mercoledì 25 aprile 2012

Nedo Vudo: dadaismo e dintorni


La scorsa notte, su questo blog, è andata in onda una rappresentazione insolita. Chi si fosse collegato fra le 3 e le 3.05, avrebbe potuto visionare una serie di immagini che mi ritraevano completamente privo di vestiti. Non esattamente quello che si dice un bello spettacolo, converrete all’unisono. D’altra parte, le finalità estetiche dell’esperimento non andavano intese nell'ottica tradizionale della ricerca di un senso di bellezza che scaturisse dalle forme rappresentate. Il quid artistico, se pure uno ce n’è stato, si celava invece nei significati potenziali e suggeriti attraverso l’anomala pubblicazione.

Tecnicamente, le cose si sono svolte come ora vi spiego. Ho dapprima predisposto la bozza della pubblicazione, contenente esclusivamente immagini, senza nessun testo di commento. Anche il titolo, in fatto di parole, si presentava in forma estremamente laconica: Dada. Le foto inserite mi riprendevano secondo diversi tagli d’inquadratura. Ce n’erano alcune a figura intera, frontale, di profilo, posteriore (il viso era in ogni caso sempre non riconoscibile). E poi diverse che focalizzavano in primissimo piano il dettaglio anatomico che strettamente determina la mia appartenenza al genere maschile della razza umana.

Nei momenti immediatamente precedenti la pubblicazione, il dettaglio è stato fotografato svariate volte, anch’esso da diversi punti di vista e cogliendo di volta in volta lo sviluppo formale e le mutevolezze dimensionali dettate dalle sensazioni creative del momento. Anche sotto questo aspetto, all’operazione non è mancato dunque niente di ciò che ci si attende durante il compimento di un atto creativo, con tanto di adesione all’ispirazione del momento, gradualmente conciliata con il disegno d’intenti generale fissato inizialmente come copione preventivo da seguire nel corso dell’esecuzione.

Fra i numerosi scatti realizzati, sono state scelte alcune delle immagini risultate più significative e in grado di meglio esprimere una compresenza di pieni e di vuoti formali equilibrata, un’armonia di componenti visive più definita possibile.

Una volta inserite tutte le immagini opportune e dopo aver attivato il filtro di avviso per i contenuti “sensibili”, ho atteso l’orario che avevo prefissato per la performance, le 3 di stanotte appunto, e una volta scoccate le 2.59 e 59 secondi, ho dato l’innesco alla pubblicazione. Ho lasciato online le immagini per un quarto d’ora preciso, e alle ore 3 e 5 minuti precisi ho sentenziato la fine della loro visibilità universale.

Me ne sono andato a letto ed ho quindi atteso il momento di iniziare a farvi il presente resoconto di tutto l’esperimento, essendo, esso stesso resoconto, parte integrante ed imprescindibile dell’operazione estetica messa in atto.

…un racconto Dada

Nel corso della mia esposizione di come si sono svolti i fatti, ho poi atteso questo preciso passaggio del discorso per venirvi a chiarire che, naturalmente, di tutte le cose descritte sopra, nessuna è mai accaduta.

Potevano anche essere accadute, quelle pratiche auto-denudanti sul palcoscenico mondiale, ma non importa ormai più di tanto. Nessuno lo potrà mai più verificare e, molto presumibilmente, nessuno lo ha verificato, vista l’ora impervia e la fulmineità della presunta pubblicazione. Ciò che importa adesso è che quanto scritto sopra ha a questo punto modificato la propria natura narrativa, passando dalle forme della descrizione realistica a quelle della finzione pura.

Inoltre, quanto scriverò di seguito muterà a sua volta essenza espositiva, assumendo le sembianze del mini-saggio di critica d’arte. L’ingannevole sospensione di credulità annidata nel presunto realismo di quanto vi sono andato inizialmente riportando, era peraltro funzionale al ragionamento critico che mi piacerebbe sviscerare adesso.

La mia cosiddetta “operazione estetica”, sia che i fatti abbiano avuto luogo effettivamente, sia che vadano essi relegati nel puro ambito dell’invenzione ad hoc, ricalca in un certo senso le intenzionalità creative messe in atto negli anni ’60 da Piero Manzoni con la sua famosissima «Merde d’artiste». Cosa c’era effettivamente dentro quelle scatolette dall’etichetta promettente cotanto trasgressivo contenuto? Credo che nessuno lo abbia mai appurato, perché in fondo, come nel caso delle mie immagini, non aveva nessuna importanza appurarlo.

Lo scarto decisivo di significati risiedeva invece nel corto circuito concettuale ormai innescato. La dissacrazione, il raffinato sberleffo, l’ironia più subdola, lo spaesamento emotivo, il ribaltamento totale del senso dei valori: era l’insieme di questi “sentimenti” e “reazioni”, tutti portati all’estremo limite di tensione del fastidio sopportabile, a costituire l’artistico “valore aggiunto” della “creazione” di Manzoni. Non ultima, la beffa estrema di aver raggiunto l’intento di esprimere simili funambolismi concettuali, facendo leva su riferimenti alla componente più grezzamente fisica di pertinenza della sfera umana.

La mia presunta performance di stanotte (…è avvenuta veramente? Non è avvenuta? Chi lo sa…) si incanala allora entro una tradizione creativa di questo tipo, da far risalire a sua volta al primigenio atto “Dada” di Marcel Duchamp.

La pubblicazione delle mie immagini si sarebbe ovviamente soltanto nutrita dello spirito “Dada”, riuscendo ad addentare alcuni esiti di significato marginali, sminuita ormai dall’irreparabile mancanza di originalità del gesto. Questa infatti è svanita per sempre nel nulla dell'indisponibilità definitiva, nell’attimo stesso in cui Duchamp o Manzoni davano forma ad una determinazione concreta dei loro decisivi “atti concettuali”. Il “Dada” brucia per sempre le sue stesse idee, nel momento in cui vengono formulate e tradotte in pratica nella realtà. Il che lo dota di un antidoto assai efficace per difendersi dalla classica critica opposta dal senso comune: «...Un’opera del genere la sapevo fare anch'io!...». Certo, la sapevi fare anche tu: peccato che ci abbia pensato prima un altro.

Alle mie immagini senza veli sarebbe forse stato concesso un margine di significatività, nel fatto di riuscire a creare uno scarto rispetto alla banalizzazione raggiunta ormai dal corpo esposto. Internet, da questo punto di vista è un carnaio immane. In questo mare magnum dell'impudicizia, che differenza avrebbero fatto quattro o cinque immagini di particolari fisici in più? Nessuna differenza, credo. Se non quella dettata dallo stratagemma del mascheramento temporale adottato. L'ora improponibile e il brevissimo lasso di minuti concessi all'esposizione, avrebbero funzionato allora da risarcitori di preziosità riassegnata all'intimità fisica. L'annuncio della performance se non a cose ormai successe, avrebbe completato l'opera.

Di vedermi in quella versione, sarebbe poi interessato a pochissimi. A nessuno direi. Se non magari per una curiosità dettata dal mio essere divenuto nel tempo, nella considerazione di alcuni lettori, una specie di identità letteraria non meglio definita. Questo forse avrebbe fatto scattare un minimo di attrattiva, per il gusto di aggiungere nuovi ingredienti identitari a questo enigmatico essere fatto di pure parole. Puro corpo sommato a pure parole: questo avrebbe potuto essere un altro ingrediente dell'operazione dall'intenso sapore “Dada”.

L'insieme delle cose scritte oggi può dunque essere recepito secondo diversi gradi di lettura: come provocatorio resoconto puro nella prima parte e come saggio critico nella seconda, la quale intervenendo muta anche nel contempo il precedente resoconto in racconto di finzione; come racconto in tutto e per tutto, in ogni sua parte; oppure come resoconto che diventa parzialmente racconto, seguitando però ad insinuare il dubbio del proprio realismo dissimulato.

Oppure ancora come una massa di fregnacce senza importanza alcuna.

Perché “Dada”, oltre a bruciare le proprie idee nell’attimo stesso in cui le pensa, contiene già di per sé, al proprio interno, il germe dell'autoironia ad oltranza, con un occhio particolare riservato alla salvaguardia continua del mistero insito in ogni sua creazione.



venerdì 20 aprile 2012

Guttae



L’ultima volta che tirai in ballo le piccole e care biglie acquee, mi meritai l’appellativo di “Derrida della verza”, onorificenza della quale mi insignì il caro amico Yossarian, e da allora rigorosamente appuntata sul mio curriculum fra le qualifiche più prestigiose di cui mi posso fregiare.

Lo so: sono soliti ripetersi o il noioso, o il rintronato. Forse alla fine devo constatare di essere scivolato proprio in una di queste due categorie, dato che ho ben presente di avervi già ammorbato riguardo a questo fenomeno con tanto di tiritere teoriche, dando ampio sfogo al mio più classico stile nulla-esprimente.


Ma per ogni occasione che la cosa si ripresenta, non posso fare a meno di rimanere a bocca aperta come un perfetto idiota. Non riesco ad evitare un’ammirazione primitiva per questo spettacolo minimo, disponibile a prezzo infinitesimale.

Succede solo su alcuni tipi di foglie, e ovviamente dopo una bella pioggia. Sarà per via di certi attriti e legami che si vengono a creare nell’infinitamente piccolo fra le sostanze in gioco. Son cose che già aveva intuito nientemeno che il caro Lucrezio, nel suo «De rerum natura». Le molecole dell’acqua devono essere fatte in modo da combinarsi così curiosamente con quelle della superficie della foglia.

Riporto le parole di Lucrezio con una citazione di seconda mano, a sua volta tratta dal simpatico giallo di Marco Malvaldi, «La carta più alta»:

«…Vediamo il vino traversare il filtro in un istante, mentre il pigro olio non passa che lentamente; perché formato da elementi più grandi o più uncinati e tra loro intricati, che non possono separarsi abbastanza rapidamente per scorrere ad uno ad uno separatamente…».


Qualcosa di simile deve succedere anche negli anfratti microscopici di acqua e superficie vegetale, quando si incontrano in queste particolari circostanze e danno vita ad una danza molecolare in cui la goccia diviene una grassa ballerina, un diadema di riflessi posato su quel velluto verde di venature e pelurie clorofilliane. Non resisto a quelle sferette effimere di bellezza liquida, a quei magici marchingegni acchiappa-luce, a quelle perle di latte foto-idrico.


In un momento in cui ho da dire non soltanto poco, ma addirittura nulla, questo mi sembrava l’argomento ideale. Stavolta non si tratta di verze, ma di foglie più ridotte, di un qualche fiore che nella mia insipienza di campagnolo imperfetto non vi saprei nominare. L’altra volta verza, questa volta fiore. «Nulla due volte», come giustamente ci ricorda la bellissima poesia di Wisława Szymborska.
  

Nulla due volte

Nulla due volte accade
né accadrà. Per tal ragione
si nasce senza esperienza,
si muore senza assuefazione.

Anche gli alunni più ottusi
della scuola del pianeta
di ripeter non è dato
le stagioni del passato.

Non c’è giorno che ritorni,
non due notti uguali uguali,
né due baci somiglianti,
né due sguardi tali e quali.

Ieri, quando il tuo nome
qualcuno ha pronunciato,
mi è parso che una rosa
sbocciasse sul selciato.

Oggi, che stiamo insieme,
ho rivolto gli occhi altrove.
Una rosa? Ma che cos’è?
Forse pietra, o forse fiore?

Perché tu, malvagia ora,
dai paura e incertezza?
Ci sei - perciò devi passare.
Passerai – e qui sta la bellezza.

Cercheremo un’armonia,
sorridenti, fra le braccia,
anche se siamo diversi,
come due gocce d’acqua.

Wisława Szymborska

sabato 14 aprile 2012

Forma: riforma. Folla: cipolla



Nel bel romanzo giallo citato durante i giorni pasquali, «Un bastimento carico di riso» di Alicia Gimenez-Bartlett, oltre al brano illuminante ricordato la scorsa volta, ho rinvenuto un’altra notevole epifania del lettore.

Nel corso della vicenda raccontata, l’ispettore Petra Delicado, al fine di far proseguire le proprie indagini, chiama al commissariato una testimone, per farle visionare una lunga sequela di foto segnaletiche. La donna, proprietaria di un ristorante e grande esperta di cucina, crede di aver visto nel suo locale un tipo implicato nei reati di cui l’ispettore Delicado si sta occupando.

Con la noiosa rassegna di foto si spera di dare un’identità al sospettato. La cosa dura una mattinata abbondante ed alla buon ora il confronto ha un esito positivo: la cuoca riconosce l’indiziato in una delle fotografie. A quel punto, l’ispettore Delicado ringrazia vivamente la signora e le comunica che può andare.

La donna, che tra l’altro per venire al commissariato aveva dovuto lasciare momentaneamente in sospeso importanti incombenze dietro ai fornelli, ha un piccolo moto di ribellione e pretende di sapere almeno il nome del tizio individuato. E aggiunge una sua metafora per spiegarsi:

«…Non mi va di essere usata e basta. E’ come quando ti dicono di tagliare le cipolle ma non ti spiegano il resto della ricetta. Non mi va, io voglio sapere cosa ci sta a fare la cipolla nell’insieme. Sono una cuoca, non una sguattera, sarà per questo, forse…».

Questa piccola immagine, nella sua semplicità, l’ho trovata molto bella e sorprendentemente profonda. So di addentrarmi in una sorta di volo pindarico fanta-utopico, ma mi sento di dire che questo paragone culinario dovrebbe essere preso in considerazione da chi riveste ruoli decisionali a medi e ad alti livelli dell’intera «impalcatura sociale», e in qualche modo ha la responsabilità di determinare le vite di tante persone.

Cosa servirebbe per far funzionare meglio le diverse realtà di un’organizzazione sociale? Più consapevolezza, più coinvolgimento diffuso, far sentire alle persone che sono parte attiva delle dinamiche in cui vengono coinvolte. Ognuno dovrebbe poter constatare il frutto effettivo della propria azione sociale, professionale, civile, umana. Ciascuno proporzionalmente al ruolo giocato nell’ambito della comunità alla quale si rapporta.

Tutti insomma dovrebbero poter essere consapevoli di «…cosa ci sta a fare la cipolla nell’insieme…» della ricetta, perché ognuno, se può scegliere, preferisce essere cuoco che sguattero.

Senza confusione o sovrapposizione di ruoli, senza accavallamenti di competenze, di prerogative decisionali, di responsabilità o di riconoscimenti ad esse commisurati. Il merito ed il raggio d’intervento riservati ai diversi gradi rimarrebbero dei punti fermi. C’è chi ha talento e qualità per diventare ingegnere, dirigente, politico, imprenditore e chi per essere un buon operaio, o salumiere, o artigiano: a ciascuno il suo, in fatto di complessità, di sfera d’influenza e di relative ricompense sociali.

Ma a nessuno dovrebbe venir richiesto di svolgere un ruolo di pura esecuzione cieca di compiti, per quanto modesti questi siano. Anche il più umile dei cittadini dovrebbe sapere per quale motivo sta tagliando la cipolla, sia in ordine alla propria realtà immediata e, seppur più a grandi linee, anche rispetto all’ambito generale in cui agisce.

Non sarebbe tanto questione di buonismo o di filantropia spicciola. Chi sente di giocare da protagonista nell’ambito dell’organizzazione sociale, in proporzione alle prerogative consone al proprio ruolo, vive in completezza d’identità, è più stimolato a fare bene, a comportarsi virtuosamente, perché presagisce le future ricadute positive tornare già direttamente a suo vantaggio. Se ha un quadro sufficientemente chiaro verso gli orizzonti possibili, vede la strada che sta percorrendo, dove conducono i vari bivi, e sceglie la direzione più favorevole. La sommatoria di tutte le piccole e grandi scelte di ogni componente ai vari livelli, porta a muovere poi una coralità di intenti favorevoli all’evoluzione armonica del quadro generale che si sta tutti insieme dipingendo.

Lo so, parlo di un qualcosa che sta a metà fra una sorta di trasformazione epocale dell’uomo ed i candidi sogni di un illuso. Tematiche di simile portata, pur provenendo dall’estrema semplicità di una cipolla, non sono cosa liquidabili con tre o quattro decreti legge e qualche riformetta della scuola all’acqua di rose. C’è in gioco davvero un nuovo modo di concepire l’individuo, la sua educazione e la sua percezione di sé, del proprio valore, nell’ambito della società. Che cosa possa operare questo lento e graduale sovvertimento sovrumano, chi o quale fenomeno ne abbia la forza, sinceramente non lo saprei dire.

Ma siccome dalla cipolla son partito, sempre con la cipolla chiudo questo articoletto di oggi, riportando gli stupendi versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska, recentemente scomparsa (Kórnik, 2 luglio 1923 – Cracovia, 1º febbraio 2012), che con il suo tipico, profondissimo candore, così diceva in questa impareggiabile poesia intitolata appunto “Cipolla”:

La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa di dentro
senza provare timore.

In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.

Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.

La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezioni.
E a noi è negata
l’idiozia della perfezione.

venerdì 13 aprile 2012

Epoche e parole



Sarà forse un caso che un periodo palliduccio e mediocre come quello che stiamo attraversando produce anche parole odiosette, squallide, e oserei dire quasi rognose?

Rognose, sì. Perché evidentemente concepite da menti malaticce, asfissiate. Menti malsane, ciclicamente colte da fasi di anossia che le privano del corretto afflusso di carburante aerobico indispensabile a formulare i pensieri con un minimo di pudore, di gusto, di amor proprio e di rispetto per i propri simili.

Tra le varie infelici categorie fatte scaturire dall’insensibilità monolitica del mastodontico meccanismo economico-finanziario che con fare sovraumano si sta trangugiando bellamente le vite e le speranze di felicità di tante persone, c’è anche quella occupata da individui di una fascia d’età relativamente avanzata, che per causa di bislacche coincidenze burocratesi, si sono ritrovati come per incanto nel beffardo limbo dei “già senza lavoro - ma  non ancora pensionati”. Stanno lì, poveracci, a mezza gamba in quel guado di guano, mancano loro pochi anni alla pensione, ma non li possono colmare lavorando, perché ormai avevano interrotto le proprie carriere professionali e non se li ripiglia più nessuno.

Adesso, d’accordo che ci potranno essere anche cose peggiori nella vita, ma senza tema di smentita possiamo affermare che come botta di sfiga già questa si presenta di notevole mole. Non entro nel merito degli aspetti tecnici di questo contenzioso, perché non potrei parlare con cognizione di causa, e al tempo stesso spero che la delicata situazione di questi nostri connazionali si risolva per il meglio in tutti i casi.

Quello che volevo umilmente sottolineare io, riguarda invece un aspetto linguistico della questione. E’ vero che la sostanza rimane sempre più importante delle parole usate per definirla, in questo caso più che mai. Ma è altrettanto vero che il malessere linguistico fornisce talvolta la spia del malessere effettivo riscontrato nei fatti.

Ora, mi domando io, questi poveracci non erano già stati colpiti sufficientemente dalla malasorte (chiamiamola così…) visto quello che gli è capitato? Che bisogno c’era di infierire beffardamente su di loro andandoli anche a chiamare “esodati”?!?!?!

“ESODATI”?!?!?!

Avevate mai sentito un termine più vomitevole? Mi fa ribrezzo anche soltanto vederlo scritto nero su bianco. Rappresenta forse il punto più infimo mai toccato nella storia del lessico parlato italiano. Spero che ‘sta merdaccia di sequela di lettere, che sarebbe lussuoso persino definire parola, non trovi mai spazio e credito su nessun dizionario ufficiale.

Fossi nei panni di uno di quei poveri italiani che hanno avuto la iella nera di ritrovarsi in questa brutta condizione, oltre a sperare di uscirne al più presto e nel migliore dei modi (ma questo è scontato), desidererei anche ardentemente avere sottomano il genio che ha coniato quel grugnito linguistico, giusto per il gusto di assestargli quattro legnate sul groppone, ricordandogli: «…Pezzo di un idiota, “esodato” sarà il tuo cervello, che è partito da tempo immemore per un viaggio lunghissimo e senza ritorno…».

Va beh...si fa per dire. Rifacciamoci un po' il palato con la Frankie "Tram" Trumbauer Orchestra ed il grande Bix Beiderbecke alla cornetta.

martedì 10 aprile 2012

Curiosare è vedere. Vedere è comporre. Comporre è porsi in armonia


Cari amici viandanti per pensieri, già in diverse occasioni ho cercato di addentrarmi insieme a voi fra le fresche e misteriose frasche dell’enigmatico mondo dell’arte. Fra le cento-e-passa-mila definizioni che si potrebbero formulare per cercare di circoscrivere il senso più intimo del fenomeno artistico, oggi ve ne propongo una molto sintetica, quasi tascabile: l’arte è il tentativo di far affiorare l’invisibile dall’infinito repertorio del visibile.

Il vantaggio di questa definizione, a mio avviso, sta nella sua validità sovra-storica e trans-epocale. Potrete prendere in considerazione gli artisti fra loro più lontani nel tempo e nello spazio, da Fidia a Picasso, da Piero della Francesca a Munch, da Edward Hopper a Pipilotti Rist (non me la sono inventata, esiste davvero: è una simpatica mattacchiona artistica elvetica), potrete far riferimento ad ogni stile, tecnica, corrente, scuola, tendenza, e così via, ma alla fine il risultato non cambierà: la definizione rimarrà valida.

Cosa s’intende con «visibile» e cosa invece con «invisibile»? Il «visibile» è la totalità del materiale percettivo che ci investe in qualità di esseri sensibili. L’«invisibile» è invece costituito dai significati che ci sembra di cogliere o che ci sforziamo di attribuire al «visibile», è la “logica umana” entro cui incaselliamo i fenomeni al fine di poterci muovere in mezzo ad essi.

Si può affermare che il «visibile» abbia un’origine oggettiva (come dato di fatto reale, “vero di per sé”), mentre l’«invisibile» sia sempre un prodotto dell’interpretazione dell’uomo, una creazione della mente e del sentimento? Questa è una delle questioni capitali intorno alla quale la filosofia si dibatte da secoli e non sarò certo io a dirimerla oggi.

Indipendentemente da dove si posizioni il confine tra “dato oggettivo” ed “interpretazione”, sta di fatto che la nostra realtà di umani senzienti funziona così: il mondo ci invia continuamente un’infinità di stimoli, mentre la nostra sensibilità umana si dà da fare per codificare quella porzione di “segni” che è in grado di decifrare e che si rivelano utili ai propri scopi esistenziali. Un simile “codice di segni” varia per gradi di complessità, a seconda dello scopo esistenziale in gioco: di base, può essere connesso alla pura sopravvivenza (questo compete anche alle piante e agli animali: anche essi, a loro modo, interpretano i segni del mondo per mantenersi in vita), passando poi via via attraverso interpretazioni sempre più raffinate, sino a raggiungere le finalità più sublimate che hanno quasi sempre a che vedere con la ricerca del “Bello”, della “verità insita nella bellezza”.



Le vette della bellezza vanno ricercate molto spesso ad altitudini vertiginose. E solamente un occhio interpretativo particolarmente predisposto è in grado di spingersi fin lassù. E’ questo che sa fare l’occhio dell’artista: interpreta i segni del mondo ad altissimi livelli, stanando significati nascosti e molto ardui da decodificare per la sensibilità comune dei più. Per questo motivo, dicevo prima che la definizione citata è un sempreverde delle definizioni: svelare l’arcano nei segni del mondo è sempre stato compito degli artisti e sempre lo sarà, al di là di tutti gli altri scopi accessori intervenuti nelle diverse epoche (intenti celebrativi, ideologici, teologici, agiografici, e così via).

Da questa definizione, si può dedurre un criterio molto semplice, ma efficace, che ci faccia da guida ogni volta che ci ritroviamo a considerare un’opera d’arte. Basterà domandarsi: qual è la porzione di «invisibile» che l’artista è riuscito a far affiorare con la sua opera? La risposta poi non risulterà mai altrettanto agevole, ma sarà ad ogni modo un buon punto da cui partire.

Tanto più che a mio avviso esiste un modo facilmente disponibile a chiunque per poter esercitare, seppure a livelli iper-amatoriali e principianteschi, una minima sensibilità nel cavar fuori porzioni d’«invisibile» dal «visibile». Questo strumento è la fotografia (ed in particolare quella digitale). Non sto parlando di diventare artisti della fotocamera, virtuosi dell’immagine scattata, né tanto meno sto millantando sgangherate pretese di essere io stesso in grado di sfiorare quei sublimati regni espressivi, a me purtroppo interdetti.

Parlo invece dell’umile e minimale porsi di fronte alla questione dell’esecuzione di una foto. Anche il fotografo fra i più squinternati (categoria entro la quale fieramente mi classifico), per quanto risicate siano le sue nozioni tecniche, ogni volta che esegue uno scatto, si deve confrontare con il problema di interpretare una porzione di realtà. Non fosse altro per il banalissimo fatto che deve scegliere un’inquadratura, ossia discriminare cosa far vedere da cosa escludere.



La logica stessa del fotografare, per quanto uno sia infimamente foto-cagnevole, non concede di sottrarsi al compito di cavar fuori porzioni d’«invisibile» dal «visibile». Quel “taglio” del mondo dato dalla specifica inquadratura scelta, prima di quello scatto (per quanto brutto e malfatto), non esisteva. Da quel gradino minimale e brutale, verso le quote più elevate della scala di raffinazione, tutto è migliorabile e perfettibile. Dall’originario e fondante atto di tagliare fuori la parte di mondo che non c’interessa con la nostra inquadratura, si passa a sempre più sottili considerazioni dei soggetti che si vogliono fare entrare nel campo di visuale, sino alla ricerca di strutture di significati visivi sempre più nobilitati, come la ricerca di particolari equilibri o contrasti di luce, di colori, di forme, e così via. L’inquadratura è il gesto elementare, il nucleo originario “monocellulare” imprescindibile, a partire dal quale i significati dell’atto di fare fotografie possono essere vieppiù incrementati in quanto a complessità e profondità di implicazioni, sino a dare vita ad un “organismo fotografico” molto articolato.

I risultati eccelsi, alla fine, saranno prerogativa soltanto di pochi eletti, ascrivibili nella ristretta cerchia del “cliccatori artistici”. Ma i fondamenti di base del meccanismo sono accessibili a tutti. Quello che interessa qui non è un invito a diventare artisti affermati, ma è sottolineare come l’atto di scattare foto rappresenti un ottimo strumento di auto-educazione al senso della bellezza. Stimola ad essere curiosi, ad osservare le cose con più attenzione, per cogliere strutture compositive non banali. E da qui spinge a portare alla luce costruzioni armoniche di forme altrimenti destinate a scorrere “invisibilmente” nell’anonimato indistinto del mare magnum degli impulsi “visibili”.

In più, tutto questo, oltre ad essere fonte di dilettevole miglioramento della propria sensibilità formale, può fornire buoni argomenti di confronto con l’arte in generale, consentendoci di dire qualcosa di nostro di fronte a qualsivoglia opera, di qualsiasi epoca ed artista.


sabato 7 aprile 2012

Pasqua Delicada a tutti


Questi sarebbero una specie di auguri pasquali, che cominciano però nella classica modalità del più remoto andarperpensierismo.

Mi sono accorto che le epifanie del lettore possono capitarti quando meno te le aspetti e provenire dalla fonte più impensata. Da un giallo, ad esempio.

In questi giorni, sto leggendo un romanzo giallo che mi piace parecchio.

Già in altra occasione raccontai di essere un lettore anomalo di gialli. L’intrico della trama mi interessa fino ad un certo punto. D’accordo, un impianto narrativo bello a garbuglio ci deve essere, perché senza una storia leggermente rompicapo e pollicinamente seguace di “indizi-briciola” disseminati lungo i capitoli, non si potrebbe nemmeno propriamente parlare di vicenda gialla.

Ma un giallo mi affascina molto di più se la psicologia dei personaggi è tratteggiata con sapienza narrativa particolare. Questo sicuramente si verifica nel giallo che sto leggendo adesso, un bel romanzo della scrittrice spagnola Alicia Giménez-Bartlett, una tipa che sicuramente sa come si tiene in mano la penna. S’intitola «Un bastimento carico di riso».

Il meglio del meglio per me, in fatto di gialli, capita appunto quando questi sanno riservare anche vere e proprie epifanie del lettore: la funzione della storia, in quei passaggi, cessa di essere ristretta al puro divertimento e comincia ad assumersi anche alcune, seppur velate, “responsabilità romanzesche”. Oltre a farti trascorrere il tempo, piacevolmente avvolto dalla tensione che ti calamita verso la risoluzione dell’intreccio, ti fa allora riflettere su aspetti della vita, te li pone dinnanzi visti da prospettive inusuali, te li dipinge sotto forme non comuni, capaci di far scattare dentro la molla della divagazione cogitabonda.

Questi sono i gialli che mi piacciono di più e in «Un bastimento carico di riso» ho trovato un’epifania del lettore molto bella. Il personaggio principale dei gialli di Alicia Giménez-Bartlett è l’ispettore di Polizia Petra Delicado. Si tratta di una sorta di Maigret in gonnella, perché pur essendo molto diversa come carattere dal burbero commissario francese, anche lei fa della psicologia e dell’empatia con il prossimo le sue armi investigative migliori. Petra Delicado è un personaggio molto bello innanzitutto perché è dipinta con tratti intensamente umani, e come ogni persona vera risulta spesso forte della coerenza delle proprie contraddizioni.

Come nella miglior tradizione gialla, anche Petra Delicado è corredata dal proprio controcanto umano: si tratta del vice-ispettore Fèrmin Garcon, che nelle avventure affrontate al fianco della sua superiore svolge l’importantissimo ruolo di spalla di completamento, lo specchio che riflette un “simile-contrario”, il dottor Watson della situazione, la moglie ai fornelli di Maigret, il papà di Ellery Queen, l’Archie Goodwin Nerowolfiano, l’Adso nella manica di Guglielmo da Baskerville, un “Aigor” in laboratorio per  il dottor Frankenstiiin.

Nella dinamica di amicizia fra Petra e Fèrmin, nelle loro piccole schermaglie sempre poggiate su sfondi bonari e solidali, si giocano le scene più belle delle loro storie. Un altro felice segreto di questa alchimia narrativa, sta nel fatto che una simile intesa rodata da anni di collaborazione sul lavoro, pur fondandosi alla fine su un affetto profondo, non sfocia mai per i due in qualcosa che vada oltre.

Il territorio amoroso, Petra e Fèrmin lo esplorano ciascuno per proprio conto, con altri personaggi di volta in volta inseriti nelle storie, ma fra loro rimane sempre quella tensione positiva, quell’attrarsi degli opposti, quella convergenza all’infinito mai risolta in aderenza, capace di far gustare in pieno al lettore questa sapiente alchimia di caratteri.

Ed è proprio nella descrizione di un incontro amoroso in cui Petra si ritrova coinvolta, che in «Un bastimento carico di riso» ho rinvenuto una delle più belle scene erotiche mai lette. Non viene descritto praticamente nulla di fisico, se non con vaghi cenni. Ma del trasporto passionale c’è tutto, ne viene colta la più intima essenza, o perlomeno quella che anche io ritengo debba essere tale.

Osservate, leggete con me:

«…Passo dopo passo verso la camera da letto, ci cercammo, ci strappammo l’un l’altro i vestiti tirandoli con rabbia. Immagino che al letto ci arrivammo, ma non ne sono sicura, perché quando sentii la sua pelle calda toccare la mia persi ogni nozione dello spazio e del tempo, e solo il centro del mio corpo mi servì da guida. Riprendemmo coscienza del mondo fra le risate. Veri e propri scoppi di ilarità, quelli con cui si festeggia la pienezza del piacere, la soddisfazione di essere vivi attraverso il sesso, l’allegria per la fantastica marachella che è fare l’amore, uno sberleffo alla tristezza e alla morte…».

Quale miglior modo di augurare buona Pasqua a tutti, mi sono detto allora, se non citando questo bel brano di ottima letteratura?

Non per un irrispettoso senso del mischiare il sacro al profano, si badi bene. Non per ostentare chissà quali tendenze alla trasgressione (se un giorno vi accorgerete che sto diventando trasgressivo, siete autorizzati a sputarmi in un occhio…). Ma per ricordare ciò che in occasione di feste solenni come questa a mio parere è sempre opportuno sottolineare. Come esseri umani siamo pur sempre imperfetti, difettosi e densi di contraddizioni nel nostro intimo. Ora densamente disperati e un attimo dopo, eccoci lì, pronti di nuovo ad inalare gioia da tutti i pori, instancabilmente affamati di una felicità che mai non sazia.

Ma ciò che ancor prima di questo ci contraddistingue è la scintilla di bellezza recata nel proprio profondo da ciascuno. E dovere di ogni individuo è portarla alla superficie, farla risplendere al meglio e possibilmente, condividerla.

Pasqua Delicada a tutti voi, dunque, cari amici viandanti per pensieri.

lunedì 2 aprile 2012

Clà gran pàrtida ad Vimblèdòn



Quando esce una novità tecnologica, per un po’ essa funziona anche da calamita sociale. 

In un primo momento, vuoi per ragioni economiche, vuoi per impreparazione e reverenziale timore tecnico, in pochi se la possono permettere. Le contraddittorie ragioni dello status symbol (hai in casa l’ultima diavoleria alla moda e non ci fai schiattare un po’ d’invidia gli amici?), unite ad altre dinamiche, fanno poi il resto e scatta la molla della condivisione.

La cosa curiosa sta nel fatto che con la successiva diffusione capillare, la novità tecnologica esaurisce la propria funzione socializzante e s’incammina esattamente nella direzione opposta, ossia verso un’accentuazione del godimento privato.

Chiamerei questo fenomeno «effetto “Lascia o raddoppia”». 

Sappiamo tutti che la tv, alle sue prime apparizioni, funzionò per un po’ di tempo come veicolo di intensificazione sociale, inizialmente proprio nel nome del popolarissimo quiz di Mike Bongiorno, che riuniva famiglie diverse di amici sotto uno stesso tetto, o piccole platee festose nei bar dotati del nuovo focolare catodico. Finito tuttavia il primo eroico periodo pionieristico, lo strumento tecnologico prolifica a dismisura, invade tutti sino a divenire una presenza scontata e si tramuta in uno stimolatore di rinnovata individualità.

L’«effetto “Lascia o raddoppia”» è capitato e continuerà a capitare soprattutto in relazione a novità tecnologiche che hanno a che vedere con gli scambi comunicativi. E’ capitato anche prima di “Lascia o raddoppia”, col telegrafo o col telefono ad esempio (un luogo dotato di apparecchio era naturalmente visto come punto di riferimento comunitario), ed è capitato dopo, con internet (i primi “internet-point” sono stati per me ed i miei amici un prolungamento planetario del piacere di stare assieme in un bar) e così via.

Tanto per dire: solamente qualche sera fa, la magia del “camino tecnologico” si è ripetuta in compagnia di un amico, fra di noi unico possessore per il momento di I-pad, sbocconcellando hamburger da Mac Donald, fra una ricerca su google e l’altra.

Oggi però, alla faccia di tutte le introduzioni prese su alla larga, era di tennis che volevo parlare. Cosa minchia c’entri il tennis con l’«effetto “Lascia o raddoppia”» lo scoprirete solo leggendo. 

Era il pomeriggio del 6 luglio 1980. Allora non lo sapevo, ma proprio quella giornata stava per segnare il termine di una certa “infanzia epocale”. Si sarebbe portata via un ultimo strascico di «effetto “Lascia o raddoppia”» propriamente riferito alla tv e riapparso in quell’occasione sottoforma di prezioso ricorso storico. Ma si sarebbe portata con sé anche la mia eroica idea del tennis di allora, insieme forse ad una parte della mia infanzia stessa.

Quel pomeriggio si giocava la finale del torneo di Wimbledon e l’erbetta del campo centrale, ormai tradizionalmente lisa nelle posizioni di battuta dopo circa un mese di gare, sarebbe stata calpestata da due eterni semidei della racchetta: John McEnroe e Bjorn Borg. Coincidenza volle che la partita più leggendaria della storia del tennis capitasse nel momento della mia massima infatuazione per questo sport.

A quei tempi, Gillipixiland sembrava essersi tramutata in un sobborgo inglese, o in una sorta di Flushing Meadow basso-padana, e non c’era ragazzino che non alternasse con spasmodica frequenza l’impugnatura della racchetta a quella di un altro manico personale, capace anch’esso di mettere parecchio alla prova le acerbe energie agonistiche tipiche di quelle fasi della vita.

Oggi non saprei dirvi che differenza passa tra Rafa Nadal e Paco Rabanne, e nemmeno capisco bene, quando sento pronunciare la parola Federer, se s’intenda parlare di un corriere espresso o di qualcosa che attiene al mondo dello sport. 

Ma allora sciorinavo i nomi dei tennisti come fossero le formule magiche di un mantra eroico: Vitas Gerulaitis, Guillermo Vilas, Jimmy Connors, Ilie Nastase, Roscoe Tanner, la coppia di doppio McNamara-McNamee, Boris Becker, Ivan Lendl, Martina Navratilova, Arancia Sanchez. Una serie di suoni che mi esaltavano, spronandomi a catapultarmi di corsa al campetto di cemento rosso, con le mie 4 palline spelacchiate e la racchetta lignea di ottava mano, ritrovata nella spazzatura dai miei zii in città, e tosto riciclata ad usi sportivi campagnoleschi.

Il campetto apparteneva ad una ditta che per un lungo periodo concesse a tutti di giocarci senza versare una lira, proletarizzando in questo modo come per incanto uno sport ritenuto in ogni altra parte del mondo faccenda d’elite, di pertinenza esclusiva dei club privati più “merdoneschi”. I pomeriggi interminabili trascorsi su quel campetto o appena a lato dei suoi bordi, finivano per diventare delle lunghe maratone di amicizia ribadita, di giocosità condivisa su tutti i piani, prima di tutto quello dello spallettare a racchettate, ma poi sfociando anche nelle chiacchiere infinite senza scopo e senza meta.

In questo clima, venne a cadere l’appuntamento del 6 luglio 1980. 

Faceva caldo (o almeno così mi pare di ricordare) e ovviamente la tele a casa ormai chiunque ce l’aveva. Ma in una quindicina preferimmo ammassarci nella risicata saletta tv del “Bar sport”, irresistibilmente attratti dal rinnovato fascino di un «effetto “Lascia o raddoppia”» ormai fuori epoca massima. La platea era composta dall’intera gamma del più variegato “parco bestie” di animali da bar assortiti. 

C’era il vitellone navigato, con il pacchetto di Muratti tatticamente incastonato nel corto calzino bianco, e più ore di bancone da bar sul groppone lui, che Stakanov a forare miniere. C’era qualche sbarbatello come me, allora ancora attestato sugli ultimi gradini della gerarchia sociale degli elementi da bar. C’era soprattutto il fior fiore dei tuttologi locali, particolarmente e multi-disciplinarmente ferrati in materie onni-sportive, figure indispensabili a concimare la latifondistica coltura di cazzate che quasi spontaneamente fiorisce nei terreni umani di questo tipo. 

Eravamo in tanti e diversi, insomma, ma nessuno sapeva ancora, nell’atto di posare le chiappe sulle scomode sedie del “Bar sport”, che si sarebbe trattato di un pomeriggio a suo modo memorabile, da raccontare poi dopo ancora a distanza di anni. Quella partita, lo sanno praticamente tutti, passò alla storia del tennis come una delle più belle di sempre. Durò oltre tre ore, Borg e McEnroe diedero il meglio di sé, senza risparmiare nessun tipo di energia, di eroismo tecnico, di invenzione spettacolare, e senza lesinare gesti di bellezza atletica di ogni tipo. 

Fondersi a quell’evento in compagnia della variegata e cara umanità in cui ero immerso quel pomeriggio, fu un’esperienza nell’esperienza, un viaggio nella dimensione dello sport condiviso nel modo più popolaresco e genuino. Di man in mano che i games e poi i set si accumulavano, la luce verdolina posata dal teleschermo sulla nebbia delle sigarette di cui l’angusta saletta era ormai satura, andava acquistando tonalità sempre più allucinatorie. Il match s’intensificava nei suoi tratti leggendari e di pari passo la chiassosa atmosfera nella saletta si andava intridendo di lazzi d’esultanza, dialettali battutacce goliardiche, gioiose dissertazioni dettate dallo stupore e dalla contentezza di stare vivendo insieme la libertà pura di quel pomeriggio sportivo, nel pieno fulgore del più assoluto “perdigiornismo”. Fra goccetti di bianco, bicchieri di spuma e scartocciamenti di boeri (i cioccolatini dall’anima liquorosa, forieri di prolifiche ripetizioni omaggio), tirammo a sera, abbandonando le sedie solo dopo l’ultima palla dello storico tie-break conclusivo, che non pareva finire mai.

Un’altra cosa che ancora non sapevamo, rinvenendo alla luce naturale da quella fumeria d’oppio sportivo in quel tardo pomeriggio del 6 luglio 1980 e rincasando lieti della bella giornata trascorsa insieme, era che entro non molti anni il tennis sul campetto sarebbe finito con scarsa gloria, patendo il misero destino di molte cose gratuite, mentre in seguito si sarebbe pagato anche per vederlo in tv. 

Ma di lì a poco sarebbero venuti i tempi dei tennisti robotizzati, dei match giocati per lo più sulla potenza da fondo campo, sugli “ace” in battuta, sulla tensione delle corde, e a nessuno di noi, fini degustatori di estetica sportiva distillata dalla gratuità da bar più limpida, gliene sarebbe fregato più niente di una roba del genere.