domenica 28 ottobre 2018

Guareschi e il mare strano dello stranomare


Uno dei più divertenti racconti di Guareschi si intitola "Emporio Pitaciò" ed è contenuto nella raccolta "Don Camillo e il suo gregge", del 1953.

Il racconto è naturalmente popolato da vari personaggi pittoreschi, com'è nello stile più classico dello scrittore.

Ma osservando bene la trama e lo spirito della narrazione, ci si accorge come il vero protagonista della storia sia "l'arte di affibbiare soprannomi", usanza così tipica dei piccoli paesi.

In particolare, Guareschi evidenzia come l'atto di "soprannominare", pur nella sua semplicità di fatto, si potesse esprimere sullo sfondo di "sfumature umane" molto variegate, che andavano dal comico, al grottesco, passando talvolta per gli accenti di una "crudeltà poetica" unica.

Vedersi assegnato un soprannome era sempre una potenziale arma a doppio taglio, perché poteva derivarne un motivo di orgoglio, oppure una notevole dose di "pericolo".

C'era sempre il rischio di caricarsi sul groppone un qualche termine al limite, se non proprio dello spregio, perlomeno della bonaria presa in giro.

Il soprannome assumeva allora quell'aura soprannaturale di evento del destino, che poteva piovere addosso dal cielo, con la grazia di una giornata primaverile, oppure con l'irruenza di un acquazzone.

Parafrasando scherzosamente l'incipit di uno dei pilastri della storia del romanzo, "Il processo" di Franz Kafka, si potrebbe rendere in questo modo l'idea:

"…Qualcuno doveva aver diffamato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne soprannominato…" (invece dell'originale "venne arrestato").

Il fatto era poi, che certi soprannomi nati chissà come, in grazia di una spietata genialità, potevano appiccicarsi addosso ai frastornati destinatari per più di una generazione, passando di padre in figlio come un'ingombrante eredità.

Tutte queste considerazioni e sottigliezze, Guareschi le condensa nelle primissime righe del suo meraviglioso racconto, inventandosi un "meccanismo soprannominale" portentoso.

Nella storia, Giosuè Bigatti si era addirittura trasferito in città per sfuggire alla palla al piede di un soprannome per lui intollerabile: "Pitaciò".

Di per sé, non sembrerebbe un epiteto così grave: "pitaciò" è termine dialettale per indicare un fiore rustico, ma tutto sommato simpatico, il dente di leone, o tarassaco, o soffione. Tuttavia Giosuè, il "Pitaciò", proprio non lo aveva mai digerito.

Passano gli anni, e forse anche confidando nella dimenticanza della gente, Giosuè Bigatti torna al paese per aprire un negozio di casalinghi.

Ma subito, un passo falso del tutto innocente gli è fatale nel farlo precipitare ancora e di colpo nel tormento "soprannominante".

Ha infatti l'infelice idea di esporre all'ingresso della bottega un'insegna maldestramente interpretabile:

GIOSUÈ BIGATTI
& FIGLIO
EMPORIO

Il figlio di Giosuè si chiama Anteo, ma per la gente ci vuole un attimo a fondere la seconda e la terza riga del cartello, anziché le prime due, e nel perfido immaginario comune, la frase finisce per suonare in questo modo:

GIOSUÈ BIGATTI
& FIGLIO EMPORIO

Per cui da quel giorno Anteo Bigatti, figlio di Giosuè, per tutti diventa "Emporio Pitaciò", e come tale viene ribattezzato nel repertorio popolare dei soprannomi del paese.

Il resto della storia, ricca di altrettante sorprese, non ve la racconto, perché merita ovviamente di essere letta nella sua bellezza originale.

Ma anche questo di "Emporio Pitaciò" era uno degli innumerevoli esempi della meravigliosa inventiva linguistica guareschiana, che partendo da un retroterra popolare dal sapore dialettale, sapeva dar vita a guizzi creativi degni della più alta tradizione letteraria.

Nessun commento: