Era da tanto tempo che non mi succedeva.
Ieri sera, sono arrivato a casa dopo una giornata intera passata in giro con indosso (ovviamente) le scarpe.
Appena le ho tolte, mi attendeva una sorpresa poco lusinghiera, ma abbastanza stravagante da risultare quasi simpatica: un alluce (“didón dal pé”) stava occhieggiando ribaldo oltre la cortina sfondata del calzino.
Questo buffo contrattempo mi ha innescato nella mente un effetto domino di ricordi antichi e curiose nuove considerazioni. Una cosa quasi degna (ma molto quasi) di Marcel Proust e della sua madeleine, il dolcetto riassaporato ormai in età matura dal grande scrittore francese, “motore gustativo” della memoria, per un'infinità di temi rievocati poi nel capolavoro “Alla ricerca del tempo perduto”.
Per tutto il periodo della scuola (direi dall’asilo fino al liceo, con qualche anarchico riflesso di fondo, prolungatosi fino a oggi), il gesto di tornare a mettersi le scarpe, e dunque le calze, a fine estate, ha sempre rappresentato una specie di linea di demarcazione emotiva.
Alle spalle, rimanevano la spensieratezza, la libertà e la leggerezza del clima vacanziero; di fronte, si profilavano il senso di responsabilità, i doveri e gli impegni seriosi, del nuovo periodo scolastico.
Proprio questo fatto, veniva intensamente invidiato da Tom Sawyer al folcloristico amico Huckleberry Finn: “…era sempre il primo ragazzo ad andare a piedi nudi in primavera e l'ultimo a rimettersi le scarpe in autunno…” [“Tom Sawyer” (1876) - Mark Twain].
Dall’inizio del periodo cittadino liceale, però, la faccenda del rimettersi le scarpe e le calze a estate finita, si legò indissolubilmente al rischio ricorrente di fare una “pozzettiana” figura “da paisàn” (ossia, da gran campagnolo matricolato).
Per prepararsi alle due ore di ginnastica settimanali, bisognava naturalmente cambiarsi calze e scarpe negli spogliatoi della palestra, sfoderando le “fette”.
Qui, forse solo chi è provvisto di un lungo piede affusolato con pronunciato alluce puntuto, potrà capire pienamente le proporzioni di questo tascabile “dramma” calzaturiero adolescenziale.
Certo, prima di partire, mi curavo sempre di scegliere il paio di calze più integro possibile.
Ma il calcagno di cotone o lana non era mai abbastanza indietro, non c’era mai stoffa sufficiente a contenere i “tallonamenti” selvaggi che si ripercuotevano in pericolose trazioni estreme, sul fronte opposto.
Così, non era mai esclusa la beffarda eventualità che, nel lungo tragitto in corriera, poi dalla pensilina dei bus a scuola, quindi da lì alla palestra, il ditone non avesse traforato la fragile membrana del tessuto, sempre in eterna tensione sotto l’irruenza dell’unghia insidiosa, e smaniosa di “addentare” in presa diretta la punta della scarpa, con la foga del rostro di una triremi romana.
Solo una volta, ricordo di aver tramutato questo continuo possibile “dramma” in un trionfo acclarato, compiendo un gesto di rivendicazione pura e piena di tutta la mia essenza campagnola al completo.
A casa, nel fine settimana prima, avevamo “mostato” (pigiato) l’uva coi piedi. Completate le varie incombenze “vinose”, andavo sempre fiero degli sfavillanti piedi viola con cui ti ritrovavi alla fine. Erano come onorevoli gradi conquistati sul campo di battaglia della “paesanità”.
La volta dopo, nello spogliatoio della palestra, non me ne fregava proprio più un bel nulla di eventuali calze bucate, ecc.
Anzi, ricordo che sfoderai con grande orgoglio tutto il fulgore agricolo delle mie capienti “flute” purpuree, tra lo stupore misto a ilarità degli altri ragazzi cittadini.
E…non ne sono sicuro ma, mentre mi sfilavo lentamente le calze, per assaporare meglio il gusto del momento, credo di aver anche sussurrato fra me e me: “…ma va a dà via’l cül!...”.
Un antico adagio popolare delle nostre terre, vagamente traducibile con la perifrasi: “…Ma vai ad offrire a nolo le tue virtù posteriori, al miglior offerente sulla piazza!...”.
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