mercoledì 13 febbraio 2013

Sottofondo piumato



Il nostro apparato uditivo (intendendo con questi due termini non soltanto il semplice orecchio, bensì tutto l'armamentario che va dal padiglione esterno, passando per tutte le trombettine e gli amplificatori interni, sino alla cabina di regia del cervello) è capace di un portento strepitoso. Ognuno di noi l'ha sperimentato, ma si tratta di un fenomeno talmente sottile e sfuggente, che difficilmente si trova il modo di apprezzarlo in pieno.

Si può dire anche di più. Questa piccola magia, in qualche modo, fa proprio della inafferrabilità, la sua caratteristica principale. Nel senso: esso può avere luogo esattamente in virtù del fatto che non ci accorgiamo del suo accadere.  Ecco spiegate ancor meglio, dunque, le difficoltà che s'incontrano nel renderci conto di esso. Lo possiamo infatti ricostruire solo col senno di poi, facendo mente locale a quanto accaduto pochi istanti prima. Ma se tentiamo di coglierlo sul fatto, negli attimi stessi del suo verificarsi, è nella stessa sua natura svanire immancabilmente.

Vi illustro per sommi capi a cosa mi sto riferendo, con un esempio. Capita magari di trovarsi in un ambiente rumoroso, mettiamo sia un bar, affollato di persone, che parlano un po' tutte fra loro a gruppetti, seduti ai tavolini. Si aggiungano i rumori di tazzine di caffè sballottate, il gorgoglio dello spruzzatore che sbollenta i cappuccini, ordinazioni ripetute a voce alta dai baristi, echi del traffico dall'esterno, ecc. L'interlocutore col quale stiamo seduti al tavolino è una persona cara, un amico, e teniamo parecchio alla sua compagnia, così come siamo molto interessati a quanto sta dicendo, lo ascoltiamo proprio di gusto.

Ecco allora che, proprio con un contorno fatto da simili condizioni, il prodigio si può compiere: la porzione del nostro cervello addetta allo smistamento degli stimoli sonori, fa in modo di procurarci una temporanea, e per fortuna più che reversibile, forma di sordità selettiva. In quegli attimi, sentiamo solo la voce dell'amico interlocutore, mentre tutto il brusio di fondo si tacita, scompare ai nostri orecchi. Si tratta di una forma di assistenza che il cervello offre alla nostra capacità di concentrarci sui suoni per noi più importanti in quei momenti, ossia le cose dette dall'interlocutore.

Come dicevo, è impossibile cogliere il fenomeno nel suo compiersi, perché al solo cercare di afferrarlo, ecco che le voci di sottofondo riemergono più che evidenti in tutto il loro volume effettivo. Lo si può solo intuire, ricostruendolo a posteriori. Se vi capita una situazione analoga, provate a farlo. Nel suo genere, è una piccola  meraviglia che sbalordisce.

Ma non era strettamente di questo mini miracolo uditivo che volevo scrivere oggi, per quanto sia interessante e magico. Esso mi è tornato alla mente, in similitudine ad una presenza costante negli attimi della nostra quotidianità spicciola, che spesso segue dinamiche del tutto analoghe a quelle innescate dalla sordità selettiva di cui sopra.



Mi riferisco alla presenza degli uccellini nelle nostre città e, ancor più, nei paesi o nei piccoli centri. Così come il brusio cancellato selettivamente dal cervello, anche gli uccellini sono una sorta di costante vagamente afferrata nel corso delle nostre giornate. Loro ci sono sempre, sonoramente o visivamente. A differenza del rumorio in un bar, tuttavia, sembrano quasi sparire, non per l'eventuale molestia causata, bensì per una specie di eccesso di familiarità del loro esserci.

A volte, per accorgerci che “c'erano” anche mentre noi eravamo concentrati nel compiere qualche azione, dobbiamo proprio far caso a loro. Allora sembrano riemergere alla nostra considerazione visiva o uditiva, ma al contrario dell'effetto del brusio in un bar, il loro tornare a galla è sempre grazioso e piacevole. Sono un vero e proprio dono del cielo.

Di più. Se pensiamo al cielo come ad un'apparecchiata di tessuto leggerissimo, i voli degli uccellini sono le cuciture, la trama che sa tenere assieme l'azzurro e tutte le sfumature di colore assunte nei momenti della giornata dalla volta dell'aria che ci sovrasta. Hanno mille fogge e mille livree, piccolin-piccini, o più grandi-svolazzoni, sono innumerevoli le loro diverse famiglie, ma è bello immaginarli come un un'unica entità planante, compatta e fusa insieme nel nobile popolo dei pennuti padroni del vento.

Anche negli ambienti apparentemente a loro più ostili, ad esempio le grandi città affollate e trafficatissime, sanno scovare un ritaglio utile alla loro dimensione di gentili abitanti dell'aria. Per dire, mi è capitato di ammirare uccellini graziosissimi persino in posti molto inospitali di Milano. Anche il più ordinario di loro, il passerotto, possiede una simpatia dal plastico dinamismo, dispensata gratuitamente ed in grande misura a chiunque abbia due secondi per fermarsi ad ammirarla.

Quando mi capita di poterne fermare qualcuno in uno scatto fotografico, è sempre una bella soddisfazione. Se si tratta poi di un esemplare insolito, è ancor più bello. Come questo pallottino spiumazzoso variegato, che son riuscito a cogliere alcuni giorni fa, mentre si accingeva a sbafarsi qualche becchettata di una vetusta mela, ancora appesa ad un ramo, insolita reduce dagli splendori autunnali. Non è purtroppo una gran notizia per loro, ma quando il freddo si fa più pungente, la ricerca del cibo spinge certe tipologie più preziose di uccellini ad avvicinarsi alle case. Si possono allora ammirare certi piccoli capolavori faunistici, vere e proprie magnificenze condensate in trentasette grammi e mezzo di piume, ossicini ed elegante maestria aviatoria. Viene da domandarsi se non sia uno spreco, un simile sfavillio di colori sfoggiato da questi corpicini piumati, più indicati forse per grandi occasioni pennute di gran gala, che non per le grige lande delle mie parti. Domande oziose, sicuramente...

Sono anche molto guizzanti, come piccole saette, per cui l'eventualità di coglierli in foto è assai rara. Per questo l'immagine non è un granché, anche nel ritaglio che ho tentato per un goffo ingrandimento. Ma non importa. Quel che conta è sapere che gli uccellini ci sono sempre. Persino  quando non li pensiamo, loro volano ad ogni modo un po' anche per noi.

[PICCOLA NOTA GIULIVA DELL'ULTIMO MOMENTO: Ho scoperto che il piumottello in questione è una cinciallegra, il che mi rende ancor più contento di aver scritto quanto sopra].


martedì 5 febbraio 2013

Mate-matti da legare: la favola delle persone-numero



Gabriella Tre e Massimo Due un bel giorno andarono e si moltiplicarono. Invertirono più volte l'ordine dei fattori, ma il prodotto ovviamente non cambiò, e dopo nove mesi nacque Pierino Sei. 

Quando divenne abbastanza grandicello per capire, Pierino Sei cominciò ad apprezzare molto le favole raccontante dai nonni, i quali erano naturalmente tutti multipli di Pierino. Nonno Pino Trentasei era specialista nelle fiabe d’avventura. In particolare, sapeva narrare fantasmagoriche peripezie di elevamenti al quadrato, sfuggiti alle perigliose insidie un tempo nascoste nei meandri di  fameliche equazioni a base di numeri radicali. Nonno Pino Trentasei aveva trascorso la vita a fare il boscaiolo, e poi a tempo perso l’odontoiatra, mestieri in cui non a caso eccelleva nella fase di estrazione delle radici. 

Nonna Letizia Quarantotto coi suoi racconti sapeva invece infondere in Pierino quella sottile vena rivoluzionaria che sotto sotto aleggiava un po’ in tutta la famiglia. Nonna Letizia Quarantotto ricordava con piacere i bei tempi quando faceva il diavolo a quattro insieme alle sue amiche di gioventù, Erminia Sessantotto, Palmira Settantasette e Raffaella Quindici-Diciotto. 

In proficua alternanza emotiva, trascorrendo il suo tempo infante in sospensione fra atmosfere di rilassatezza tradizionalista, e ben più arrembanti moti dell’animo futuristici e trasformazionali, Pierino Sei cresceva e andava acquisendo con armonia una sana ed algebrica costituzione. 

Come accade un po’ nella vita di ciascuno, all’epoca dei primi bagliori adolescenziali, Pierino Sei iniziò ad addentrarsi nel mistero dei numeri negativi. Intravedeva qualcosa, attraversando i primi ignoti retroscena della vita, anche se gli algoritmi più complessi non gli apparivano ancora molto chiari. Subodorava meccanismi relazionali cruciali, riguardanti l’importanza fondamentale dell’operazione messa in mezzo fra due individui-numero. La cifra che ci si ritrova ad essere è indubbiamente la base della nostra identità, ma ancor più significativo nelle dinamiche del vivere è il “segno” che si frappone fra sé e gli altri numeri-persone. L’adolescenza è appunto la fase della propria esistenza in cui dolori e gioie cominciano ad assumere una fisionomia numerica ben precisa, e si amalgamano in un mix di sapori cifrati inebrianti e vertiginosi. Fu esattamente in quell’epoca che Pierino Sei imparò ad apprezzare la dolcezza del moltiplicare, la problematicità del dividere, l’ottusità a volte drammatica del sottrarre, la generosità sognante dell’addizionare.

La scoperta di queste prime aperture verso le dinamiche di un attivo relazionarsi numerale, convinse Pierino Sei anche di una ulteriore inequivocabile verità: un numero fermo è destinato a rimanere sempre imprigionato nella sua quantità originale. Per diventare più grande, un numero deve potersi muovere, deve saper andare incontro alle operazioni, e non attendere che i “più”, i “per”, i “meno” e i “diviso” lo vengano a cercare. Ecco perché, non appena arrivò il momento buono, Pierino Sei diede la patente e si procurò la sua prima automobile.

Ovviamente, nella sua condizione di matricola universitaria, Pierino Sei non solo non poteva permettersi una vettura nuova, ma nemmeno una usata. Ecco perché dovette ripiegare su una vettura abusata. Dopo aver passato in rassegna diversi residuati motoristici, l’unico ferro vecchio che si attagliasse economicamente alle sue tasche fu infatti una vetustissima “Gigia Sprint” Morbo-Diesel, assai glorioso veicolo sportivo nei suoi anni migliori, ma ridotta ad imbolsita veterana della sgommata, ormai da tempo immemore. Il suo tachimetro segnava oltre ottocentomila chilometri, col fortissimo sospetto, per di più, che fosse stato già azzerato varie volte. Eppure in qualche modo, per Pierino Sei la Gigia Sprint fu fondamentale nell’aiuto a divenire un numero adulto.

La Gigia Sprint era una cara vecchietta motoristica e necessitava di parecchie cure. Pierino Sei, profondendosi continuamente in questa sollecita assistenza, finì per imparare il vero senso delle operazioni algebriche fra numeri-persona. Ma questo si verificò pian piano, nel tempo lento durante il quale Pierino Sei ebbe modo di conoscere la Gigia Sprint in tutti i suoi risvolti meccanico-esistenziali.

La Gigia Sprint aveva il tartaro al radiatore. Questo le provocava indebolimenti notevoli a certi baffetti metallici messi a fregio del suo musetto, che erano il vero e proprio marchio estetico della sua casa automobilistica, come una chiostra di fanoni da vecchia balena della strada, quale un tempo era stata. Pierino Sei per questo la conduceva regolarmente dal suo “meccanico dentista” di fiducia, Secondo Sette Carie, che ovviava con attenzione alla debolezza della Gigia Sprint, ridonandole, per quanto possibile, un nuovo sorriso smagliante. A partire da questa attenzione superficiale, Pierino Sei si abituò ad ascoltare la Gigia Sprint in ogni sua magagna. 

Fossero stati solo i baffetti, infatti.

La Gigia Sprint soffriva spesso anche di problemi d’erezione ai pistoni. Per questo malanno, Pierino Sei si rivolgeva di preferenza ad un suo vecchio e caro zio, esperto in elevamenti di potenza, lo zio Rodolfo Sette alla Quinta. Su consiglio di quest’ultimo, Pierino Sei faceva spesso giretti con la Gigia Sprint sul limitare di alcuni caratteristici boschetti metalliferi, dove si potevano rinvenire particolari tipi di erbe meccanizzate. Da queste essenze turbo-vegetali, Pierino Sei ricava degli speciali decotti minerali, da aggiungere all’olio della Gigia Sprint. In questo modo, non solo le favoriva un rinvigorimento delle capacità d’impennata del suo contenuto cilindrico, ma aiutava anche la sua circolazione, altrettanto debilitata, tenendole regolata nel contempo pure la pressione ed alleviandole i fastidi causati dall’artrite ai cerchioni, che similmente affliggeva quella decana dell’asfalto.

Più Pierino Sei conosceva la Gigia Sprint, più poteva permettersi di entrare in confidenza con lei, spingendosi persino alla comprensione delle sue indisposizioni più arcane. La Gigia Sprint era una vecchia signora e ci teneva alle sue delicatezze meccanico-femminili, ma quando capì che il valore della fiducia reciproca con Pierino Sei aveva raggiunto ormai livelli da competizione motoristica, non gli negò nemmeno la condivisione dei suoi crucci più intimi. La Gigia Sprint soffriva dunque di emorroidi al tubo di scappamento e Pierino Sei fu lieto, nonché onorato, di poterla aiutare anche in questa sua difficoltà meccanica. Questa volta si affidò all’esperienza di un insigne luminare teutonico, il dottor Otto Von Büsen der Skarikèn, e sotto l’intervento delle sue delicate mani, gli smarmittamenti della Gigia Sprint poterono ritrovare tutta la propria rombante e smotorante possanza.

Passavano intanto i mesi, e girando con la Gigia Sprint di qua e di là, Pierino Sei conosceva gente-numerica nuova. Soprattutto ragazze-cifra, naturalmente. Come spesso capita, Pierino Sei non riusciva a cogliere appieno il senso di quanto andava sperimentando, mentre si addentrava in questi frangenti del suo vivere. Il significato dei momenti vissuti, lo si comprende sempre con più chiarezza dopo, in fase di consuntivo, quando si possono osservare quelle porzioni di esistenza trascorsa, con il distacco e l’elevazione dello sguardo, che ci consentono di dominarli dall’alto nella completezza panoramica della sagoma e in tutte le loro sfumature.

Pierino Sei conobbe allora alcune ragazze e dapprima si lasciò abbagliare da quanto in loro c’era di più sfavillante sulla superficie. Frequentò Pamela Sessantanove e, non che negasse in seguito di aver trascorso anche attimi molto intensi con lei, ma non c’era complessità matematica da condividere in quell’amicizia. Lo stesso successe con Marina Settantasette, un’altra amica conosciuta in quel periodo di frequenti vagabondaggi al volante della Gigia Sprint. Era la nipotina di Palmira Settantasette, la rivoluzionaria amica di Nonna Letizia Quarantotto, e si esibiva come soubrette nel corpo di ballo di un piccolo teatro in cui si rappresentavano spettacoli leggeri di varietà. Nella giovane rampolla di casa Settantasette però, ogni afflato sovvertitore si era ormai affievolito, e la doppia abbinata numerica in lei, lontana ormai dal rievocare una fatidica annata di sommovimenti culturali e sociali, rimandava al ben più domestico riferimento della tombola: «...77, le gambe delle donne...». 

Varie altre conoscenze femminili si accavallarono durante quel condensato periodo della vita di Pierino Sei. Come ad esempio l’esuberante Elsa Ottomilioniedue. Una cara ragazza, sì, ma votata più all’attenzione per i fattori quantitativi, che non ad una sensibilità per quanto vi è di non misurabile nell’accadere del mondo. Pierino Sei non disprezzava dunque l’amicizia di queste persone-numero femminee così proficuamente conosciute. Grazie a ciascuna di loro, la vita si svelò a lui sicuramente attraverso suoi nuovi interessanti aspetti. Ma, semplicemente, con loro, non trovava completezza matematica.

Nel frattempo, la confidenza, l’affiatamento e la sintonia con la Gigia Sprint crescevano piano, col passare lento di quei mesi, ricchi di apertura algebrica verso il mondo. E, stranezza delle stranezze a dirsi, proprio grazie a quel girovagare sempre attento ed in ascolto delle imperfezioni della Gigia Sprint, Pierino Sei giunse a capire che quando un segno di operazione si frappone fra due individui-numero, s’innesta fra di loro un travaso di vita vicendevole. Ad azione corrisponde reazione altrui, laddove l’agire, suscitando la risposta dell’altro, si rivela al contempo atto di auto-edificazione della propria personalità. E’ un edificare se stessi attraverso la persona-numero con cui ci si ritrova a svolgere operazioni insieme.

Così, fra una ripulitura di tartaro e l’altra ai baffetti della Gigia Sprint, Pierino Sei, recandosi un bel mattino nello studio del fidato “meccanico dentista” Secondo Sette Carie, venne accolto dalla sua assistente e segretaria, Enrica Diciotto. Il dottore si era dovuto assentare per qualche minuto, e Pierino Sei ebbe modo di scambiare quattro parole con la gentile signorina. Una curiosa energia si mise in vibrazione inopinatamente fin da subito fra i due giovani. Il primo a stupirsene fu proprio Pierino Sei: diciotto non gli era mai sembrato un numero particolarmente significativo, eppure si sentiva fortemente attratto dalla personalità numerica di quella ragazza-bocciolo di donna in fiore.

Per un po’ non ci pensò più. Ma da quella volta, ad ogni nuova occasione in cui la Gigia Sprint necessitava di una rifilata ai suoi fanoni di vetusta balena a quattro ruote, Pierino Sei faceva in modo di fermarsi un po’ di tempo a chiacchierare con l’ormai familiare Enrica Diciotto. Di modo che, quasi senza rendersene conto, lentamente il Sei ed il Diciotto scoprirono, nel proprio approcciarsi discreto, un gran numero di affinità algebriche e matematiche. Pierino Sei, dividendosi in Enrica Diciotto, diventava un di più rispetto a ciò che lui già era di per se stesso, trovando una fusione perfetta nelle parti di lei. Enrica e Pierino condividevano tanti interessi e tanto sentire comune, a partire dai vari loro sottomultipli. 

Frequentandosi con sempre maggiore assiduità, a volte sommandosi, a volte sottraendosi, Enrica Diciotto e Pierino Sei constatavano come insieme erano sempre capaci di dar vita ad altrettanti numeri in attinenza molto stretta con se stessi (18 + 6 = 24 ; 18 - 6 = 12). Un vero stupore affettivo li travolse poi quando realizzarono il piccolo prodigio che s’innescava nell’attimo in cui provarono a moltiplicarsi: la grazia di lei, nel risultato, era riverberata dalla elegante decorazione simmetrica interposta da un armonico “zero” separatore (18 x 6 = 108).

La conoscenza reciproca maturò matematicamente a dovere, fino al punto in cui Enrica Diciotto e Pierino Sei appurarono di avere trovato l’una nell’altro la combinazione numerica precisa della propria vita. Pierino Sei completò felicemente gli studi, proseguendo poi la carriera universitaria, ed ora ha un bell’impiego come ricercatore di numeri dopo la virgola del p. “Pi Greco” vale “3 virgola 14”. Dopo parecchi altri numeri, in fondo in fondo, adesso vale anche un “virgola Pierino” in più.

Enrica Diciotto, grazie anche allo stimolo numerico in lei instillato dall’affetto cifrato di Pierino Sei, ha invece abbandonato quell’impiego temporaneo dal dottor Sette Carie, riprendendo l’università e laureandosi in Scienze della Tutela Numerica. Nel suo studio di restauro di antichi numeri impolverati dall’incomprensione matematica del tempo, da allora svolge con molto zelo e soddisfazione questa nobilitante attività professionale.

E come da miglior tradizione favolistica, vissero algebricamente felici e contanti.