Ho avuto il privilegio di leggere uno dei migliori libri dedicati al mondo dell’arte, e dunque al mondo stesso in senso generale.
Solamente per una auto-imposta forma di miope (seppur umanissima) “difesa esistenziale”, continuiamo infatti a non voler vedere come mondo e arte coincidano.
Condividono infatti la medesima essenza, intrisa di paradossalità e prerogative comuni, verso una tensione continua ad abbracciare gli opposti
In questa prospettiva, ciascuna vita è un dipinto, una scultura, un film, un romanzo, ma spaventa, turba, disorienta ammetterlo, e ci si rifugia nel rassicurante incasellamento in “vite-documentario” (o “resoconto-aziendale”, oppure “referto-medico”).
Il libro in questione è un saggio critico molto acuto riguardo alle più fondanti questioni estetiche, e insieme una pregevole e godibile autobiografia.
Si intitola “La mia vita”, lo scrisse nel 1945 Carlo Carrà (1881-1966), esponente di spicco del movimento Futurista prima, e protagonista primario dell’arte del Novecento nel corso della sua lunga esperienza creativa (“Abscondita Edizioni” ne ha curato una bella riedizione nel 2016).
Al termine di una lettura veramente buona, deve rimanere dentro quel vago e prezioso senso di essersi avventurati in un nucleo puro di complessità avvincente, vivifica e molto nutriente per l'animo.
La biografia di Carrà sfocia perfettamente in questo esito.
L'impianto generale del testo è articolato su una intelaiatura aneddotica.
Si passano gradevolmente in rassegna vari episodi nelle tappe principali della vicenda umana del pittore.
Si incontrano tanti protagonisti della vita artistica e culturale del primo Novecento (Marinetti, Boccioni, Picasso, Apollinaire, Modigliani, Dino Campana, Medardo Rosso…) e a ciascuno di loro Carrà riserva note affettuose, cenni a particolari curiosi, preziose considerazioni umane personali.
Ma il cuore vero, il tesoro essenziale di questa messe di ricordi, si dipana intorno all'articolato discorso tenuto dall’autore lungo tutto il testo, riguardo al significato dell’arte.
Per capire meglio che cosa l’arte sia, la lettura del libro di Carrà non sarà sufficiente, ma dopo averlo conosciuto mi sento di dire che è sicuramente necessaria.
Pensiamo solo a una cosa: forse il 90% (sparo una cifra simbolica) di cittadini del paese più “densamente artistico” del pianeta (l'Italia) sono convinti, al meglio della propria considerazione in merito, che fare arte significhi praticare (e non si saprebbe a quale scopo) una riproduzione più fedele possibile della realtà.
Allora ci rendiamo conto dell’importanza di testi come quello di Carrà. Attraverso una raffinata riflessione personale maturata lungo un’esistenza intera, il pittore-scrittore ci accompagna con mano sicura nelle profondità di senso dell'espressività artistica.
Comprendiamo cosi insieme a lui, come l’arte non sia propriamente un qualcosa che si crea, ma soprattutto uno stato conoscitivo a cui si tende e al quale si tenta di addivenire.
Entrare nel senso artistico è cercare di assestare una presa chiara, sicura e onesta sopra al “vero”.
Altrettanto depistante è infatti la versione di un'altra non meglio precisabile percentuale di osservatori delle vicende artistiche, i quali pretenderebbero di vedere nell’arte un percorso di radicale astrazione dalla realtà.
Non c'è meno realtà in un astrattissima opera di “dripping painting” (“pittura per gocciolamento”) di Jackson Pollock, di quanta ce ne sia in un concretissimo ritratto di Antonello da Messina.
Il punto è, come Carrà ci spiega, che entrambi (Pollock e Antonello) prendono il “vero” (le cose nel proprio manifestarsi) come base di partenza, “trasfigurandolo”, nel tentativo di andare a cogliere il senso essenziale del “reale”, celato sotto il velo del suo “apparire”.
Carrà ci fa capire come fra la caducità “trascorrente”, mutevole delle cose, e la intravista, intuita, fondatezza di un “essere” immutabile ed eterno, si frapponga il termometro esistenziale della sensibilità umana.
Con Carrà ho capito dunque ancor meglio come la pittura tenda a cogliere “…L'immagine trascendente delle cose…” (pag. 126).
La pittura non è riproduzione pedissequa e nemmeno fuga dal reale: “…La pittura crea una cosa nuova, una nuova entità…” (pag. 151), cerca di cogliere “in essenza” il significato di raccordo che intercorre tra la dispersività frequentativa del “esistere”, e la fissità sintetizzante del “essere”. E non si potrebbe riassumere meglio il concetto, che con le parole di Leonardo, citate a pag. 223: “…La pittura è cosa mentale…”.
Grazie al testo di Carrà, mi sono addentrato meglio in quel filo di senso che tiene unite pittura, musica, matematica e geometria: tutte concorrono, con gli strumenti propri, alla ricerca di “…corrispondenze arcane…” (pag. 220).
Carrà mi ha spiegato poi molto sottilmente la strettissima parentela fra pittura e architettura. Fare architettura infatti altro non è che immettere “dosi di umano” nelle cose del mondo, medesima finalità del dipingere.
Leggendo la vita di Carrà, ho infine capito più precisamente perché taluni pittori a me molto cari, tra quelli che meglio hanno saputo trasmettermi il profondissimo senso conturbante del mistero nascosto nelle cose (Jan Vermeer, Giorgio Morandi, Edward Hopper, René Magritte, Giorgio de Chirico, Paul Klee, Mark Rothko), dipingevano innanzitutto la luce, nella quale è paradossalmente custodito l’invisibile.
E se tutto ciò non bastasse, la gioia di aver conosciuto un simile prezioso testo si sarebbe potuta condensare tutta in talune perle incontrate in corso di lettura, come la seguente citazione da una lettera indirizzata a Carlo Carrà dall'amico Dino Campana, fra le righe più belle mai vergate sulla carta da mente e mano umana in combutta fra di loro: “…Credi che è così dolce sentirsi una goccia d'acqua, una sola goccia ma che ha riflesso un momento i raggi del sole ed è tornata senza nome!...” (pag. 153).