Come il protagonista delle “Notti bianche” dostoevskiane, anche a me piace un sacco osservare le case, camminando. Che poi questo, per la proprietà transitiva, mi accomuni a lui anche in fatto di destini sentimentali, è un altro discorso (velato invito a leggere il bellissimo “Le notti bianche”, per capire cosa intendo).
Le case, gli edifici in generale, sono una più o meno consapevole metafora del corpo.
La porta di ingresso principale costituisce una sorta di bocca-sesso (e non serve scomodare Freud per ricordare quali potenti parentele simboliche sussistano fra queste due parti anatomiche). La casa ha un orifizio allegoricamente escretore, che è l’uscita di servizio, ha una struttura assimilabile all’apparato scheletrico, ha una pelle nei muri esterni, ha circolazioni interne di varia natura, elettrica, fluida, calorica.
Entrando in un edificio, possiamo sentirci di volta in volta come un cibo che verrà digerito e dopo espulso, un contro-sesso che feconderà l’ambiente interno, un pensiero, un emozione vivente all’interno di un organismo.
Ma il dettaglio che ultimamente mi sta appassionando di più si concentra nelle finestre.
Voglio dire, provate a camminare, e isolate da tutto il contesto paesaggistico-edilizio quel micro-mondo che si viene a formare nella vostra considerazione quando questa consente di esistere esclusivamente all’insieme di finestre tutte intorno. Ne deriverà una curiosa sensazione, che non mi faccio scrupolo a definire di benessere.
La finestra è un vuoto che mette in comunicazione due vuoti. Lascia entrare luce, cielo, nuvolo, aria, ossigeno, suoni, voci, richiami, canti d’uccellini, latrati, clacson, e fa uscire fiati, flati, sospiri, sguardi, parole, chiacchiere, odori, malinconie, gioie, entusiasmi e ristagni dell’animo. La finestra è un “sospeso” e come tale non può non eccitare l’immaginario dell’uomo, essere desiderante per antonomasia, creatura perennemente anelante all’altro da qui e da ora.
L’interno e l’esterno si baciano mettendo in comune una sola bocca: la finestra. Dalla finestra non si può uscire o entrare fisicamente, ma solo idealmente, con i sensi operanti sulle distanze: vista, odorato, udito. La finestra è allora un inno all’astrazione.
Le finestre sono giocose e strane, perché ce ne sono di mille forme: basse, alte, smilze, “bombute”, allineate, sfalsate, quadre, a rettangolo, tonde, a unghia di vamp, “tapparellute”, “impostate”, “gratificate”, coi vetri in altrettanti tagli, fogge e sfumature.
Prendete dunque in esame la totalità delle finestre abbracciabili con lo sguardo da una determinate posizione, fate finta che non esista altro, e vi troverete calati in una sorprendente arlecchinata del mondo.
Non dico che in questo modo risolverete i vostri problemi. Ma almeno per un attimo li avrete messi fra una ideale parentesi fatta di tanti stipiti, davanzali e architravi dell’immaginazione.
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