Tante volte, leggendo un bel libro, ci si imbatte in una frase di una bellezza tanto illuminante da procurarci un piccolo sussulto interiore, una delicata sur-place di stupore, che proprio come succede ai ciclisti su pista, induce a una esitazione estasiata.
Ma cosa dire allora quando su seicento pagine e passa, è un’unica, singolarissima e isolata parola a stagliarsi limpida nel suo cristallino potere ammaliante?
A me è successo leggendo un tomo di non trascurabile “tomitudine”: “I Vicerè” di Federico De Roberto. La storia abbraccia le tardo ottocentesche vicissitudini della nobile famiglia siciliana degli Uzeda. Tra i personaggi, c'è uno strambo zio, Don Eugenio, con strampalate velleità da archeologo, che pretenderebbe di aver individuato una nuova Pompei ai piedi dell’Etna, a suo avviso meritevole di indifferibili interventi di scavo.
E qui giunge la preziosa e ultra-inusitata parola, che nella sua rarità e nel sottile marchingegno etimologico da cui è sostenuta, mi ha donato un senso di meraviglia simile a quello provato tempo fa nell’ammirare le funamboliche trappole allestite da Will Coyote per il beffardo Bip-Bip, o da Silvestro per la petulante Titti.
Ecco cosa scrive don Eugenio, a titolo di una sua relazione da inviare alle autorità preposte:
“…Intorno la convenienza di essere intrapreso il discavo della Sicola Pompei […] sepolta nell’anno di grazia 1669 dalle ignivome lave…” e ZAC!!!
Eccola lì la piccola gemma lessicale: niente meno che “ignivome” sono per don Eugenio le lave. Sono sputa fuoco, o meglio “vomita fuoco”, dal latino “Ignis” più “vomere”, ossia “vomitare” appunto.
Ignivomo, “vomita-fuoco”: che termine assurdamente ed elitariamente strano.
Si potrebbe quasi rispolverare riguardo a certi tromboneschi personaggi pubblici odierni, che davvero vomitano spesso e volentieri il fuoco dell’insensatezza su tutto e su tutti.
O forse no. Forse in quel caso , più che di discorsi “ignivomi”, bisognerebbe parlare di proclami “idiozi-vomi”.
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