giovedì 31 dicembre 2009

Discorso ai gillipixiani


Cari amici viandanti per pensieri, anche stavolta è giunto il momento del mio discorso ai gillipixiani.
In qualità di presidente di Gillipixiland, uno Stato che mai non è stato ma sempre sarà, mi sento in dovere di fare il ciuffo con qualche vaccata di fine anno alla valanga di spropositi con la quale vi ho investito durante questo 2009.
Facendo dell'estetica numerologica a basso costo, avevo riflettuto a suo tempo su quella zampetta posta sotto il numerino terminale dell'anno che stiamo per salutare.
Il "9" di coda, con quel suo piedino, che dai più maliziosi poteva anche essere visto come altra propaggine anatomica dalle ben più minacciose implicazioni, metteva quasi in guardia nei confronti di eventuali sgambetti, o nel peggiore dei casi, avvertiva che sarebbe stata cosa fortemente rischiosa, abbassarsi a raccogliere la saponetta nel corso dei 365 giorni ai quali stiamo dando il commiato oggi.
Col senno di poi, debbo dire che per me il pronostico non si è poi rivelato così fuori dal mondo: un paio d'entrate a gamba tesa il 2009 me le ha riservate, e per essere franco fino in fondo, ha pure cercato di farmi posizionare in alcune occasioni sulla "novantiera" (non posso spiegare bene nei dettagli che cosa sia, perchè non ho attivato il filtro "adults only", ma penso si immagini bene ugualmente...).
Ora, questo 2010, numerillicamente parlando, mi pare si presenti con un musetto più simpatico. Ha una sua simmetria paciosa e rotondetta, che fa pensare a faccende intime e familiari. Voglio esagerare, ed aggiungo che si profila quasi con fattezze da anno materno e femmineo, grazie alla gradevole matrioskalità del 10 che si attaglia con giustezza formale dentro l'accogliente capienza del 20.
Potrebbe dunque essere un anno fecondo di bellezza, questo che ci si para innanzi: starà un po' anche a noi tuttavia saperla scovare laddove essa si nasconde, magari in luoghi impensati ai più, ma sempre alla porata del viandante per pensieri che sappia lasciarsi cogliere dallo sprovveduto candore della propria fantasia.

Ora vi saluto, care amiche ed egregi amici, lasciandovi con un caloroso a risentirci presto e augurandovi un anno ricco di tante mirabolanti forzature di concetti: fate all'amore ogni qual volta ed ogni qual quando avete occasione, con una donna, con un uomo oppure anche da soli.
Con i più cari auguri anche da parte del mio sasso perfetto al 100%.



lunedì 28 dicembre 2009

Vademecum del pigro sereno


Questo periodo di festività, più o meno accompagnato da giornate di ferie aggiuntive, può trasformarsi, volendo, nell'habitat naturale del pigro professionale.
Si fa presto a dire "pigro" però.
Uno non immagina le insidie che, durante siffatti momenti dell'anno, gravano sull'onesto fannullone ben deciso a godersi i suoi stra-meritati momenti di "beata-mazzismo" libero e disinteressato.
Una delle minacce più perniciose per il pigro si nasconde dietro ai sensi di colpa.
L'aspirante scansafatiche deve infatti fare i conti con la pletora di pan-attivismo diffuso per il mondo. Tale disposizione mentale efficentistico-produttivista impregna l'atmosfera di questi nostri tempi in maniera così marcata da dare quasi l'illusione di esistere da sempre, di essere quasi un elemento connaturato alla realtà.
Ma non è stato sempre così. Ci furono epoche in cui l'uomo non viveva per lavorare, semmai il contrario. Anche se va precisato che ad addentrarsi troppo fra i miti della vagheggiata Età dell'Oro si finisce per far compagnia, accovacciati fianco a fianco, a coloro che vivono sperando.

Sta di fatto che il senso di colpa cagionato dal non far nulla, del tutto distolti dal coro degli iper-operanti, è uno dei nemici più ostinati dei pigri.
In letteratura sono noti casi di fior fior di pigri, con tanto di laurea in Oziologia conseguita "Maxima Cum Fiacca" alla "FanKazz University" di Lazyville, che avendo trascurato di approfondire le sfumature del fondamentale testo "Storia dei sensi di colpa: da Adamo a Clemente Mastella", si sono ritrovati a vestire i panni di amministratore delegato della "Slave and Frustrating Brothers", rinunciando per il rimorso a sabati, domeniche, ferie e feste in generale, vita natural durante .
Come difendersi allora?
Quel che serve è una piccola rivoluzione copernicana: bisogna ribaltare il punto di vista sulla questione.
Se stando a casa in ferie a praticar la vostra immacolata minchia di nulla, un sentore coscienziale di sottofondo vi rode l'anima, inducendovi a rammentare (quasi a respirare nell'aria) il gran lavorio efficentistico che permea l'antroposfera tutt'intorno al globo terracqueo, provate a vedere la cosa da questa angolazione: ben rintanati in casa, muovendovi il meno possibile, contribuite a tener basso il livello di entropia universale.
In fisica mi sono sempre barcamenato male, stazionando spesso sulla soglia che separa il cinque dal sei, ma se non bestializzo troppo, mi pare di ricordare che per il secondo principio della termodinamica, ogni volta che c'è una trasformazione di materia da uno stato ad un altro, con relativo impiego delle forze necessarie, il saldo finale di energia risultante fa marcare un ammanco, un deficit.
Questo debito d'energia, raccontato proprio in linguaggio para-scientific-cagnoso, è l'entropia.

Da casa, pigri, non produrrete trasformazioni di sorta e dunque nemmeno entropia. Per quel giorno non si formeranno merci provocate da voi. Non causerete neanche scartoffie o burocrazia, alle quali si accompagna una delle forme più moleste di entropia conosciuta. Non si vuoterà la vostra porzione di serbatoio quotidiana, e se usate i mezzi pubblici, è vero che avranno transitato ugualmente, ma privati del vostro peso, anche pur per una minima parte, avranno consumato meno risorse.
Ma soprattutto, non causerete "entropia socio-emozionale".
Non sprecherete fiato e neuroni in discorsi di circostanza di cui non vi potrebbe fregare di meno, magari anche fatti con persone di cui vi può fregare solo leggermente di più.
Non farete sfumare via forze socializzanti, stritolandole nei formali rapporti lavorativi, nei contorti quanto dispendiosi ingranaggi gerarchici capo-dipendente, impiegato-collega, padrone-sottoposto, and so on.
Non cadrete nella rete di perigliosi quanto vani colpi di fulmine o innamoramenti pluri-platonici, lasciando sospeso a turbinare nell'aria un quantum d'incombusta vis erotica, pronta per essere colta e bruciata più proficuamente dall'altrui passione, oppure dalla vostra stessa, in un giorno futuro più proficuo.

Ecco allora che il pigro, complice una piccola giravolta di prospettiva, dal patir sensi di colpa, si ritrova di colpo a goder sensi d'orgoglio.
Da mancato contributore dell'incremento del "patrimonio oggettivo" comune, con la sua giornata di lavoro non vissuta, ecco il pigro tramutarsi in dispensatore di energia fisica e spirituale, scampata, grazie alle sue proficue ore d'ozio, dal misero scivolamento lungo lo scarico agevolato dallo sciacquone entropico. Ecco il pigro divenir benefattore che elargisce il suo piccolo tesoro di energia non bruciata e lasciata circolare indenne per il mondo, a disposizione degli altri.

Dunque, egregio lettore, la prossima volta che incapperai in un pigro, non biasimarlo: ricorda che se quel giorno la tua stupenda storia d'amore potè aver inizio, lo devi un po' anche a lui, che standosene a casa a far nulla, evitò di andarla a sprecare al vento, in attesa di più fortunate predisposizioni entropiche.




domenica 27 dicembre 2009

venerdì 25 dicembre 2009

Finding my religion


Il significato che la Bibbia riveste per coloro che credono, non c'è bisogno che ve lo venga a raccontare un sottoscritto gillipixante qualsiasi e qui presente.

Le mie competenze si rivelano deficitarie, e bislacche anzichè no, già per quel che concerne il capitolo dell'al di qua. Figurarsi se mi permetto di andare a discettare sull'al di là. Ho il massimo rispetto per la religiosità di chicchessia, purchè si tratti di religiosità a sua volta rispettosa dell'altrui libertà di pensarla, anche di pensare superflua ogni religiosità.
E già qui ci sarebbe da ingabolarsi in una disputa spinosa, perchè se c'è un tratto che accomuna le religioni in qualche modo "istituzionalizzate" è proprio la loro tendenza a voler convertire chi ancora non crede, una sorta di esclusivismo del credo proprio.
Ma come dicevo, non è mia intenzione addentrarmi in siffatte sottigliezze teologico-dottrinali.

Una mia religiosità credo di averla pure io. Come ogni cosa che mi riguardi, anch'essa è un guazzabuglio che si fa prima a rinunciare a capirci qualcosa.
La mia religiosità io la vedo come un mosaico spiritual-culturale continuamente in itinere, un quadro mai finito, al quale aggiungere chiazze di colore ogni giorno che passa. La mia religiosità non consiste nella pretesa di un prodotto acquisito, bensì in una ricerca sempre rinnovata.
La mia religiosità è fatta (o perlomeno "cerca" di essere fatta) di quotidiana costruzione di stupore, verso le persone, verso gli esseri in genere, verso l'essere globale e le cose tutte.

Però qui si divaga.
Dicevo della Bibbia.
Per acclarata incompetenza mia, lascio da parte dunque il fatto che si tratti soprattutto di un libro di fede. Fatto ciò, ci rimane in mano sempre un libro bellissimo. La "God's Inc. Press & Supernatural Facts" è una casa editrice che si è sempre servita di autori coi fiocchi. Se non fosse una battutaccia, mi scapparebbe quasi detto che se non era gente che scriveva "da Dio", non ne voleva nemmeno sentire parlare.
Così capita spesso, prendendo in mano la Bibbia, di incappare in brani che sono una vera beatitudine per il proprio senso estetico. Ripeto: al di là del fatto di fede. Parlo di un punto di vista meramente letterario, culturale, che sfocia inevitabilmente nell'artistico-filosofico.
Sono perfezione fatta linguaggio, questi passi. Ci donano la conferma di quanto "parola" e "uomo" siano due entità simbiotiche ed operanti in vicendevole legittimazione: la parola "crea" l'umanità non meno di quanto gli esseri umani creino parole.
Ma qui è tempo di tacermi. Qui è tempo di lasciar voce alla bellezza:

«In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio.
Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta.
Venne un uomo mandato da Dio
e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce,
ma doveva render testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente,
ma i suoi non l'hanno accolto.
A quanti però l'hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali non da sangue,
né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli rende testimonianza
e grida: "Ecco l'uomo di cui io dissi:
Colui che viene dopo di me
mi è passato avanti,
perché era prima di me".
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto
e grazia su grazia.
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno l'ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito,
che è nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato».

Vangelo secondo Giovanni - Prologo



- Micheal Stipe -
l'unico essere umano di sesso maschile
che avrei anche potuto sposare :-)


giovedì 24 dicembre 2009

Una specie di auguri

Cari amici blogger e non; lettori o semplici avventori dell’osteria “Andarperpensieri”; commentatori appassionati ed osservatori sbigottiti tutti….come si sa, non sono molto pratico degli aspetti cerimoniali della vita: faccende quali socializzazione, relazioni pubbliche ed ammennicoli similari, le mastico proprio poco…
Ho anche spesso ribadito che tutto questo augurarsi di su, buon-natalarsi di giù, felice-anno-nuovarsi di là, lo trovo sempre piuttosto vacuo, simil-surreale e svagatamente “scroto-costrittore” (parafrasando il buon Yossarian, non m’invento un “caxxo rubro”: questo neologismo è presente niente meno che nell’«Ulisse» di Joyce: “…Il mare scrotocostrittore. Epi oinopa ponton. Ah, Dedalus, i Greci. Ti devo erudire. Li devi leggere nell’originale. Thalatta! Thalatta!...”).

Ma c’è un ma. Ed è che non solo mi sono affezionato a voi, ma ne vado proprio fiero. Mi piace da matti questa storia, anche se è del tutto virtuale.
Controllare ogni giorno l’elenchetto blogrollante delle vostre sfavillanti riviste digitali, per vedere se ci sono novità, nutrirmi delle vostre idee, gustare la vostra compagnia narrativa, sono divenute per me in questo annetto e mezzo piacevolissime abitudini.
Per non parlare di quando vi va di lasciare un commento; della smania scribacchiatoria che mi piglia le volte che mi pare di aver avuto un’idea degna di essere condivisa con voi; della goduria gustata mettendo per iscritto tutte le follie più strambe che mi passano per la capa.

- INTERVALLO -
Natale a Gillipixiland

Così, vai per pensiero che ti rivado per concetto, alla fine mi è venuta in mente questa lungimirante conclusione: farsi gli auguri per le feste è attività che va svolta a mente assolutamente sgombra. Va fatto senza chiedersi una minchia di perché, né una cippa di per come. Lo si fa e basta, senza pensare a nulla. E’ un po’ come mangiare o bere, baciare o fare l’amore, respirare o scor…ehm, scorgere il primo raggio di sole sotto la frangia dell’aurora...
Insomma, per fare gli auguri di Natale, bisogna mettere da parte la testa e lasciar fare tutto il lavoro a polmoni, cuore e pancia.
E così, ecco qua, amici: Buon Natale a tutti, mangiate il giusto, bevete il giusto, ma soprattutto amate il giusto (per i maschietti, meglio “la giusta”, via…), perché ricordatevi sempre, come diceva il buon Sir Paul Macca De Li Meccarty: «…and in the end, the love you take is equal to the love you make…».



martedì 22 dicembre 2009

Nasdrovie, tovarish Silvestrozky!


Anche se all’epoca della mia fanciullezza la questione non mi sarebbe mai passata per la testa, avrei forse dovuto capire fin da allora che il muro di Berlino era destinato a cadere, solamente facendo un confronto fra i cartoni animati occidentali e quelli di oltrecortina.
Giustifica
Il marxismo ha estrapolato tante teorie affascinanti, che sono andate a rimpinguare degnamente la cornucopia dello scibile umano. Tuttavia era ignaro di essere atteso al varco da una buffa nemesi ludico-storica.
Pur avendo posto le basi teoriche anche di un tema così spettacolare come il concetto di “cultura materiale”, le suggestioni esistenziali scaturite dal pensiero del barbone di Treviri non sono mai riuscite a tenere in conto che quando un gatto “di cartone” insegue un topo a sé consustanziale, e si schianta intorno al buchetto della tana “salva-roditore”, le conseguenze tangibili che anche “filmicamente” ne derivano, debbono seguire leggi ben precise.
“Quelle” leggi, e non altre possibili.
Tali “leggi” nei cartoni americani le puoi “degustare” a tutti gli effetti, come se fossero state succhiate direttamente dalla vita più viva. I vecchi cartoni dell’est possedevano invece una presa sulla realtà pari a quella espressa nel dormiveglia da un idealista alticcio e un po’ svanito.
Ci sono certi passaggi, certi dettagli, certe sfumature negli episodi di Silvestro, Bugs Bunny, Will Coyote o Tom & Jerry, che rivelano una sensibilità verso il reale talmente fine da poter essere equiparata, absit iniura verbis, agli affondi nella femminea ciccia marmorea praticati dalle affusolate dita di un Apollo plasmato dal Bernini o di un Amore del Canova.
Il grande discrimine storico-ideologico-filosofico fra i due mondi separati dal Muro, mi piace insomma riassumerlo tutto in questa bislacca sintesi cartoonesca a priori.

Il “blocco occidentale”, sulla base di una secolare stratificazione empirica, “sapeva” che sbattendo il muso contro il Muro, ci si fa male. Il “blocco orientale” partiva invece già con la pretesa di andare a sbattere contro il Muro, teorizzando tuttavia che non ci si sarebbe fatti male, e persistendo nella propria convinzione anche dopo il cozzo, giurando e spergiurando che i 10 punti sul labbro inferiore e l’osso del naso rotto erano solo un momentaneo incidente di percorso in cui era incappata la realtà, non il proprio grugno.

Il successo che continuano a riscuotere anche a tutt’oggi i cartoon americani è la prova provata di tutto il mio impianto dimostrativo sproloquiale.
Topini-cuochi (Ratatouille), umanizzate scatolette-robot di latta (Wall-E), automobiline antropomorfizzate (Cars), insetti-persona di ogni genere, grado e personalità (Bee movie, A bugs life): la fantasia dei cartoonist USA non conosce limite, non si ferma di fronte a nessun soggetto, riuscendo a far germogliare empatia a bizzeffe da qualsiasi simulacro del reale animato o inanimato, infondendogli una rispondenza alla concretezza del vivere che non può fare a meno di suscitare le forme di stupore più partecipate da parte dello spettatore.
Parlo del saper cogliere la purezza più pura di un sorriso o di una qualsivoglia espressione del viso, oppure del saper rendere certe movenze o dettagli della quotidianità con efficacia plastica talmente lampante, in quanto rintracciabile da parte di ognuno nella propria esperienza diretta di ogni attimo di tempo vissuto, di ogni cm. di spazio misurato.
Sarà stato anche per questo che alcuni cartoni del “vecchio est”, con quel loro ipnotico e bigio fascino “bizantino-sovietizzante”, potevano essere amati solo da bimbetti flautatamente malinconici e sognatori in solitaria, come me. Di personaggi ne ricordo solo due, in particolare. Ma vi assicuro che come “densità mnemonica” bastano e avanzano.
Uno è “La Talpa”, o “Krtek”, che per ironia di una sorte “spara-freddure”, nemmeno a farlo apposta, era un cartone animato Ceco. L’altro è il leggendario Gustavo, superba produzione degli ungheresi «Pannonia Films Studios».
Focalizzo l’attenzione sull’ineffabile Gustav, perché è la vera e propria icona della guerra fredda cartoonesca versione “al di là del muro”. Date un’occhiata (se ve la sentite!!!) all’episodio che vi riporto qui sotto, e forse riuscirò meglio a spiegarmi:



Gustavo, quando tocca le cose, quando si muove, quando guida la sua macchinina di regime standardizzata, quando usa ogni utensile utile alle più piccole cosette quotidiane, non fa nulla di tutto questo con “connotazioni empiriche”. Gustavo tocca le cose burocraticamente, si muove burocraticamente, affronta la quotidianità burocraticamente, respira, gesticola e bofonchia burocraticamente.
Mentre alle spalle di Silvestro, Titti, Braccobaldo, Ernesto Sparalesto & Co. si assapora la lunga ombra della potenza di Walt Whitman, la scaltrezza esistenziale di Mark Twain, l’asciuttezza espressiva di Hemingway, dietro Gustavo si profila per intero la “rivoluzionarietà” poetica di Vladimir Vladimirovic Majakovskij, spunta tutta l’utopica “castell-in-arietà” delle “sculture architettoniche” costruttiviste di Tatlin o dei dipinti di Malevic, fa capolino addirittura l’eresia dissimulata di un Kafka grande “scopritore” dei risvolti onirico-burocratico-grotteschi dell’esperienza umana affondata in questa valle di paradossi.

Da una parte, dunque, la mia ammirazione estetica è sempre andata alla perfezione empirica dei personaggi americani. Però osservandoli un po’ con quello spirito riservato ai compagni di scuola primi della classe, bravi, geniali, per carità, ma anche un tantino stucchevoli nella loro “secchioneria”.
Per altri versi invece, il mio cuore ha battuto forte soprattutto per il candore nostalgico del “nuvoloso” Gustavo, con lo stesso senso di simpatia tenuto in serbo per l’amico un po’ bonaccione, sempre relegato al primo banco, quello a cui tutti rubavano la merendina e sparavano chicchi di riso sul “coppino” (trad.= nuca) durante l’ora di religione.
Insomma, cosa aggiungere ancora? Niente, salvo affidarmi alla saggezza visionaria del buon vecchio Jim che sempre ci rammentava: «…The west is the best…the west is the best...get here and we’ll do the rest!…».


domenica 20 dicembre 2009

A me stesso




Questa me la voglio proprio dedicare!

martedì 15 dicembre 2009

Se potessi avere 20 ore di volante al mese...

Foto-ammasso di Gillipixel

Ogni mattina, per spostarmi da Gillipixiland alla città, mi sciroppo mezz'ora di automobile. Più precisamente, 30 minuti a bordo della mia 313 GT.
Altra mezz'ora ovviamente mi ci vuole per fare rientro a Gillipixhome. Sessanta minuti al giorno, fanno cinque ore di auto a settimana lavorativa. Nel trentello canonico dei dì, sono 1200 minuti guidatorii, che è come dire 20 ore mensili.
Facendo poi un conticino generale, ci vuole poco a dedurre che la doppia decina oraria ad ogni spogliarello di luna, mi si tramuta nella bazzeccola di un bel dieci giorni all'anno trascorsi attaccato ad un volante (che sarebbe come dire: 20 h x 12 mesi = 240 h / 24 h = 10 gg).
A considerarla bene, la cosa mi ha fatto abbastanza impressione. Quanti istanti della mia vita buttati fra le verze, così, senza costrutto...
E pensare che quei momenti li potrei spendere a giocare coi miei figli...se avessi dei figli.
Pensare che potrei godere della compagnia di mia moglie, in quegli attimi...se avessi una moglie.
Quei minuti rubati, li dedicherei con molto più diletto alla mia fidanzata...se fossi findanzato.
Insomma, quegli istanti li potrei trascorre nel mio chalet in montagna...ad averne uno.
Invece del volante, durante quelle ore bruciate, potrei impugnare il mio ferro numero 1, per un perfetto drive capace di aprirmi un agevole percorso sino all'ultima buca...se sapessi giocare a golf e il club più vicino non fosse a mille miglia da Gillipixiland.
Potrei persino tenere un corso di filologia romanza, invece di buttare via il mio tempo in quella scatoletta di lamiera...se solo avessi una mezza idea di cosa minchia è la filologia romanza.

Va beh...per fortuna che a tenermi ancora un po' in contatto con il consorzio umano, c'è la 313 GT!





Don't worry a-bout a thing, 'cause ev-ry little thing gonna be all right.
Singing': "Don't worry about a thing, 'cause ev-ry little thing gonna be all right!"

Rise up this mornin'; smiled with the risin' sun.
Three little birds pitch by my doorstep
Singin' sweet songs of melodies pure and true; saying,
"This is my message to you-ou-ou.”

Singin': "Don't worry about a thing, ‘cause ev-ry little thing gonna be all right."
Sayin': "Don't worry about a thing, ‘cause ev-ry little thing gonna be all right!"

Rise up this mornin'; smiled with the risin' sun.
Three little birds pitch by my doorstep
Singin' sweet songs of melodies pure and true; sayin',
"This is my message to you-ou-ou."

Meanin': "Don't worry about a thing, worry about a thing,
oh! Ev-ry little thing gonna be all right.
Singin': "Don't worry about a thing" - I won't worry!
‘cause every little thing gonna be all right."

Meanin': "Don't worry about a thing, ‘cause every little thing
gonna be all right" - I won't worry!
"Don't worry about a thing, ‘cause ev-ry little thing ‘sgonna be all right."

(Baby) Don’t worry about a thing,
'cause ev’ry little thing gonna be all right.

venerdì 11 dicembre 2009

Il dottor Stranospammo


Qualche tempo fa vi avevo parlato dello spamming come discreta fonte per divertirsi con poco. E' vero che non sempre la “messaggistica selvatica” offre spunti degni di nota, ma se si ha un po’ di pazienza, prima o poi una discreta chicca la si pesca.

Una cosa buffa l'ho notata.
Lo spirito che contraddistingue il criterio di reclutamento del pollo medio da spammare è concettualmente improntato alla più verace atmosfera da osterie stile “Gigi er trojone”, “Dagli incivili”, “La parolaccia” o simili.
L’unica variante è che invece di accoglierti con un pittoresco “eh benvenuti a ‘sti frocioni”, lo spammaro dà praticamente per scontate le peggiori condizioni esistenziali immaginabili per te. Come minimo sei un morto di fame dal candore piuttosto marcato, per lo spammaro. Infatti ti offre fantastici lavori con guadagni da sogno, stando comodamente seduto a casa ad infilare perline per collane facilmente piazzabili sui mercati delle isole della Gonzonesia.
Per lo spammaro, come minimo, mangi pane e sfiga a colazione, pranzo e cena.
Infatti sta sempre lì a preoccuparsi della tua situazione sentimentale, proponendoti stuoli di ragazze d'oro, tutte rigorosamente bionde, occhi azzurri, 1 e 80 per 90-60-90, che non vedono l'ora di maritarsi con te, correre a casa tua a lavar piatti e stirare camice, facendo la calza davanti al camino e la sfoglia per i tortellini tutto il resto del tempo che non si passa a scopare...il pavimento insieme.

Ma quello che proprio allo spammaro fa piangere il cuore come un tralcio di vite tagliato, è saperti "tiroleso". No, non mi riferisco a particolari specificazioni geografiche. Tirolo e dintorni altoatesini non c'entrano nulla. "Eso" ho scritto, "eso", non "ese".
Che poi "tiroleso" non sarebbe nemmeno il termine più preciso. Meglio dire che lo spammaro si duole fortemente se ti sa "ipo-tirante", se gli giunge leggenda del fatto che non raggiungi col fulgore necessario la soglia minima sindacale della possanza virile.
Lui ci sta proprio male.
Alla ferale notizia, ecco allora lo spammaro che si fa in quattro con generosissime proposte di spammarti tutto col suo "iper-tirante" unguento magico a prezzo modico. Lo spammaro non vive per il vile guadagno. Se ti propone le sue offerte, è solamente per recuperare un minimo di regolarità nel sonno. Infatti non ci dorme la notte, pensando a te e ai tuoi piccoli o grandi problemi idraulici.
Lo spammaro si attiva con il solo scopo di restituire a te e alla tua donna la felicità dalla quale siete stati momentaneamente deviati, causa il pernicioso influsso del logorio della vita moderna (...ssshhhttt! Nessuno si azzardi a tirare fuori doppi sensi a base di carciofoni e simili!).

Sentite dunque con quale fremebondo coinvolgimento mi ha scritto oggi il mio spammaro di fiducia...sentite come si preoccupa per me:

***

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Le opinioni dei nostri clienti:


- Il sesso porta piu soddisfacimento. Lo stress e la tensione sono spariti. Lei non si rattrista più, ora io non temo, che saro costretto a negare. E' una sensazione fisica sbalorditiva, dopo la quale segue lo stesso sentimento profondo.
- La cosa migliore del Vi è la sicurezza della possibilità di «volare con autopilota», rilassandosi e senza la necessità dell’entrare nel merito di quel fatto, che il pene continua a trovarsi in posizione verticale, anche quando tu sei interrotto (i figli battano alla porta della camera da letto, il cane abbaia, il preservativo scivola). Quando prendi coscienza del Vi, questo puo anche stare un grande regalo per la compagna. C’e solo un consiglio: non le dica, che lei prende il Vi: l’apprezzamento di se' stesso femminile è anche molto suscettibile.

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***

Oh, come sei caro, solerte spammaro! Subito in apertura, già mi rassicuri: insieme a te, affidati alle tue mani premurose, si è sempre in "regime di online"...sia ringraziato il cielo!!!
E quali sentori di saggezza senza tempo promanano dalle sfavillanti parole dei clienti da te già spammati con enorme loro soddisfazione.

"...Lei non si rattrista più, ora io non temo, che sarò costretto a negare...".
Oh qual tenero istinto innato, quale sensibilità...anche se non mi è ben chiaro quale sia il fatto da negare: già lo sapevano anche i latini che "excusatio ripetuta, non tiratio manifesta...".
Va beh, ma non sottilizziamo ed immergiamoci senza soluzione di continuità in questo rutilante fuoco di fila di testimonianze sull'armonia di coppia riconquistata.
Lo spammaro ti offre niente meno che la "...possibilità di «volare con autopilota», rilassandosi e senza la necessità dell’entrare nel merito di quel fatto...".
Qui ti superi, spammaro sublime: vestendo i nobili panni del novello lord Chesterfield, con estremo altruismo ci ricordi che a far "quella cosa là", «la posizione è ridicola, il piacere effimero, la fatica tanta». Chi di meglio ci potrà dunque venire in aiuto se non il "pilota-chiavatore -automatico"?
Viene da chiedersi: ma alla fine chi sarà a godere? Ma cosa importa? Fidati dello spammaro: lui ti garantisce niente fatica...e lascia che si sbatta quel fesso del pilota!

Solo due piccoli appunti mi sento di farti, amico spammaro. Come dire, un paio di dubbi che mi sono venuti.
Il primo è questo: se "...l’apprezzamento di se' stesso femminile è anche molto suscettibile", non credi che sia similmente suscettibile "l'apprezzamento del se' stesso grammaticale"?
La seconda ed ultima perplessità è più sottile ma non meno fondamentale. Ho ammirato fino in fondo la tua squisita cortesia, spammaro caro. Mi hai persino illustrato le più svariate casistiche di distrazione che tutto bello spammato col tuo unguento riuscirò a superare molto brillantemente.
Non so tuttavia se ti è venuto il dubbio, ma metti che il cane stia abbaiando per scendere a fare pipì nel vialetto sotto casa, ma che minchia di figura ci faccio io coi vicini scesi per il medesimo motivo, se mi paro loro innanzi con quell'affare che continua a "...trovarsi in posizione verticale...?".




mercoledì 9 dicembre 2009

Learning to lose

Lo storico originario "fotogramma" in cui il personaggio di Alan Ford fece la sua prima apparizione, sul numero 1 della serie, intitolato "Il gruppo T.N.T." e datato maggio 1969

I fumetti sono faccenda pop, dunque piuttosto leggera, in teoria. Ma possono segnarti non poco.
Soprattutto se si considera che l’animo dei bambini è forse la creta spirituale più plasmabile che si possa immaginare, e che i medesimi sono (o perlomeno “erano” durante la mia fanciullezza) i più assidui divoratori di giornalini.
Mettendo in fila queste considerazioni, qualcosa che mi riguarda ne viene fuori. Il mio affetto storico maggiormente consolidato per i fumosi eroi è stato quello riservato a Tex Willer. Ma all’inflessibile Ranger del Texas ho cominciato ad avvicinarmi con passione vera piuttosto tardi, sul finire delle Medie.
La mia infanzia fumettistica è invece stata stranamente segnata da una banda di personaggi che esigevano uno humor molto maturo per poter essere apprezzati appieno.
Parlo di Alan Ford e del gruppo TNT.
Per cercare di spiegare un po’ il mio rapporto con questo fumetto, devo chiedere di avvalermi dei metaforici servigi di un altro immenso “addetto ai lavori”. Vi dico infatti che non avrei mai potuto leggere Alan Ford così nel profondo, se non fossi stato Charlie Brown già un po’ di mio.
Da un punto di vista spirituale, non credo di essere mai stato in corrispondenza alcuna con la mia età anagrafica. Sono un improbabile adulto mal specificato oggigiorno, così come fui un bimbetto già abbastanza “grande” ai miei tempi, un piccolo sognatore serioso.
Non saprei dire di preciso se questo fatto venisse acuito dalla lettura di Alan Ford, oppure se ero attratto da fumetti simili in virtù della mia strana personalità asincronicamente conformata.
Dal gruppo TNT, oltre a divertirmi un mondo a leggerlo, ho imparato due principi basilari ed un corollario.
Primo: al mondo si perde assai più spesso di quanto non si vinca.
La seconda eredità “alanfordiana” è la simpatia che da allora ho sempre nutrito per gli sconfitti, fra le cui schiere mi sono anche spesso ritrovato. Mi pare che questo modo di confrontarsi con la vita fosse anche fra gli obiettivi di Karl Marx, non saprei dire con precisione. Posso dire però che Alan Ford e il gruppo TNT sono stati il mio Manifesto ed il mio Capitale messi insieme.
Sarò esagerato, ma mi sento di dire che spiegare Alan Ford a chi non lo ha mai letto non è compito semplice. Certo, si possono tratteggiare per sommi capi i caratteri dei personaggi e delle loro vicende, ma coglierne la “filosofia” è questione più sottile.
Alan Ford, Bob Rock, la Cariatide con la Squitty, Grunf, il conte Oliver, Cirano e il Numero Uno, erano agenti segreti sgangherati (parlo all’imperfetto perché mi riferisco al primo nucleo “classico” insuperato dei primi 75 numeri, disegnati dal grande Magnus, su sceneggiatura di Max Bunker). Le loro avventure erano spesso rocambolesche, surreali, grottesche, bizzarre, goffe, granguignolesche, nei casi più estremi. Ma tutti questi aggettivi non sfiorano nemmeno quella sensazione di malinconia poetica che pervadeva l’atmosfera del fumetto. Un misto di cinismo rassegnato di fronte alle prepotenze del destino, superabile solo con un’ironia ancor più caparbia e priva d’esitazioni.
E’ appunto questo il corollario di cui vi parlavo sopra: quando la vita si fa beffarda, gli ironici si mettono a sorridere, a sogghignare se è il caso (e se possono appena, beninteso…).
Molti anni prima di sentirne parlare diffusamente in Italia, la legge di Murphy la conobbi insomma attraverso le gesta di Alan Ford e soci. Ma da un punto di vista più complesso, conobbi anche le sottigliezze critiche del sarcasmo, l’onestà intellettuale che solo un senso dell’umorismo cristallino ed irreprensibile sa recare con sé.
E tutte queste considerazioni mi fanno concludere con una verità tanto evidente quanto spesso trascurata o misconosciuta: anche dalla fonte culturale più insospettabilmente umile, si possono talvolta trarre lezioni filosofiche importanti, se solo si è disposti a lasciarsi attraversare da una sensibilità pura ed aperta all’ascolto meno preconcetto possibile.


domenica 6 dicembre 2009

Unsure of what he'll find



E per non scordare le origini...

Un torrone frattale, il libro friabile e la povera apetta


In base a quale sua componente un libro può piacermi oppure no?

Potrà sembrare una questione oziosa.
E di fatto la è.
Ma mi è venuto da rifletterci questa mattina.
Pensavo: nonostante di libri fino ad ora io ne abbia letti un discreto numero, un criterio univoco per stabilire il mio gradimento di lettore non l'ho mai effettivamente fissato.
Il che è ancor più ozioso, volendo.
La cosa credo sia in parte dovuta al fatto che forse un criterio univoco è difficilissimo da stabilire, perchè troppe sono le componenti in gioco. E probabilmente, ogni volta che in questa sede "blogghereccia" ho scritto di libri o di tematiche a loro affini, è stato proprio questo che stavo facendo: aggiungevo un piccolo "tassello motivante" in più al mio variegato metro di giudizio letterario generale.

Quello che mi sembra di aver notato tuttavia, è che più la ricerca di queste motivazioni si fa approfondita, più ne sbucano fuori di nuove. Inoltre, la bizzarra caratteristica che ognuna di queste motivazioni sembra assumere è la seguente: prendendone ciascuna singolarmente, se ha un minimo ragionevole di costrutto, sembra essere sufficiente ed esaustiva; ma se nel contempo si ponderano anche tutte le altre motivazioni possibili in gioco, con una visione panoramica d'insieme dei criteri di giudizio letterario, pure queste fanno sentire la propria imprescindibile necessarietà.

Uhm...mi sono spiegato da cani, eh? Abbastanza, dai: potete dirmelo, non fate complimenti...

Cerco di buttarla allora su una similitudine suggestiva: la "base critica" su cui si può fondare il gradimento del lettore, a mio avviso, ha una struttura che può essere metaforicamente assimilata al concetto matematico di frattale. O meglio, ad un aspetto della teoria dei frattali, così come mi sembra di averlo capito (e qui, se necessario, chiamo in causa la cara Farly, mia metà di chimera grande esperta in matematica, che prego redarguirmi su eventuali cagat...ehm... infondatezze contenutistiche).
Il punto sarebbe dunque questo: ciascuna parte di motivazione del gradimento di lettore (anche minima, purchè, ripeto, dotata di ragionevole costrutto) riflette l'importanza del tutto della motivazione, e viceversa.
In altre parole: osservando il criterio generalissimo che mi fa apprezzare un libro, ed osservandone una sua sottocomponente anche molto limitata, ci si rende conto di essere di fronte ad una medesima struttura similare, proprio come accade nei frattali.

Qui sorgeranno due rilievi critici da parte dei pazienti lettori.
La prima è: ma che minchia hai detto?
La seconda è: ammesso che ci abbiamo capito qualcosa, come ce lo dimostri?

Ecco, se sulla prima obiezione non posso che essere con voi solidale, alla seconda non so proprio cosa ribattere. Mi appello semplicemente al sottotitolo del mio blogghetto confusionario: "Andarperpensieri - O dell'arte del forzar concetti".

Il fatto è che a tutta questa immensa contorsione mentale, sono arrivato in parte ripensando ad uno stupendo passo di uno dei libri che più ho adorato nella mia carriera di lettore: «Il giovane Holden» («The catcher in the rye») - J.D. Salinger.
Ecco il brano:

«...Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira...»

Lo riporto anche in lingua originale. La doppia lettura andrebbe fatta per tutti i testi, ma i limiti di conoscenza delle altre lingue sono spesso un ostacolo troppo arduo. Ebbene, nel caso del capolavoro di Salinger, il problema si attenua: anche un conoscitore blando dell'inglese come il sottoscritto ha potuto assaporarne appieno tutta la bellezza originaria. Per chi non lo ha già fatto, se decidesse di leggere questa opera meravigliosa, consiglio quindi di farlo nelle due lingue, anche perchè, tra le altre cose, la traduzione italiana curata da Adriana Motti è altrettanto preziosa e straordinaria.

Ecco il brano in inglese:

«...What really knocks me out is a a book that, when you're all done reading it, you wish the author that wrote it was a terrific friend of yours and you could call him up on the phone whenever you felt like it...»

Pensandoci su bene, insomma, mi sono reso conto che questa motivazione di gradimento letterario era al contempo minimale, ma vastissima, al pari della più complessa teoria elaborata dal più eminente professore universitario. Proprio come ho "caninamente" tentato di spiegarvi sopra con la mia similitudine frattale.
Prima però, ho anche ripetutamente detto che il quantum minimo di struttura del gradimento letterario da considerare deve possedere una dose sufficiente di costrutto. Ecco, cos'è che garantisce questa "dose sufficiente"?
Sempre forte dello stesso passo di «Il giovane Holden», vi rispondo così: la sua poeticità.

E se per sbaglio avete resistito a leggere fino a questo punto, pensando di trovarvi di fronte alle farneticazioni di un folle, vi avverto che quanto sopra detto è stato nulla rispetto a ciò che seguirà.
Sì perchè adesso entreranno in scena il mio frattale letterario, il torrone e la povera ape morta sul davanzale.

Il mio schema di "disegno frattale letterario" è presto detto: un libro mi piace quando ogni frase, oserei dire ogni parola, dà l'impressione di essere indispensabile alla narrazione. Si leggono a volte libri inframezzati da descrizioni gratuite ed accessorie, con le quali l'autore sembra quasi menare il can per l'aia, tanto per diluire il racconto.
Magari lo fa involontariamente (il che è forse ancor più grave), ma sta di fatto che quelle sono opere che non soddisfano la mia condizione frattale letteraria. Un libro, per piacermi, deve regalare la stessa impressione di necessarietà, sia nelle sue componenti minime, sia nel suo impianto generale.

Cosa c'entra però il torrone?
Il torrone, quello veramente realizzato con i crismi artistico-torroneschi perfetti, vi racconta lo stesso concetto: deve tenere la friabilità fino all'ultimo pezzettino minimale. Il torrone frattalemente e letterariamente ineccepibile è quel torrone che dal primo all'ultimo morso che precede l'inghiottimento finale, si mantiene significativamente ed irreprensibilmente "sbriciolabile".
Il torrone che invece sulle "ruminate" conclusive vi si para sotto al palato come una piccola mappazza ciccosa chewingum-meggiante, è equiparabile ad un testo pieno zeppo di descrizioni gratuite, accessorie e non consustanziali all'opera.

Va beh, ma cosa c'entra infine una povera piccola ape morta sul mio davanzale?
C'entra perchè anch'essa mi si è illuminata agli occhi come un minimo ma infinito frattale esistenziale. Osservandola lì, indifesa ma sempre elegantissima nella sua dignità "apesca" del tutto integra anche dopo la migrazione della piccola anima in chissà quali paradisi entomologici, mi è sembrata importante come la più vasta delle galassie dell'universo.
Ed ho pensato che tutto era a posto così, tutto quadrava: il torrone, i libri e la bellezza del mondo.

mercoledì 2 dicembre 2009

Svenà!!!


La dimensione linguistica popolare possiede una forza evocativa il più delle volte preclusa agli ambiti della lingua codificata ufficialmente. Ci sono certi termini dialettali che recano con sé una capacità straordinaria di produrre significati, praticamente a ciclo continuo, quasi rinnovandosi incessantemente attraverso l’utilizzo vivo che i “parlanti” ne fanno. Questi termini, più che parole in sé e per sé, sono una sorta di metafore permanenti o, nei casi più preziosi, quasi dei “dispositivi poetici”.
Ecco, sono partito bello intellettuale, ma niente panico: torno subito a sbadilar pensieri nei sobborghi della mente.
Sì, perché mi sono reso conto che non sarei riuscito a mantenere lo stesso livello dell’incipit, quando ho pensato che oltre all’enunciato teorico di questo tema, avrei dovuto produrre anche qualche esempio concreto.
Qui infatti si presenta subito un ostacolo.
Un eventuale esempio dialettale sarebbe apprezzabile fino in fondo solamente da persone le quali conoscano sufficientemente bene lo specifico dialetto in questione. Questo perché le sfumature più sottili, le accezioni più profonde chiamate in causa dietro la facciata verbale principale, rischierebbero di andare inevitabilmente perdute, una volta spiegate a chi è estraneo a quell’idioma.

Esiste tuttavia una parola che casca a fagiolo per non lasciar perdere tutto il discorso. La sua particolarità è che si tratta di una parola in italiano, ma nel “laboratorio semantico” che coi miei amici teniamo vivo ormai da diversi anni, ci siamo divertiti a farle assumere tonalità di significazione multicromatiche e popolaresche quali si possono rinvenire solo nei vocaboli di impronta puramente vernacolare (“laboratorio semantico” per dirla in forma leggendaria; calato nella cruda realtà, suona invece così: “manica di ubriaconi”).
E’ insomma una parola italiana che noi debosciati “Fedeli di Bacco” abbiamo provveduto a colorare di dialetto.
La parola in questione è: “svenato” (in dialetto: “svenà”). E fin qui, niente di particolare. Il vocabolo sul dizionario della lingua italiana c’è. O meglio, più facile trovare il verbo corrispettivo: “svenato” è il participio passato di “svenare”. Letteralmente, significa “dissanguare”; in senso più figurato, evoca invece scenari di svuotamento economico, perdite di pecunia.
Non mi risulta tuttavia che venga usato tanto spesso con valenze sostantivate. E’ da questo punto in poi che si innesta il macinio semantico messo in piedi coi miei amici.
Dopo essere passato più volte attraverso la “fucina verbale” dei miei amici e mia (sempre espressione leggendaria, anche qui da leggersi: “osteria lingusitica”) “svenato” è da noi ormai utilizzato in riferimento alla produzione creativa di un qualche artista, meglio se cantante o musicista.
Già qui c’è un primo, piccolo valore aggiunto portato dalla “sostantivazione” del verbo. «…Il tizio è uno svenato…la tale è una svenata…» equivale a dire, che ne so, «…Il tizio è un meccanico…la tale è una parrucchiera…». “Svenato” diviene quasi una “caratterizzazione esistenziale”.
Ma questo è solo un primo gradino di arricchimento verbale.
Il secondo livello ce lo abbiamo appiccicato per assonanza contenutistica con l’espressione “vena creativa” oppure “vena poetica”. L’artista svenato è dunque quel creativo che ha smarrito la vena artistica.

L’ulteriore passaggio però che impreziosisce definitivamente il vocabolo di sottili valenze fantasiose dialettali, merita una spiegazione precisa. In tal senso, “svenato” acquista nuove coloriture come opposto del verbo “invenare”, questo sì in puro vernacolo delle mie parti.
L’«invenatura» è operazione prettamente connessa alla pratica dell’imbottigliamento del vino con metodi più che artigianali.
Si prende la damigiana (di lambrusco, barbera, gutturnio o simili elisir vineschi…chianti o barolo, per gli eletti), e la si posiziona ad una quota sufficientemente alta da cagionare una lieve caduta per gravità.
Si procede poi ad immergere una canna travasante in bocca alla damigiana, ben a fondo. Mantenendo l’altra estremità libera della canna a quota più bassa del “pelo del vino” interno al panciuto contenitore, si sugge con forza fino a causare la caduta naturale del rubizzo stillare, che per il principio degli omonimi vasi, si mette in comunicazione con le bottiglie da riempire.
A questo punto, con terminologia strettamente “tecnica”, la canna dicesi “invenata”. Se per incuria o disattenzione, l’invenatore non aspira con la dovuta perizia e dell’aria rimane lungo il tragitto della canna ostacolando la fluidità dell’imbottigliamento, la medesima canna ritorna a cadere sotto la definizione “tecnica” di “svenata”. Similmente, quando il purpureo livello all’interno della damigiana cala fin quasi all’esaurimento, la canna, ormai impossibilitata al pescaggio, di nuovo, si “svena”.
Ora, non so se a questo punto è chiara la bellezza (sempre nell’ambito di un sano “divertirsi con poco”, ovviamente) di questa stratificazione dialettale.
Immaginate il cantante in difficoltà creativa assimilato per metafora ad una canna da imbottigliare tutta piena di maldestre bolle d’aria, impossibilitato a travasare il vino melodico dalla damigiana della sua ispirazione alla distesa melomaniaca di bottiglie rappresentata dal pubblico canzonettaro.
Detto in una sola parola: è “svenato”.
Vi dirò di più: in virtù di una gioiosa confusione di ruoli, in forza di una caleidoscopica inversione della parte per il tutto, del mezzo per il fine, adesso concedetevi pure di immaginare che il musicista in questione venga metaforizzato come l’imbottigliatore medesimo.
Canna alla bocca, ciuccia che ti riciuccio, strabuzza gli occhi che ti dilato le froge, ma niente: dalla damigiana non viene giù una nota di vino decente che sia una.
Sempre detto in una sola parola: il musicista è “svenato”.

Insomma, è proprio percorrendo questi bizzarri sentieri mentali che ci si rende conto ancor meglio di quanto la preziosità semantica del dialetto sia impagabile. L’italiano è una bellissima lingua, ma i nostri dialetti sono cinema, poesia, teatro, pittura e scultura fusi insieme.
Cosa aggiungere ancora, cari amici viandanti per pensieri?
“Invenate” per bene la canna e alla vostra salute!

martedì 1 dicembre 2009

Fiiiggghhhiuuuzzzuuu!!!


Ho già parlato in alcune altre occasioni del rapporto conflittuale che son uso intrattenere sia con la città, sia con l'automobile.
Giust'appunto oggi, mi trovavo ad uscire dal centro urbano, alla guida della ormai arcinota (va beh, si fa per dire...) 313 GT, la mia inutilitaria targata Gattopoli.
Solitamenente ho due opzioni per rincasare a Gillipixiland: o infilo alcune strade cittadine un po' più tradizionali ma solitamente alquanto trafficose, oppure mi immetto nella radiosa tangenziale, che in alcuni minuti mi accompagna fuori dalla cintura cittadina. Questa seconda alternativa è quella che scelgo più di frequente negli ultimi tempi ed è stato esattamente ciò che ho fatto anche oggi.

Faccio però appena in tempo a sgomitolarmi dentro il fatidico svincoletto tangentizio, che mi accorgo subito di qualcosa che non quadra. Rallentamento subitaneo, incodamento camionale, azzeramento cinetico: in quattro per quattro sedici valvole, ci si è ritrovati tutti procedenti a passo d'uomo.
Doveva esserci un cantiere stradale più avanti e osservando la scena lungo l'infilata del biscione stradale circum-urbano, ho appurato che ad occhio e croce la fila stava lievitando non male.
Niente paura, ho pensato: "mamma città" non ti abbandona mai, "mamma città" ti vuole bene ed ha in serbo ogni soluzione per nutrire il tuo fabbisogno automobilistico.
Infatti, nel giro di due minuti, ecco pronto un nuovo accogliente svincoletto, grazie al quale degomitolarsi dal morso tangenziale, divenuto nel frattempo alquanto stretto ed iper-gasolico.
Già mi gustavo la mia astuzia da cervo, percorrendo baldanzoso il neo-svincoletto liberata-tutti. Già mi beavo per essermi attaccato con sommo intuito strategico alla tetta provvidenziale di "mamma città". Ma non passano che poche altre centinaia di metri e sono di nuovo bloccato, stavolta sulla strada normale: una bella coda fresca fresca e lunga lunga pure qui, anche al di fuori dell'anello obbligato. Niente da fare: dall'abbraccio di "mamma città" oggi proprio sembrava non si potesse sgusciare via.

Ed è stato lì che mi ha colto la buffa e bizzarra epifania cinematografica.
La visione è stata fulminea ed illuminante: la città, col suo insistente abbraccio trafficato e fumoso, ha assunto immantinente le fattezze dalla mamma della Belva Umana, incubo del povero Fracchia, obbligato ad andarla a visitare forzatamente, sotto minaccia del suo sosia criminale.
«...Figgghiu, figgghiuzzu miu bbbeddduu!!!...» mi pareva di sentire in sottofondo, là, affettuosamente imbottigliato nel mio ingorgo preferito.
«Figgghiuzzu miu come sei bbbuono oggi!!! Tutto te lasci fare da mmmammma! Nun te ne andare cusì prestu...un'altra rotonduzza ancora, un altro incroceddu bellu intasatu te devi surbiri!!!».