L’annosa questione se una storia sia stata raccontata meglio da un film o dal rispettivo libro (spesso risolta a favore di quest'ultimo), nel caso del “Buio oltre la siepe” si complica per giungere a una particolare forma di insolubilità definitiva.
Mentre lo si guarda, il film con Gregory Peck sembra sempre più bello del libro di Harper Lee, e viceversa, in un'altalena di preferenze senza posa possibile.
Questo film penetra nelle profondità del mistero della fanciullezza e del diventare grandi. E anche qui non si riesce a stabilire bene se sia questo il tema portante della storia, oppure quello dell'intolleranza razziale e del rispetto nei confronti della presunta diversità.
“Il buio oltre la siepe” ci racconta come i bambini e i ragazzini non siano altro che mini-adulti ancora in indefinita fusione col tutto, nella numinosa continuità con le cose, gli elementi naturali, e le altre persone.
Da piccoli, il mondo è un magna di arcani e insondabilità che impressiona e inquieta, e tuttavia si dà per stabilito, fissato, immutabile.
Ci si rende conto che si sta diventando grandi, quando nascono le domande intorno a tutto ciò.
Questo ci racconta in misura magistrale “Il buio oltre la siepe”, soprattutto in versione film, con un Gregory Peck in stato di grazia nell’impersonare il meglio dell’idealismo americano, anch'esso grande chimera dell’infanzia di ciascuno, forse di quella dell'umanità stessa.
Perché, parafrasando una nota boutade riguardante il comunismo, subire il fascino del sogno americano fino intorno ai vent’anni, denota un’eroica ingenuità poetica, ma crederci ancora dopo i quaranta, è da irrecuperabili fessi.
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