere” i nomi delle cose avrebbe dato alla coppia la speculare facoltà di “possedere” il mondo sintetizzato e comunicabile, nei e fra i propri cuori, nelle e fra le proprie menti.
Ma questo c’entra forse poco coi miei turbamenti di bimbo nominato. O forse c’entra. Boh…
In ogni caso, le sensazioni che mi pare di poter rilevare in merito sono due.
Una è che con il passare degli anni, un minimo di consolidamento della mia personalità sembra sia andato di pari passo con la crescente consapevolezza di essere proprio io quel tale che si intende quando sento chiamare “X Y”.
L’altra impressione riguarda invece più propriamente il periodo infantile e si è mantenuta tale negli anni. Quando consideravo (e considero) fra me e me il mio nome, preso come parola di per sé, mi faceva (e mi fa) due impressioni diverse, a seconda che lo pensassi (e lo pensi) “indossato” da me medesimo o da un’altra persona. Le vocali e le consonanti sono le stesse precise, messe nello stesso ordine sillabico spiaccicato identico, ma su di me oppure su di un altro, il mio nome lo sento diversissimo.
Il che mi offre la conferma di un’idea che mi è parso di intuire in diverse occasioni.
I nomi sono dotati di un loro aspetto “quantificabile” e di un altro più qualitativo, più inafferrabile e nascosto, quasi sacrale oserei dire. Oltre ad essere suoni che fendono l’aria o segnetti neri su fogli bianchi, i nomi posseggono una componente “genio-locale”, ossia assorbono il genius loci della persona o della cosa che sono chiamati a nominare.
E questo è proprio bello, se ci pensate bene.
Perché in questo modo ogni rosa è sempre una rosa, ma non è mai lo stesso fiore.
Così come ogni donna è sempre una donna, ma non è mai lo stesso condensato di mistero femminile.

martedì 24 marzo 2009

Tutti questi anni a chiedermi se vado veramente bene...



Una ragazza che sa parlare al mio "daimon" (...per dirla alla James Hillman...)

C'è una luce che non va mai fuori (...secondo me...)



No words required this time...

mercoledì 18 marzo 2009

Un colpo solo!


«…Come tutti gli scansafatiche, anche io volevo scrivere, ma i miei primi sforzi fallirono miseramente…».

What Am I Doing Here?
Bruce Chatwin - 1989

Ci sono scrittori che posseggono una grazia sintetica superiore.
Bruce Chatwin è uno di loro.
Ritrovandomi ad essere un "prolissoide" narrativo qual io sono, apprezzo simili maestri in modo particolare. Chi meglio di un assetato disperso nel deserto potrebbe infatti decantare la bontà di una sorsata d’acqua pura?
Pur non riuscendo a fare più di tanto per ovviare all’inconveniente, mi rendo conto che il mio barocchismo scribacchiatorio deriva dall’esser io spesso afflitto da ansia argomentativa.
Il grande narratore potrà anche essere la persona più insicura del mondo nella vita reale, ma quando prende in mano la penna è più freddo e spietato di un killer di professione.
Con questo non sto dicendo che il gran maestro di sintesi non sappia trattar di sentimento e di profondità emotive.
Tutt’altro.
La sua freddezza non riguarda i contenuti, che potrebbero essere i più passionali e caldi che siete capaci di immaginare.
No, non è di questo che vado cianciando.
L’impassibilità, lo scolpitore di frasi la sa invece applicare alla perfezione quando maneggia il mezzo espressivo.
Lo scrittore di razza prende in mano le parole con la sicurezza del sicario: dopo essersi appostato nel luogo ideale per colpire, si mette ad assemblare vite per vite, bulloncino per dadino, del suo fucile di precisione narrativa, fino a posizionarci in cima un cannocchiale ultra-preciso, mirando dentro al quale alla fine, di fronte allo stupefatto lettore, esplode la sua frase asciutta ed essenzialmente compiuta in se stessa, che una virgola in più o una in meno avrebbero comunque stonato.
A me succede un po’ tutt’altra cosa.
Assomiglio piuttosto al vecchio Lee Harvey Oswald, quel maledetto 22 novembre del 1963.
A volte mi apposto nel luogo sbagliato (leggi: prendo su l'argomento dalla parte sbagliata) e non mi accorgo che c’è una telecamera di sicurezza puntata proprio lì: gli sbirri (leggi: “lettori scafati”) dalla centrale operativa già mi vedono in pieno, prevedendo le mie intenzioni.
Allora mi agito, e per farmi capire che non mi appresto a sparare una cazzata, ma solo possibilmente una frase decente, mi metto a far premesse su distinguo, antefatti su ante-considerazioni, incisi precauzionali su ipotetiche giustificative.
Va a finire che nel montare il mio fucilino, per il timore di non aver detto mai a sufficienza, mi prende l’assillo di infognare concetti su concetti in ogni frase, un bullone mi casca nel tombino, ad una vite si frusta il filetto e la lente del cannocchiale si annebbia col fiatone che mi coglie tenendo in sospeso una frase chilometrica come questa.
Il narratore cristallino ha invece di bello che, tu abbia capito o no quello che intendeva dire, tu abbia colto o no la sua poetica, lui proprio se ne fotte.
Non nel senso che fa le cose a caso.
No, no.
Ma proprio perché è talmente sicuro della bellezza auto-sufficiente di quanto egli ha scritto che non si degna nemmeno di perdere un secondo ad abbassarsi a ragionare su questioni di infima lega come l’efficacia comunicativa o qualsivoglia altra forma di “captatio benevolentiae” scrittoria.

Quello che lui ha scritto semplicemente “è”.
Rifulge di vita narrativa interiore propria.
E non ci sono altre palle che tengano.


lunedì 16 marzo 2009

Che rottura di codici!!!


«…Vieni giù dal pero!!!…»
«…Vola basso e schiva il sasso!!!…»
«…Parla come mangi!!!...».
«…Frena, Ugo!!!… »
Vi è mai capitato, mentre eravate intenti a leggere un libro, a vedere uno spettacolo a teatro oppure ad ascoltare un brano musicale, di esclamare fra voi e voi una di queste espressioni, pescando a caso dal vostro “repertorio allegorico”?
Niente paura: se è successo così, non è che siete stati colti inusitatamente da gravi avvisaglie della sindrome di Davide Mengacci.
In misura molto più rassicurante, vi avrà forse preso un momentaneo moto di rifiuto nei riguardi della “sacerdotalizzazione” dell’arte.
Oppure, se volete vedere la faccenda da un’altra angolazione: quel tale artista alla cui opera vi stavate in quel momento avvicinando, vi aveva eccessivamente rotto i codici.

Ogni forma artistica comporta un addentrarsi nella dimensione del sacro: l’opera d’arte è un tempio al quale si accede con le modalità di un rituale celebrato dall’artista nelle vesti di sacerdote, di fronte ad un pubblico disposto nei pressi dell’altare.
La dimensione dell’arte introduce uno stato di sospensione rispetto al flusso comune dell’esistere: tra artista e pubblico si impone una complicità, un mettersi fra parentesi rispetto agli usuali termini del rapportarsi sociale, civile, umano in genere. E’ questo il sacro dell’arte.
In tal senso, arte e gioco sono modalità esistenziali situate in una speciale terra di nessuno, parallela rispetto alla vita reale ordinaria. Prima ancora della “suspension of disbeliefe” richiesta da certi tipi di narrazione, l’arte in genere esige una “suspension of life as we know it” (…ehm…non so se si è colta la R.E.M. citazione…).


Tuttavia, a differenza dei rituali in senso stretto, che comportano ripetitività di formule e linguaggi rigorosamente codificati, l’opera d’arte consiste in un rituale di tipo aperto.
Anzi, si può dire che l’essenza del rito celebrato dall’arte risieda proprio nella frattura dei codici comunemente accettati.
Cosa succede però quando questa frattura è eccessiva rispetto alla capacità del pubblico di assorbirla?
Interviene una sorta di rigetto artistico che può spaziare dai minimi di un atteggiamento di lieve fastidio, ai fasti di una vera è propria “ribellione estetica”.
Mi è capitata una cosa simile di recente.
Dato che un po’ mi conoscete, avrete già capito che nel mio caso non c’è stata gran ribellione, ma solo un soffuso cenno di pudico e rispettoso tintinnio di “maroni” leggermente appesantiti fra le gambe.

Avevo provato ad iniziare “La casa verde”, romanzo di Mario Vargas Llosa, scrittore che in altre sue opere, come “I quaderni di don Rigoberto”, “Diario di una ragazza cattiva”, “Pantaleon e le visitatrici”, “Zia Julia e lo scribacchino”, avevo apprezzato veramente tantissimo.
Ma stavolta non c’è stato verso di mandarlo giù.
Un misto di “stream of consciousness” e trovate sperimentali che fondevano narrato e dialoghi, con personaggi nuovi che sbucavano fuori da ogni dove senza la gentilezza di portare con sé uno straccio di presentazione, mi hanno indotto a valermi di quel diritto del lettore, sancito da Pennac, di abbandonare un libro al suo destino senza averlo finito.
La sacralità dello scrittore, in questi casi, pare ammantarsi della sacralità aggiuntiva dell’ubriaco (con tutto rispetto per lo scrittore e per l’ubriaco). Oppure del pazzo (rispetti e lodi pure a lui).
Cerchi di scuoterlo, di scrollarlo, di fargli bere caffè, per farlo uscire dal codice di incomunicabilità che il suo status di ebbrezza artistica ha frapposto fra te e lui.
Un po’ ti può aiutare andare a leggere cosa ti dice nella prefazione scritta appositamente a margine del romanzo per spiegarne il senso e le modalità espressive.
Ma è tutto inutile, perché se ti rincuori un attimo scoprendolo lucido e “giù dal pero” in quel frangente, non eviti il fatto di doverlo poi ritrovare perfetto nella sua forma ubriaca, sul ramo più alto del pero, quando ritorni alla narrazione romanzesca vera e propria.
Così, ben sapendo che lui è un narratore con la NARRA maiuscola e tu solo un piccolo lettore (con le ore minuscole), non ti resta che attendere un’altra epoca della tua vita, quando forse l’esperienza ti avrà fornito di quei codici necessari, o del vino adatto, per entrare in quel suo mistero estetico che per ora non puoi far altro che lasciar decantare fra le sacre faccende da ubriachi.


venerdì 13 marzo 2009

If the wind were colors / And if the air could speak



«...Ben ritrovati cari amici di "Radio OrsoAsociale", sono sempre io, il vostro DJ Scaracchione e questo è il nostro nuovo appuntamento con le dediche in diretta...chi abbiamo in linea?...»
«... Ciao caro Scarra ... ehm ... o devo chiamarti Chione? ... sono Orsetto42 ...»
«... Ciao vecchia suola!!! Come te la passi? ... è un po' che non ci si sente ...se non sbaglio, dai tempi del tuo pre-pensionamento spirituale ...»
«... Eh, sì ...ehm, già ... avevo appena finito la terza asilo nido ... bei tempi, già ... ehm...»
«... Allora, evacua subito la tua dedica!!! ...»
«... Ehm, ecco ... io ... insomma ... ecco ... ehm ... volevo dedicare, Uéndel Giii, una fantastica canzone degli Ar. I. Em., prima di tutto a me stesso e poi a tutti i miei pochi lettori che hanno lasciato un commento e infine, ma non ultimi, a tutti i miei pochi lettori che non hanno mai commentato ... volevo solo dire che vi voglio bene a tutti...e a'fangùl'a'gramattica!!! ..."

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"...That's when Wendell Gee takes a tug
Upon the string that held the line of trees
Behind the house he lived in
He was reared to give respect
But somewhere down the line he chose
To whistle as the wind blows
Whistle as the wind blows with me

He had a dream one night
That the tree had lost its middle
So he built a trunk of chicken wire
To try to hold it up
But the wire, the wire turned to lizard skin
And when he climbed inside
There wasn't even time to say
Goodbye to Wendell Gee
So whistle as the wind blows
Whistle as the wind blows with me

There wasn't even time to say
Goodbye to Wendell Gee
So whistle as the wind blows
Whistle as the wind blows with me
If the wind were colors
And if the air could speak
Then whistle as the wind blows
Whistle as the wind blows..."

Wendell Gee
R.E.M. - 1985


P.S.: I due versi evidenziati in grassetto, a mio modesto parere, sono così belli che quando la canzone giunge a quel punto, mi vien voglia di bestemmiare dall'estasi estetica e dalla felicità...va mo' làh!!! :-)
E per chi la volesse risentire visivamente micificata, eccovi accontentati:


martedì 10 marzo 2009

Lo spirito del gonghista


“…Sincerità-ha-ha-hà
un elemento imprescindibile
Che fa una puzza incalcolabile
puntando alla gassosità…”

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Andar per pensieri è un passatempo divertente, che consiglio a tutti.
Va beh, c’è di meglio, intendiamoci.
Ma metti che uno (o una) si trovi momentaneamente a corto di libri; metti che si trovi senza un bel letto molleggiato e la sua donna (o il suo uomo) nei paraggi; senza un cinema, un ristorante, una trattoria, una bisca clandestina, una “sala tombola”, un’edicola, oppure senza un cantiere di lavori in corso in tutto il rione; ecco allora che, a patto che gli siano rimaste almeno un po’ di fantasia e di voglia di giocare, quel tale (o quella tale) può svagarsi con soddisfazione al modico prezzo di due neuroni, andando allo stato brado dietro i suoi pensieri, facendo associazioni bislacche fra idee e creandosi le sue “cause-effetto concettuali” fatte in casa.

La cosa bella poi, è che il vero “viandante per pensieri”, come usa nella miglior pratica maialesca, del suo materiale pensato non butta via proprio nulla: neanche una frenata ad una rotatoria alle porte della città, andando verso il lavoro.
Questa rotatoria sta su un lungo rettilineo principale, con una sola strada meno trafficata che si immette da sinistra. Son quelle rotatorie che di solito vai lungo senza badare troppo a chi sopraggiunge. Ossia, ci badi, ma un po’ con l’occhio fluttuante ed il piede passerino sull’acceleratore, perché tanto l’ultima precedenza che hai dato lì ti è successa 6 mesi fa.
Stamattina evidentemente erano scaduti i 6 mesi, perché un furgoncino verde si è arrotondato bel bello tutto a mancina, ed una frenata decisa (anche se non stridente) si è resa necessaria.
Ed ecco che due secondi dopo aver levato il piede dal freno, mi ha folgorato l’idea dell’«essenza del gonghista».
Ora non so se nella realtà dei fatti sia o si chiami veramente così (più in generale dev’essere il “percussionista”).
Fatto sta che nel mio immaginario il gonghista è quell’orchestrale che se ne sta per tutta la suonata buono buono col suo martelletto cotonato in mano, fedelmente a fianco della gran patacca bronzea penzolante. Non emette uno straccio di nota, non muove un sopraciglio, ma ad un certo punto, magari proprio sul finire della gran sviolinata, è chiamato a piazzare la sua stoccata sonora, precisa e implacabile come il mezzogiorno in una mensa aziendale.
Lo stesso che la mia frenata nella rotonda semi-rettilinea.
Ora, se ci pensate un attimo, l’«essenza del gonghista» è un’immagine che metaforizza niente male certi frangenti esistenziali.

Sbooonnnggg - Fine primo tempo




Sbooonnnggg - Secondo tempo

Continuando da qui in avanti ad andar di pensiero in pensiero, mi è venuto allora da ricapitolare tutte le volte in cui nella mia vita mi è toccato confrontarmi con lo spirito del gonghista.
Ho dovuto così constatare che in tante occasioni, invece di un gong di stentorea e roboante precisione, mi è successo di rilasciare un cacofonico “rintronìo” asincrono di stoviglie, come se avessi dato una mazzata sulla pignatta di rame della nonna.
Di certo è successo all’esame di maturità.
Un tema dovevo fare. E un’interrogazione. Mica domare un leone, dovevo.
Il milleduecento - ventiquattresimo tema e la settecento - quarantaduesima interrogazione, dopo una serie ininterrotta di sufficienze guadagnate nel corso ordinario della mia vista scolastica.
Ma invece di fare “gong”, mi è uscito uno “sfuff” ammaccato nel tema ed un timido “ding” nell’interrogazione.

Quelli come me sono stati spesso gonghisti anche e soprattutto nei contatti con le gentili rappresentanti del femmineo emisfero dell’umanità.
Le donne vanno matte per il gonghista. Anzi, si può forse dire che nel tipo umano del gonghista risieda il carattere ideale del loro uomo dei sogni.
Magari sei una bravissima persona, ti ammazzi di lavoro dieci ore al giorno in fonderia, sei giorni su sette, fai volontariato, sei stimato e ben voluto da chi ti conosce bene, aiuti le vecchiette ad attraversare sulle strisce, hai donato 100 quintali di sangue all’Avis.
Vedi la ragazza che ti piace in discoteca, e sei lì che ti arrovelli sulla frase ad effetto che potresti dirle per attaccare bottone, quando ti passa davanti un “interdetto” che ha pagato il biglietto d’entrata coi soldi truffati a suo nonno, ha parcheggiato in terza fila il suo SUV smarmittato “Euro meno 2” con il bollo scaduto, ed è fresco fresco reduce da una pisciata fiume nei cessi della disco senza essersi lavato le mani.
E’ lì che il losco individuo sfodera davanti alla tua sempre meno ipotizzata preda (sul cui sguardo vedi nel frattempo crescere l’equivalente di una dichiarazione di amore eterno verso quel greve paradigma personificato di «interdizione umana») una battuta sfavillante che è un colpo di gong di rara efficacia seduttiva, con un riverbero di siffatta malia e pienezza armonica che non si sentivano da quella volta in cui il gonghista imperiale Minch Su’on Li Gong diede l’estremo rintocco all’ultimo “Gong supremo” della dinastia Ming, tre tonnellate circolari di oro massiccio, da allora in poi trasferite nella collezione di corte come esclusivo pezzo da museo.
E a te a quel punto cosa rimane da fare? Solo ordinare il secondo Negroni, meditando sul vantaggio di poter continuare con pochissimi patemi d’animo a portare i tuoi corti calzini bianchi senza mai sollevare la tavoletta del water, tanto la dura verità è che gonghisti si nasce, non si diventa.



lunedì 9 marzo 2009

Quando avevo la lana sulla pelle (…e il cotone nelle orecchie)


Quando si è giovincelli, parecchio giovincelli, si hanno tante idee confuse.

Una di queste idee in particolare, credo sia comune a tutti i giovincelli, nessuno escluso. Ricordo di esserne stato affetto pure io, anche se in misura non gravissima.
Parlo del gregariato, del pecoronaggio, della mania emulativa, della gratificazione che credi di ricevere in cambio, dal fatto di sentirti parte di un gruppo.
Per le mie caratteristiche umane, ho sempre faticato a legare con la comitiva di turno: la squadretta di calcio, gli amici del corso di pattinaggio o quelli della briscola al bar, la compagnia dei più bulli della classe o quella dei secchioni, ecc. Da giovincelli si indulge facilmente alla stupidità: pur di aggregarsi, ci si “ammastella” ovunque, senza badare agli schieramenti in campo.
Per il mio campagnolismo poi, le cose si aggravarono quando iniziai le scuole superiori in città. Basti dire che quando i miei nuovi compagni di classe mi chiedevano da che parte saltavo fuori, io rispondevo gentilmente, ma non crediate fosse una sensazione piacevolissima vedere dipingersi sui loro visi uno stupore sconfinato, come se, invece di aver pronunciato il nome del mio remoto villaggetto, avessi citato una sperduta località dell’Africa Nera.
Tale e tanta era (ed è tutt’oggi) la notorietà goduta dal mio paesello fra gli amici cittadinotti.

Insomma, fin qui niente di nuovo, sto parlando di un’esperienza probabilmente familiare a tantissime persone.
La cosa che mi ha invece leggermente esaltato oggi, andando per pensieri, è stato considerare come allora non mi rendessi conto di quanto fossi fortunato.
Ma come? Avevo il privilegio di poter rimanere distinto da aggregazioni banalizzanti varie, e quasi quasi, pure me ne dispiacevo? Ma che fesso che ero.
Non solo: non avevo nemmeno capito che il mio passaggio in città aveva comportato effettivamente una promozione in grado. Il mio paese, per quelli di città, “non esisteva”: quale miglior occasione per cogliere appieno tutti i vantaggi di una “fu-mattia-pascal-izzazione” della mia identità sociale?
Ma i primi barlumi di consapevolezza iniziavano a farsi strada in me proprio a quell’epoca. Da allora infatti, ad ogni mio rinnovato ingresso in nuovi micro-consessi civili (la compagnia del militare, quella dell’università e altre), mi sono sempre preoccupato con sommo scrupolo di aggregarmi agli individui più rigorosamente reputati come “perdenti” dall’opinione comune.
Ben conscio del fatto che venire sconfitti per eccesso di singolarità, di contro ad una “visione media” (per non dire “mediocre”) delle cose del mondo, è la migliore vittoria.

Ed oggi, laddove sento puzza di emulazione, olezzo di gente in competizione aggregativa al fine quasi univoco di escludere altri, se posso e se sono in grado, son lieto di ritrovarmi con gran soddisfazione perdente, scartato e felice.



domenica 8 marzo 2009

In fuga dal fattore "C"


"...Prima io son piccolo io
tocca a me giocare con te

sono lo sceriffo io
...
Tu sta zitto sono il capo dei banditi
...
Sono lo sceriffo io
...
Ma su Furia si sta anche in tre..."


Furia cavallo del West
Mal, 1977

Ieri mi sono messo a spolverare il mio vecchio portapenne e l'accozzaglia di cancelleria accumulata negli anni.

Viviamo nell'epoca della velocità, sento dire dai tempi in cui ero ancora un bambino.
Ma questa velocità mi pare sia più una proiezione mentale, una trasposizione immaginata facendo leva sugli strumenti mediatici accomunati dal fattore "C".
Non sto parlando della vitamina, ma della terza lettera alfabetoide così com'è intesa nella nota e rivoluzionaria tiritera matematica E=MC2 (so che il "2", per significare "alla seconda", dovrebbe stare piccino lassù in alto, a penzoloni della C, ma non sapevo come si digita...purté pasensia...).

Il telegrafo e poi il telefono, la radio, la TV e dopo il pc, con internet suo fratello e suo zio facebook: hanno la luce dentro e da quando sono apparsi, al nostro pensiero non è sembrato vero di aver trovato finalmente "qualcuno" che potesse stare dietro alla sua rapidità.
La fregatura è che la nostra anima continua ad andare tuttora ai due all'ora, com'è sempre andata dai tempi dei nostri cari bisnonni con la clava.
E rimani spiazzato, disorientato, quando continui a riscoprire con ostinata ricorrenza che per costruire un'amicizia o un amore ci vogliono anni, per diventare bravo in un mestiere ci vuole una vita, e per saper apprezzare il mistero di un luogo forse nemmeno una vita può bastare.
Si crea allora uno iato ingannevole e lunghissimo fra certi obiettivi sperati e l'illusoria celerità con la quale ci sembra di poterli raggiungere.
Che per fortuna, la lezione un po' l'abbiamo imparata, ma quel senso lieve di frustrazione, di inadeguatezza, in fondo in fondo al cuore, rimane sempre.

In questo modo è salutare, lenitivo, esistenzialmente balsamico (...immagine a rischio, lo so, confondibile con l'aceto, ma la lascio lo stesso...), mettersi lì a volte e porsi un obiettivo a brevissima scadenza, una robina veloce e pratica per la quale non si deve impegnare nemmeno un neurone e della cui portata a termine siamo perfettamente sicuri.
E' così che mi sono perso allora con la mente, spolverando le vecchie matite, le biro, i portamine, le gomme, i righelli, i temperini ed i loro contenitori.
Questi micro-compiti in fuga dal fattore "C", è importante che siano di carattere strettamente e banalmente pratico, perchè è proprio lì, nella semplicissima concretezza diretta, che puoi tornare a misurare l'effettiva velocità ancestrale dell'anima.
Ancor meglio se c'è qualche elemento naturale a mettersi di mezzo.
Nel mio caso, casualmente sono entrati in ballo il vento e il sole: mi sono affacciato alla finestra spalancata, posando tutte le mie robine sul davanzale, e una brezza dall'intenso odore di primavera mi ha aiutato a disperdere tutta la polvere nella luce.
Voi direte che mi accontento davvero di poco e che ho avuto pure un'infanzia infelice, ma io vi garantisco ed insisto che in quei dieci minuti-un quarto d'ora che sono stato lì a scrollare i segni del tempo dai miei antichi ammennicoli scolastici, me la sono proprio goduta un mondo.
E nel farlo, pensavo al tempo che ci vorrà ancora perchè la polvere torni ad accumularsi su quegli oggetti con sufficiente copiosità, pregustando già il momento in cui dovrò tornare a rispazzarli.
Ma per quella non c'è fretta, mi sono detto: ad aspettare la polvere, io sono bravo.


mercoledì 4 marzo 2009

Single sarà tuo nonno!!!


Half of what I say is meaningless
But I say it just to reach,
Julia…
The Beatles, 1968



“Vuoi conoscere dei single della tua zona?”.
Gironzolando per internet mi è capitato di leggere questo avviso, che mi ha provocato un lieve “fastidio narrativo”.
A parte che è forse la peggior forma di approccio pubblicitario che mi sia capitato di leggere da tanto tempo a questa parte, nella frase sono anche contenuti alcuni pretesi presupposti sul mio conto che non si devono assolutamente permettere di pretendere di presupporre.
Prima cosa: ma quale “zona”?
Io non ho “zone”, non sono mica una lepre o un fagiano da ripopolamento.
Se per zona si intende il circondario in cui bazzico solitamente, anche qui siamo fuori tiro alla grande. Questo parlare di “zona” mi puzza infatti molto dell’idea tristissima di sabati o domeniche pomeriggio buttati via nella labirintica futilità di un outlet, o nella consumata prospettiva “a-spirituale” di un ipermercato, magari dopo aver fatto una bella coda su una tangenziale, con la lucida determinazione di un guard-rail a dettare l’al di qua delle barriere del nulla.

Ad ogni modo, passi pure la faccenda della “zona”, ma se mi propongono incontri con single, credo che venga dato per scontato, come “condicio sine qua non”, l’essere single io stesso a mia volta.
Ma single a chi? Single lo vai a dire a tuo nonno.
Non voglio essere per niente confuso con quelli che si definiscono in questo modo, quasi dando per sottinteso che alla parola “single” vada aggiunta l’inevitabile coda “per scelta”. Io non sono affatto single, io sono proprio un asociale sfigato coi fiocchi (che volendo è cosa ben più nobile ed eroica). Ma soprattutto: non ho scelto esattamente una cippa di nulla, “…ma manco paa’ càpa…”.
Vi pare che se avessi potuto scegliere di passare il mio tempo con la “Donna Della Mia Vita”, avrei scelto di stare da solo? Va bene tutto, va bene auto-prendersi per il culo con le parole, va bene averci scritto “Jo-Condor” in fronte, ma “single”, e tanto meno “per scelta”, proprio non me la sento di definirmi. Portate pazienza, ma è più forte di me.

E non è finita qui.
Perché la mia “puzza-semantica-sotto-il-naso” è capace di sfiorare vette inusitatamente inimmaginabili: «…vuoi conoscere “dei” single…?»…
«…“dei” single…?»…
Ne vogliamo parlare di quel “dei”?
Se mi dici “dei”, significa che hai intenzione di coinvolgermi in un ragionamento un tanto al peso: “dei single”…Quanti? Mah, un 35 o 36 quintali di single…così, magari, sparando nel mucchio, quella o quello buono per te, lo azzecchi.
E poi, conoscere cosa? C’è gente che sta insieme per una vita intera, e dopo ogni giorno trascorso, si rende conto sempre più di conoscersi sempre meno, e te mi vieni a parlare di “conoscermi” con “dei single”…sì, magari un sabato pomeriggio, all’outlet, dove ci possiamo dare l’appuntamento per ritrovarci la domenica seguente, all’ipermercato…

Insomma, per avere una minima speranza di indurmi a cliccare su quel banner, forse avrebbero dovuto scriverci: “Ti va di fare due chiacchiere con una sfigata senza radici a questo mondo?”.