Se per “arte” s’intende la libertà piena di poter esprimere l'essenza genuina del proprio esistere (come credo sia giusto intenderla), allora l’arte e il senso della vita coincidono.
In questa accezione, arte e vita sono una cosa unica.
Questo ho imparato, di ciò ho avuto ottima conferma, dalla lettura dello splendido romanzo di Edward Morgan Forster, “Maurice” (1914 - pubblicazione postuma 1971).
“Maurice” racconta “all’apparenza” vicende di amore omosessuale fra uomini.
Questo, per una sorta di sfumata sensazione pregiudiziale, ha fatto sì che il libro, acquistato ben otto anni fa (avevo conservato lo scontrino fra le pagine), sia rimasto a boccheggiare sul secondo ripiano del comodino tanto a lungo, prima che mi decidessi a leggerlo.
Per prevenire eventuali, doverosi strali di meritate accuse di omofobia, che mi potrebbero venir lanciati addosso, ci tengo a precisare.
Sono il primo a sostenere che l’amore espresso in ogni sua forma possibile, purché sempre nei limiti della libertà e della sensibilità altrui, debba essere tutelato, rispettato e valorizzato.
Ero incuriosito da “Maurice”, avendo letto gli altri tre capolavori assoluti di Forster: “Camera con vista”, “Casa Howard” e “Passaggio in India”.
Le mie remore di lettura erano piuttosto dovute a un senso di estraneità: il mondo dell’omosessualità, come dimensione che non mi riguarda, mi appare quasi del tutto privo di interesse, anche solo se considerato a livello di argomento narrativo.
Non c’entrava dunque assolutamente nessuna questione di giudizio preventivo, ma si trattava solo di puro disinteresse: come se a un tale a cui non può fregare nulla dell’ippica, si pretendesse di raccontare tutto quanto c’è da sapere sulle corse dei cavalli.
Come tutti i libri davvero grandi, però, “Maurice” mi ha smentito in pieno, colmandomi della meraviglia pura dell’inatteso.
Perché sì, il romanzo parla molto di omosessualità, ma ci racconta in primo luogo una immensa, essenziale verità che riguarda la vita di ciascuno.
Ci racconta che l’unico, il più genuino, fondamentale “tratto comune” a tutti gli esseri umani, è l’assoluta diversità di ciascuna vita rispetto a tutte le altre vite.
Ciò che abbiamo in comune come uomini, risiede proprio nel “non poter venire accomunati”.
Ogni individuo, in quanto tale, nella profondità più significativa del proprio “sé”, è una singolarità unica e probabilmente irripetibile del vivere (fatte salve ovviamente certe caratteristiche molto generali che ci possono accomunare).
Non ci dobbiamo rispetto e stima reciproca in quanto omosessuali, eterosessuali, o chissà cos’altro: ci dobbiamo comprensione e “compassione” umane, in quanto tutti diversi l’uno dall’altro.
La diversità è quella terribile, fascinosa, sconvolgente malattia che ci travolge nell’epoca della nostra adolescenza, e dalla quale non guariremo mai più lungo il corso di tutta la vita.
In questo risiede la straordinaria bellezza che trapela da un romanzo come “Maurice”: non tratta di vagheggiate rivendicazioni di questa o quella “minoranza umana”.
Tratta invece esattamente dell’umano nella sua grandiosa irriducibilità a qualsivoglia etichetta, catalogazione, incasellamento.
Tratta dell’orgoglio di essere, in fondo, tutti diversi.
Per questo in apertura parlavo della coincidenza fra arte e vita: perché ogni vita vissuta nella sua originalità più piena, è il grande, inimitabile capolavoro che ciascuno deve a se stesso.
E soprattutto di ciò “Maurice” racconta.
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