Accedere alla pagina scritta è come mettere piede in un tempio. Non a caso, tra scrittura e gioco esistono grandi somiglianze.
La parola “fissata in segno grafico” presuppone l’accettazione di un patto da parte di chi legge e da parte di chi scrive.
A chi legge è richiesta la disposizione a venir introdotto in un recinto di sospensione dall’ordinario. A chi scrive il compito-onere-piacere-onore di orchestrare questa sospensione.
Questa sospensione rappresenta il rito primario del tempio: spazio e tempo non funzionano come siamo normalmente abituati a vederli e sentirli funzionare “al di fuori di lì”.
Sono invece deformati, annullati o dilatati, plasmati a piacere.
Chi scrive è il cerimoniere principale, detta i confini del rito, fissa le regole, ma non per questo gode di una indipendenza totale rispetto a chi leggerà.
È vero infatti che lo scrivente può stabilire le regole a sua completa discrezione, ma se si allontana troppo da qualcosa di atteso, se forza il linguaggio fino al limite dell’incomunicabile, o addirittura del caos, spezza il possibile senso del rito e vanifica tutto.
Nel rito della scrittura, è necessaria dunque la realizzazione di una possibilità effettiva, che da qualche parte esisteva, e lo scrittore ha saputo andare a mettere in luce.
Quando la cosiddetta “civiltà dell'immagine” sembrava imporsi come una specie di “dittatura della comunicazione”, molti avevano previsto la fine della scrittura.
Invece, non c'è mai stata forse come ora un'epoca in cui si è scritto tanto.
Anche chi un tempo, finita la scuola, non avrebbe più messo in fila un soggetto e un verbo, oggi lo fa. Magari solo due brevi frasi da qualche parte su internet, ma lo fa.
Al di là degli aspetti pratici della cosa, c’entra senz'altro la questione del rito.
C’entra il fatto che scrivere e leggere ci portano in una dimensione diversa, simile a quella del gioco e del sogno.
È una dimensione di distacco dai limiti del mondo, uno spazio di “libertà sperimentale”, difficilmente ritrovabile da altre parti.
E a quella dimensione, tutti desideriamo accedere. Perché alla fine dei conti, ci rendiamo conto che “lì dentro”, si sta bene.
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