mercoledì 25 aprile 2018

Da amorevoli mani


La bellezza di leggere un libro, viene anche da tutti i piccoli riti paralleli che ne nascono.

Un classico è annusare le pagine sfogliandole piano sotto al naso; discernere, al massimo della propria arte di detective dell’odorato, quella lieve porzione aromatica dovuta allo scaffale della libreria, dalle altre sfumature che sanno del tipo di carta usata, la colla, i materiali di copertina, oppure riecheggiano i profumi d’ombra d’un ricordo della gentilezza della libraia, indispensabile guida per scovare il volume nel labirinto del negozio.

Altro bel corollario sta nella ricerca di un valente segnalibro: ogni libro merita il suo.

Ancora, molto gradevole soffermarsi qualche attimo col libro chiuso in grembo, o fra le mani, o posato sul petto se si legge distesi, e fantasticare sulla scia di una meraviglia appena letta, distillare l’ondata di tanta bellezza assorbita.

Queste sono alcune fra le ritualità da lettore più consuete. Non so però se sono in molti a soffermarsi su una piccola suggestione collaterale, praticabile esclusivamente nella lettura di un libro di autore straniero, tradotto nella nostra lingua.

Non lo faccio secondo una regola fissa, o una tempistica precisa rispetto al punto del libro a cui sono arrivato, perché non sempre mi ricordo.
Capita così, come una curiosità improvvisa: corro rapido, con lo sguardo fra le dita, all'inizio del libro, indago curioso appena sotto il titolo interno, oppure a volte fra le primissime pagine cronologiche e “copyrightiche”, e controllo il nome del traduttore.

Non che mi dica più di tanto, la maggior parte delle volte: i traduttori sono troppo spesso sconosciuti sottovalutati, ai loro nomi non viene mai dato il risalto dovuto a quelli di veri e propri artefici decisivi della buona riuscita di un testo.

Succede però ugualmente una piccola magia: se scopro che a tradurre è stata una donna, mi prende un tuffo al cuore di bellezza aggiuntiva.

Sia ben chiaro, la cosa non parte da una questione di merito o qualitativa. Che la traduzione sia fatta bene, dev'essere scontato, al di là del genere.

Ma il fatto che venga da una sensibilità femminile, aggiunge un tocco di impalpabile sensazione, indefinibile, tanto quanto la malia dell'odore delle pagine, indeterminabile come il peso del fascino delle frasi, quando ci appoggiamo il libro in grembo.

Immagino le parole straniere originali del testo che, accolte dallo sguardo, dalla mente, dal sentire di una donna, sono passate attraverso un filtro di speciale amorevolezza.

Ripeto, si tratta in buona parte di suggestione pura, non voglio assolutamente sfiorare la questione se siano migliori traduttori gli uomini o le donne, perché sarebbe soltanto uno sciocco quesito.

Dico solo che il “tocco traducente” femminile mi è più caro per una serie di insondabili motivi, che non saprei meglio far risalire se non al mondo di una amorevolezza maggiormente consona alle corde interiori dell'altra metà del cielo.

C’entra forse un qualcosa di materno, la realtà che le donne portano la vita, e in qualche modo nel tradurre fanno nascere dal grembo oscuro dell'idioma straniero, nuovi virgulti raccontanti.
C’entra forse il fatto che alla figura della donna viene più naturale associare idee di accoglienza, ascolto, benevolenza, rispetto.

C’entra forse un’immagine che ne consegue. L’idea che le parole dell'autore, riplasmate nella forma a noi comprensibile, ci vengano consegnate dalla delicatezza di mani fra le quali hanno potuto sostare e soffermarsi tutto il tempo necessario per un'appropriata metamorfosi.

C’entra forse infine che la parola stessa è femmina, e questo in mille significati possibili.
Fatto sta che un libro, tradotto da una donna, lo sento doppiamente vivo e fremente di energia narrativa.

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