Nella vasta radura riarsa dal sole, giaceva la mastodontica ferraglia, inoperosa ormai da anni.
Un tempo la macchina aveva lavorato a pieno regime, garantendo un “esser bene”, distribuito in gran copia agli uomini e alla realtà.
Le generazioni si erano avvicendate molteplici, nella preoccupazione affettuosa di portare sempre più raffinate migliorie alla macchina.
Chi aveva arricchito le rotazioni interne di ingranaggi vellutati.
Chi si era occupato di dotare il marchingegno di un servofreno “autaltico diploviale”, per rendere più fluido lo scorrimento.
Chi manteneva un disegno sempre aggiornato e puntuale di come la macchina si era fatta via via più complicata, articolata, composta di una miriade di pezzi fondamentali per il funzionamento generale.
E dire che la macchina non era nata con uno scopo preciso. Almeno all’inizio.
Col succedersi collettivo del nascere e del morire, ci si era però resi conto che la macchina aiutava in modo prezioso il vivere.
La macchina emetteva “gudfriame”, una sostanza immateriale, impalpabile eppur sognabile, in grado di rendere migliore lo stare al mondo degli uomini.
Per fare il “gudfriame”, la macchina assorbiva aria da tutti gli alberi intorno. Questo spingeva gli uomini a piantare più alberi e a curarli con mille accorgimenti gentili.
Nell’accumularsi di troppe generazioni, l'attenzione degli uomini tuttavia si allentò, e con la subdola vischiosità di un olio esausto incapace di affondare sotto la superficie, gli uomini erano ormai presi a osservare soltanto la scocca esterna della macchina.
La macchina, invece di “gudfriame”, prese a sputare una malsana bruma “sfacchiosa” dai suoi tubi di strombazzamento.
Le giunture nei pannelli della carrozzeria traspiravano ormai cispa “emolica” sub-slavata, mentre da altri vitali pertugi percolavano minacciosi fiotti di “busgnovata” morchia “fudibonda”.
Nessuno, da anni, aveva più tenuto aggiornate le carte della fisionomia sotterranea della macchina.
Prese dal panico, le nuove sprovvedute ondate di nati-uomini, si erano allora affannate ad appiccicare improbabili cerotti “malcollosi” qua e là, nei vari punti epidermici “magagnati” della macchina.
Con qualche collant sbrindellato e strappato durante ubriacature moleste rimediate in recenti gozzoviglie mentali, si pretendeva di porre comici filtri ai bocchettoni di sfiato, nella malriposta speranza di farli ritornare a soffiare il benefico “gudfriame”.
Tutto invano.
Nessuno sapeva più nulla del disegno interno della macchina, di come il suo cuore pulsava e la sua anima scorreva.
La medesima macchina lo proclamò con evidenza massima quel bel giorno definitivo in cui, con un mastodontico e roboante “spetonzaggio istibustionale” esalò la sua estrema fiatata di resa.
Da quel giorno non si rimise più in moto. Tra le fessure della carrozzeria sbucavano ora solo ciuffi d’erba infestante cresciuti a casaccio qua e là.
Unica vegetazione ormai superstite nella radura rinsecchita, un tempo orgoglioso teatro di una rigogliosa foresta di sogni.
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