Mi sta suggerendo tantissime riflessioni, la lettura dell’ottimo saggio di Alessandro Baricco, “The Game” (Einaudi – euro 18…ma io l’ho trovato al supermercato a 15 € e 30 centesimi…).
Quando un libro è un buon libro, quasi sempre ci invita a cambiare il nostro punto di vista sulle cose, ci propone un cambio di prospettiva.
“The Game” non è da meno in questo senso, e in una lunga, appassionante disquisizione, suggerisce di guardare alla “rivoluzione digitale” in atto ormai da una trentina d’anni, da un punto di vista ribaltato.
Il mondo non è cambiato conseguentemente all'invenzione di internet, bensì, internet è nato come espressione dei cambiamenti (o delle esigenze di cambiamento) intervenuti nel mondo.
Questo mi ha fatto pensare a una cosa (e non so se poi la dice anche Baricco più avanti nel libro…probabile di sì, ma per ora sono solo a metà lettura…).
Internet è una sorta di tentativo di risposta comunitaria mondiale, (scaturita quasi “dall’inconscio collettivo” dell'umanità) a una questione radicata nell’uomo da sempre: il nostro problematico rapporto con l’infinito.
È la questione delle questioni, se ci fate caso un minuto.
Abbiamo davanti costantemente “l’illimitato”.
Ogni nostro atteggiamento, ogni pensiero, o possibile modo di agire, ogni volontà, desiderio, aspirazione, sogno…ciascuna di queste propensioni così genuinamente umane, ha davanti ogni giorno, ora e minuto, un infinito di possibilità.
Il guaio grosso (ma non c'è bisogno che ve lo spieghi io) nasce dal fatto che di fronte a tale “infinito smisurato”, noi poveri umani siamo, praticamente per definizione, “finiti”.
Siamo esseri circoscritti, limitati, “perimetrati”, delimitati fortemente, ma non di meno, quasi per uno scherzo che la nostra essenza esistenziale costantemente ci tira, le nostre aspirazioni, desideri, voglie, volontà, sogni…sono sconfinate, senza limite, non racchiudibili entro steccati o gabbie.
Ora, senza esprimere giudizi in merito, o fare moralismi, né qualitativi confronti fra epoche, mi sembra si possa constatare questo: internet ci offre una certa illusione di “domare l’infinito”, ci fa sentire degli strani “cowboy dell’onnipotenza”.
Su internet, nei momenti in cui “ti ci cali”, cadono virtualmente, e potenzialmente, tutti i limiti.
Non c'è limite alle donne che potrai avere, ai viaggi che potrai fare, ai soldi che potrai intascare, e così via.
Il “gran guaio” della nostra effettiva limitatezza però, volenti o nolenti, rimane.
Ripeto, non sto giudicando internet, che anzi reputo una delle “meraviglie” del nostro tempo.
Voglio solo, a tale proposito, insinuare una piccola riflessione poetica aggiuntiva, sul ruolo “curativo” di un’altra dimensione e propensione umana a me molto cara: la scrittura.
Ritengo che scrivere rimanga uno dei rifugi più belli in cui riparare, di fronte a questo grande sgomento causato dal rapporto ineludibile con l’infinito.
Scrivendo, ci si confronta con la necessità di sintesi. Le parole vanno scelte in quantità per forza limitata, anche se le idee da trasmettere e condividere, che “sotto” incalzano nell'animo, sarebbero in teoria senza fine.
Dei milioni di cose da dire, quando scrivo ne devo, e ne posso scegliere tre o quattro. Mi è concesso di farlo tra l'altro usando un numero molto limitato di segni (lettere e punteggiatura) e di parole.
Ogni scritto si deve concludere con un “punto” che sta a indicare una “fine” momentanea del discorso.
Ed è soprattutto a quel “punto”, che lo scrivente si ritrova alquanto rasserenato riguardo alla questione dell’infinto, persuaso com'è che le proprie limitate parole saranno bastate a evocare nel lettore, anche tutto l’infinito volutamente lasciato fuori.
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