giovedì 13 dicembre 2018

Le foto che noi siamo


Roland Barthes (1915-1980) era uno studioso del linguaggio e critico letterario francese. Per una vita si è occupato di “segni”.

In senso molto esteso (estesissimo), un “segno” è qualsiasi elemento utilizzato per comunicare: una lettera, una sillaba, una parola, una nota musicale, una canzone, una frase, una pennellata di colore, un quadro, un segnale stradale, un gesto, un’immagine, una foto, e così via.

I segni sono i mattoncini dei vari linguaggi; i più diversi linguaggi.

Riguardo al “linguaggio delle immagini”, Barthes ha scritto uno dei suoi libri più famosi, “La camera chiara” (1979), dove si è interrogato sull’essenza della fotografia.

In parole povere (anche se naturalmente il contenuto del libro è molto più articolato), ha cercato di capire quando e per quale motivo una foto ci piace, ci colpisce, ci appassiona, ci coinvolge.

Secondo Barthes, per “sentire” completamente una foto, per provare una qualche forma di emozione complessa, osservandola, devono verificarsi due condizioni, che lui definisce con termini latini.

La prima condizione la chiama “studium”, e non vuol dire solamente “studio”, in semplice e diretta traduzione letterale. “Studium” significa, in senso più completo, applicare il proprio interesse a un argomento.

Quando una foto suscita il nostro “studium”, vuol dire che emerge dal mare dell'indifferenza, ci presenta una scena di cui la nostra cultura vuole sapere qualcosa.

Fino a qui però, rimane un tipo di gradimento a livello culturale appunto. Applicando “studium” a una fotografia, il nostro sguardo “entra” in quella immagine, ma ci passeggia dentro guardandosi un po' intorno come un turista, per vedere cosa racconta l’ambiente generale.

A rendere completa la vera attrazione suscitata da una foto, deve intervenire la seconda condizione, che Barthes definisce “punctum”. Anche qui, il termine non vuol dire soltanto “punto”, ma sta a indicare proprio l’idea di una puntura, una sorta di “pizzicotto visivo” che l'immagine fotografica ci dà.

Una foto “ci punge” quando un certo elemento della scena è in grado di scatenare una nostra reazione intima, non meglio spiegabile in termini razionali.

Allora non sono più un semplice “turista” dentro il paesaggio di quella foto, ma ne divento quasi un abitante.

Mi domandavo se qualcosa di simile non succeda anche fra le persone. Certo, una persona non è una foto, si tratta solo di un paragone ideale e molto semplificato. Ma qualche nesso potrebbe esserci.
Perlopiù, la maggior parte degli “altri” ci scorrono davanti come immagini di superficie, che tutto sommato ci lasciano indifferenti.

Solo su alcuni ci disponiamo con un atteggiamento di “studium”: ci sono buoni motivi di interesse comune, si condividono cose, ci si muove su un paesaggio di vita familiare.

Ma solamente chi ci punge con la sua “puntura di umanità”, si imprime come una foto importante nel nostro sguardo amicale, affettivo e, nei casi più felici, amoroso.

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