venerdì 31 gennaio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Egon Schiele (1890-1918)

 

Ed eccoci giunti ad un nuovo appuntamento con “Le muse di Kika van per pensieri”, rubrichetta settimanale “gemellata”, nella quale Kika vi riveste i personaggi delle opere d'arte, mentre io invece cerco per essi un possibile volto noto tratto dalla, più o meno, attualità.

Stavolta la scelta di Kika è caduta su uno dei più inquieti e tormentati autori della storia dell'arte, l'austriaco Egon Schiele (Tulln 1890 – Vienna 1918). Più precisamente, parliamo di un'opera di Schiele del 1917, il ritratto intitolato “La moglie dell'artista seduta”.

Se nella scorsa puntata ci siamo avventurati nell'universo «impressionista» con Marie Bracquemond, oggi passiamo totalmente al di là della barricata. Anche se l'operazione di classificazione per correnti e scuole è sempre un po' artificiosa e forzata (soprattutto nel caso delle grandi personalità creative), possiamo dire che l'opera di Schiele si può inquadrare per sommi capi nella grande famiglia dell'«Espressionismo» tedesco.

Mi affido come di consueto alla limpidezza espositiva di Giulio Carlo Argan, mia guida imprescindibile in queste mini-escursioni nel mondo dell'arte: «...Letteralmente, espressione, è il contrario di impressione. L'impressione è un moto dall'esterno all'interno: è la realtà (oggetto) che s'imprime nella coscienza (soggetto). L'espressione è un moto inverso, dall'interno all'esterno. E' la posizione antitetica a quella di Cézanne, assunta da Van Gogh. Nei confronti della realtà, l'Impressionismo manifesta un atteggiamento sensitivo, l'Espressionismo un atteggiamento volitivo, talvolta anche aggressivo..».

Egon Schiele si forma nell'ambiente artistico viennese di inizio Novecento, assorbendo linfa creativa sia dalle raffinatezze grafico-pittoriche di Klimt, sia dalla cruda lezione espressionistica di Kubin e Kokoschka. Nelle sue opere, sia per quanto riguarda le tematiche, sia da un punto di vista tecnico-espressivo, Schiele indaga a fondo le più angoscianti inquietudini dell'esistenza. Erotismo e morte si fondono nei suoi soggetti in un abbraccio spesso straziante e al limite del maniacale, senza mancare tuttavia di sfociare a tratti in inattese ed anarchiche radure dell'animo, rischiarate dalla luminosità straniante di un senso di irresponsabile tenerezza. Schiele è quasi ossessionato dai corpi, suoi soggetti preminenti. La morbosità con cui si attarda ad esaminare persino i dettagli fisici più intimi si confonde quasi con una sorta di ingenuità sensuale primitiva.

Suo strumento espressivo privilegiato è la linea nera molto marcata, che si assottiglia e diviene contorta ed incisiva come una sorta di “filo di ferro grafico” (per non dire un'«ideale filo spinato»), ad avvolgere e quasi ad imprigionare le figure ritratte. Su questo elemento nettissimo di demarcazione si gioca tutta la tensione espressiva di Schiele, in una concezione della vita sempre intesa sul filo dei suoi drammatici estremi.

Altrettanto drammatica e tormentata fu la vita di questo artista. La sua ricerca creativa sempre al limite, gli costò varie condanne per immoralità, pornografia e corruzione. L'esistenza stessa di Schiele si chiuse in modo drammatico e precoce: venne stroncato a soli 28 anni d'età, dalla terribile epidemia di febbre spagnola, che fece centinaia di migliaia di vittime in tutta Europa, sul finire degli anni '10 del Novecento.

E veniamo a questo punto all'indagine di un possibile volto noto da assimilare a quello del soggetto ritratto nel dipinto di Schiele. Come sempre, la similitudine che sono andato a stanare non presenta caratteristiche strettamente “fotocopiative”. Trovare ogni volta un viso identico sarebbe impresa molto ardua e forse impossibile. Le somiglianze che propongo sono invece sempre allusive, forniscono un richiamo, un'analogia ideale, un'assonanza “per tipo fisiognomico”.

E adesso, dopo essermi parato il fondo-schiena anche per questa volta, vi rivelo il volto scelto. Per ironia della sorte, è un personaggio molto legato al sacrosanto diritto “Johnny-Stecchinesco”, da me invocato spesso a beneficio del lettore poco convinto, sempre libero di poter dichiarare: «...Non le rassomiglia pe' nnniente!...».
 

Ma "...santa Cleopatra!..." Sì! E' proprio lei, Nicoletta Braschi. Forse stride un po' l'idea che in genere si ha di questa attrice, quasi sempre impegnata in ruoli comici al fianco del marito Roberto Benigni, se rapportata all'espressione malinconica del personaggio del quadro. A ben guardare però, i tratti caratteriali da lei solitamente impersonati tendono sempre ad una svagatezza e ad un'evanescenza alquanto indefinite. Allora per questa volta, oltre ad indicare il volto della Braschi, voglio anche circostanziarlo in uno specifico personaggio da lei interpretato, ossia l'impalpabile e fragile figura della professoressa di «Ovosodo», film di Paolo Virzì del 1997. Non che l'immagine che vi presento sia tratta da quel film: è più un richiamo ideale a quel personaggio.
 

E anche per oggi è tutto, cari amici viandanti per pensieri: appuntamento alla prossima puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”.


venerdì 24 gennaio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Marie Bracquemond (1840-1916)

 
Questa settimana, le muse di Kika vanno per pensieri addentrandosi in sentieri molto poco battuti. L'artista scelta da Kika per la presente puntata è una donna, Marie Bracquemond (Argenton-en-Landunvez, 1840 – Parigi, 1916), con una sua opera del 1880, “La signora in bianco”. Il suo nome, legato alle vicissitudini del movimento impressionista francese, è assai poco noto e viene considerato più che altro di riflesso alla figura del marito, Felix Bracquemond (Parigi, 1833 – Sèvres, 1914).

Sino ad un certo periodo storico, le donne annoverate come protagoniste attive dalla storia della pittura e dell'arte in genere, si contano veramente sulla punta delle dita di una mano. Se rovisto nelle mie scarse nozioni personali, mi vengono in mente soltanto Artemisia Gentileschi (Roma, 1597 – Napoli, 1652) e Sofonisba Anguissola (Cremona, 1535 – Palermo, 1625). Partendo da questi semplici spunti, si potrebbe trarre una mole di considerazioni filosofiche, antropologiche, sociologiche, tali da starci dentro comodi per una tesi di laurea. Per non allungare così tanto il discorso (...paura, eh?...), mi limito ad una piccola considerazione in merito. E' impressionante pensare quanta bellezza e sapienza potenziali l'umanità abbia smarrito per strada, per il fatto di aver ostacolato e resa subalterna l'espressività femminile per così tanto tempo.  
Marie Bracquemond

All'epoca in cui Marie Bracquemond mosse i primi passi artistici (il suo nome da nubile era Marie Anne Caroline Quivoron), era ancora molto difficile per una donna riuscire ad imporre la propria opera all'attenzione della critica e del pubblico. Nello stimolante ambiente culturale della Parigi della seconda metà dell'Ottocento, Marie riuscì tuttavia a stabilire importanti contatti entrando niente meno che nella cerchia di allievi del grandissimo Jean-Auguste-Dominique Ingres. Il talento di Marie venne notato dal responsabile dei musei francesi dell'epoca, il conte Émilien de Nieuwerkerke, che le commissionò l'esecuzione di copie di capolavori famosi custoditi al Louvre.

Fondamentale fu l'incontro con l'uomo che divenne poi suo marito, Felix Bracquemond «...pittore, incisore, ceramista e teorico che, tra l'altro, fu il primo a studiare e diffondere l'arte giapponese come quella che non distingueva tra “concetto” e decorazione, e con la sintesi di segno e colore comunicava, non già i pensieri o le emozioni dell'artista, ma la propria straordinaria perfezione di “stile”...» (Giulio Carlo Argan).

La conoscenza di Felix Bracquemond permise a Marie di avvicinarsi al mondo allora in pieno fermento degli Impressionisti. Sul finire degli anni '80 dell'Ottocento, per lei s'intensificarono i contatti con alcune delle figure di primissimo piano di questa corrente pittorica, in particolare Monet e Degas, dai quali trasse una profonda influenza.

Parlare dell'Impressionismo prenderebbe lo spazio non di una, ma forse di tre o quattro tesi di laurea, di modo che mi affido come sempre alla sapiente sintesi di Argan, per non mancare di portare almeno qualche breve cenno fondamentale in merito. L'Impressionismo nasce dall'esigenza artistica di «...liberare la sensazione visiva da ogni atteggiamento preordinato che ne possa pregiudicare l'immediatezza, e l'operazione pittorica da ogni regola o consuetudine tecnica che ne potesse compromettere la resa mediante i colori...» (si noti la non casuale affinità col discorso relativo all'arte giapponese, citato sopra). L'Impressionismo mirava altresì a «...dimostrare che l'esperienza della realtà che si compie con la pittura è una esperienza piena e legittima, che non può essere sostituita con esperienze altrimenti compiute...».

L'opera di Marie Bracquemond è inserita a pieno titolo in questo contesto culturale e di ricerca, è viene da chiedersi quanto il fatto che fosse una donna, ne penalizzò la fama e la fortuna artistica. Non è un caso se Gustave Geffroy (Parigi, 1855 – Parigi, 1926), letterato, giornalista, critico d'arte, storico e romanziere, uno dei dieci fondatori dell'Académie Goncourt, ebbe a definire Marie Bracquemond, insieme a Berthe Morisot (Bourges, 14 gennaio 1841 – Parigi, 2 marzo 1895) e Mary Cassatt (Pittsburgh, 22 maggio 1844 – Château de Beaufresne, 14 giugno 1926), le «...tre gran dame dell'impressionismo francese...».

Molto pregevole il dipinto scelto da Kika, “La signora in bianco”, un olio su tela conservato al Musée de la Ville, di Cambrai. Per i suggestivi abbinamenti con l'abbigliamento della protagonista, vi rimando al sapiente occhio di Kika, che vi stupirà come al solito da par suo.
 

Per quanto mi riguarda invece, vi propongo il mio abbinamento somatico col volto della dama in bianco di Marie Bracquemond. Si tratta ancora di un'attrice, anche lei attiva alcuni anni fa, ed oggi purtroppo scomparsa.
 


Il volto di questa grande interprete inglese, Jessica Tandy (Londra, 7 giugno 1909 – Easton, 11 settembre 1994), mi è molto caro soprattutto riguardo a due bellissimi film nei quali ha recitato durante la sua luminosa vecchiaia, “A spasso con Dasy” (1989) e “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” (1991), anche se la foto che ho scelto la ritrae in una scena di “Gli uccelli” (1963) di Alfred Hitchcock.
 
 
Come sempre, prima di salutarvi e darvi appuntamento alla prossima puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”, vi rammento il vostro inalienabile diritto di poter “Johnny-Stecchinizzare” le mie scelte fisiognomiche, con la fatidica sentenza: «...non le rassomiglia pe' nnniente!...».
 


venerdì 17 gennaio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Amedeo Modigliani (1884-1920)


Molto interessante la scelta di Kika per questo appuntamento settimanale con la sua rubrica di arte e moda su «Le muse di Kika». Il dipinto proposto per l’occasione è il ritratto di «Jeanne Hébutherne in maglione giallo», di Amedeo Modigliani. Già solo il nome di questo autore evoca, anche in chi conosce vagamente la storia dell'arte, tutto un universo emozionale ed immaginifico, legato agli ambienti bohemiene parigini tra fine Ottocento ed inizi Novecento. Con una definizione un po' stiracchiata ed “artigianale”, potremmo parlare di Modigliani come di una delle prime “rockstar” della storia dell'arte. Visse un'intensissima ma assai breve esistenza, traboccante di eccessi e sregolatezze (muore a Parigi nel 1920, a soli 36 anni), e fece della sua vita, al pari delle sue sculture e pitture, un'opera d'arte di per se stessa.

Modigliani era nato a Livorno nel 1884 e si era formato artisticamente nella cerchia dei principali esponenti del movimento dei “macchiaioli”, frequentando lo studio di Guglielmo Micheli e avendo significativi contatti anche con Giovanni Fattori. Sempre in età giovanile, durante gli studi compiuti in seguito alla scuola di belle arti di Venezia, subì l'influenza anche dello Jugendstil e della cultura figurativa della secessione viennese, con particolare riferimento alla poetica di Gustav Klimt.

L'anno decisivo nella biografia di Modigliani è il 1906, quando l'artista livornese decide di trasferirsi a Parigi. Qui conosce il lavoro dei Fauves, il Cubismo, e soprattutto l'opera di Paul Cézanne, il pittore al quale più di ogni altro deve la formazione della propria concezione artistica. Cézanne sta alla storia dell'arte come Cartesio sta a quella della filosofia. E' a partire da questi due nomi che si può iniziare a parlare di “modernità” in questi due fondamentali ambiti della conoscenza umana. Così come accadde con Cartesio nelle discipline filosofiche, anche con Cézanne, nell'arte, il “fuoco dell'attenzione” si ribalta dalla “realtà” alla “coscienza”.

Con la sua consueta, adamantina limpidezza concettuale, dice in proposito Giulio Carlo Argan: «...Cézanne [è] rivolto a formare una nuova, concreta immagine del mondo...[...] questa, però, non doveva più essere cercata nella realtà esterna, ma nella coscienza...[...]...Non si può pensare una realtà se non in quanto è recepita da una coscienza, non si può pensare la coscienza se non in quanto è riempita dalla realtà; e non si può concepire una struttura, un ordine costitutivo della realtà e del suo divenire che non sia la struttura o l'ordine della coscienza nel suo formarsi...[...]...L'opera pittorica non riproduce, produce la sensazione: non come dato per una successiva riflessione, ma come pensiero, coscienza in atto...» (“L'arte moderna 1770-1970” - Giulio Carlo Argan1982).

Non si può allora capire Modigliani (ma nemmeno il Cubismo e tutta l'arte moderna), se non si tiene conto della lezione di Cézanne. Anche per Modigliani dunque l'atto di dipingere si genera a partire dall'incontro fatale tra realtà e coscienza, concretato sulla tela. Questo comporta innanzitutto lo scardinamento della prospettiva, che per secoli aveva rappresentato un caposaldo a garanzia della sussistenza di una realtà esterna presa come dato di fatto (la kantiana «cosa in sé») indipendente dalla coscienza, e la riscoperta di linee e colori come componenti grezzi a partire dai quali si poteva rifondare una nuova consapevolezza dell'atto percettivo e quindi della presa di coscienza della realtà.

In questa “logica” si inserisce tutta la ricerca di Modigliani, che ovviamente la declina secondo un proprio percorso ed una sensibilità autonoma. In particolare, molto importanti si dimostrarono per l'artista livornese le influenze apportate al suo cammino artistico, dalla conoscenza dello scultore rumeno Constantin Brâncuși (1876-1957), col quale condivise una comune passione per l'intensità figurativa della scultura primitiva africana, che portò entrambi a concentrare la propria ricerca intorno alla forza espressiva e ritmica della linea.

Il dipinto di Modigliani scelto da Kika ritrae la donna che fu musa ispiratrice del pittore per diverse tele, nonché sua compagna di vita: Jeanne Hébutherne. Leggendo gli aneddoti legati alla relazione fra i due, sembra proprio di sentir parlare di una coppia “Kurt Cobain – Courtney Love” ante litteram. Tanto per rendere l'idea, riporto da wikipedia: «...Le litigate pubbliche con Jeanne Hébuterne divennero proverbiali tra gli habitué dei locali di Montparnasse, tanto che parecchi si rifiutavano di farli entrare...».

L'opera «Jeanne Hébuterne in maglione giallo», olio su tela datato intorno al 1919, attualmente è conservata al «Solomon R. Guggenheim Museum» di New York.

Mi piace anche rammentare che il nome di Modigliani è legato ad una delle più clamorose “beffe artistiche” della storia. Secondo voci leggendarie, prima di abbandonare la propria città alla volta della Francia, Modigliani, in preda alla disillusione creativa, avrebbe scagliato alcune sue sculture nel canale che attraversa Livorno. Sulla base di queste notizie, nell'estate del 1984 si diede inizio ad estese operazioni di dragaggio delle acque del canale, alla ricerca delle fantomatiche opere. Un gruppetto di tre amici buontemponi pensò di architettare una burla dal tipico sapore toscaneggiante: realizzarono alla bene meglio una pseudo-composizione plastica alla maniera di Modigliani, ricavandola da un rozzo pietrone, e la gettarono nel canale. Ad essi si aggiunse l'iniziativa beffarda di un altro giovane, un pittore e sperimentatore artistico livornese, che ebbe la stessa pensata. Il resto è storia nota: praticamente l'intero mondo della critica d'arte (compreso il mio beneamato Argan, ahimè!), al momento del rinvenimento della bufala scultorea, abboccò in pieno stile, scambiando quelle pietre sgangherate, per veri Modigliani. Nella sua bizzarria, questo episodio a mio parere segna una “tappa collaterale” di fondamentale importanza per la storia dell'arte, soprattutto di quella moderna. Da una parte, la beffa di Livorno ha ribadito la fragilità del “concetto di arte”, così legato a fattori emotivi e soggettivi, ma nel contempo ha confermato la potenza della sua essenza poetica, del suo essere espressione dell'interiorità umana più profonda, ingovernabile ed indimostrabile sul piano della razionalità.

Come già illustrato la settimana scorsa, la presente rubrichetta, accodata a quella su moda ed arte realizzata sul suo blog da Kika (che da parte sua indaga le affinità dal punto di vista dell'abbigliamento), si propone di ricercare una somiglianza tra il personaggio del dipinto in questione, e qualche viso noto, nostro (più o meno) contemporaneo. La sfida presentata dal quadro di Modigliani era di tutto riguardo. In particolare, la deformazione dei tratti somatici tipicamente «modiglianesca», l'allungamento del viso e soprattutto del collo, che sono un po' la firma dell'artista, hanno reso la mia indagine ancor più affascinante, ma impegnativa. Le somiglianze che sono riuscito ad escogitare questa volta sono ben due. Non perché sia stato più bravo della volta scorsa, ma forse proprio per il motivo opposto. Come al solito, le somiglianze scovate sono parziali. Più che somigliare nel vero senso della parola, suggeriscono, “riecheggiano l'idea”. Insomma, per fare una somiglianza forse passabile, ce ne son volute due.
 

Per il primo personaggio celebre, ho dovuto andare a rovistare abbastanza nel passato. Si tratta di un'attrice la cui immagine mi è sempre stata cara, perché suscita ricordi d'infanzia, anche se molto vaghi e confusi, di tv in bianco e nero, di antichi caroselli e di lontani sceneggiati televisivi. Per meglio avvicinarmi alla similitudine col dipinto di Modì, ho trovato una delle sue poche immagini giovanili disponibili sul web. Dubito che qualcuno la riconosca.
 

E' Lina Volonghi (Genova, 4 settembre 1914 – Milano, 24 febbraio 1991), gloriosa interprete radiofonica, televisiva, teatrale e cinematografica.

L'altro viso dai notevoli richiami «modiglianei», l'ho rinvenuto invece per caso, proprio nel cercare immagini di Lina Volonghi. Non conoscevo questo personaggio. E così questa volta, il gioco di ricercare famosi sosia di soggetti ritratti in dipinti illustri, oltre al divertimento, mi ha regalato anche il piacere di conoscere qualcosa di nuovo. Ecco la mia seconda ipotesi fisiognomica.
 

Da una gloriosa artista del passato, ad una nuova leva del teatro di altissima qualità: Elisabetta Valgoi, bravissima attrice romana, insignita nel 2012 del prestigioso premio UBU, una delle maggiori onorificenze italiane riservate ai protagonisti del palcoscenico di casa nostra.

In conclusione, come ho già accennato, non so se le somiglianze proposte stavolta risultano davvero efficaci. Per chi legge, resta sempre valido il diritto fondamentale di parafrasare la celebre sentenza di Johnny Stecchino: «...Non le rassomiglia pe' nnniente!...».

Ma in questo caso mi consola il fatto che il medesimo soggetto del quadro, ossia la stessa Jeanne Hébuterne in persona (della quale ho trovato una foto), non è che somigliasse poi così tanto a come la vedeva Amedeo Modigliani. O sbaglio?...
 

E con questo, arrivederci alla prossima puntata della rubrichetta «Le muse di Kika van per pensieri».
 


martedì 14 gennaio 2014

Non è un capello, ma un crine di cavillo

 

«…Quasi quasi mi faccio uno shampoo…» diceva qualche tempo fa il buon caro Giorgio Gaber.

Già. Si faceva presto, una volta, a dire «…mi faccio uno shampoo…». Perché anche questa azione spicciola di banale manutenzione corporale, si va ormai facendo sempre più complicata ed astrusa col passare del tempo. E' da parecchio che mi affido ad una certa marca, per quanto riguarda la scelta dello spumoso unguento netta-criniera. Niente da dire, non mi sono mai lamentato, il prodotto fa il suo dovere in maniera soddisfacente, e dopo il risciacquo dei capelli, dovrebbe essere finita lì.

Non si può tuttavia non accorgersi di quanto la frenesia per l'«iper-specializzazione inutilitaristica» si sia andata sempre più impossessando anche della mente dei creatori di questo articolo commerciale, fino a rasentare picchi di surrealismo consumistico veramente degni di nota. Sapete bene anche voi come funziona il giochetto. Prendiamo ad esempio un prodotto di consumo dalle funzionalità piuttosto semplici, per non dire quasi banali.

Scegliamone uno a caso: lo shampoo! Toh, che combinazione!

Cosa deve fare uno shampoo? Pulirti i capelli.

Riesce a farlo in modo adeguato, senza lasciarti calvo alla fine della doccia, senza tramutarti in biondo, da moro che eri, senza farti crescere funghi o antenne sopra la testa? Se riesce a fare queste cose, credo che lo scopo dello shampoo sia bello e che ottenuto.

Ma si sa: la competizione vige sovrana, e dall'imperativo commerciale del “mors tua vita mea”, all'edificazione di veri e propri mondi delle meraviglie fondati sul nulla assoluto, il passo è molto breve. Per sostenere che un prodotto banale è immensamente meglio di quello, altrettanto banale, della marca concorrente, bisogna dare fondo alla riserva delle più arzigogolate cavillosità qualitative. Una roba che, al confronto, l'azzecagarbugli con tutta la compagnia dei sofisti al completo non erano altro che una banda di miserevoli principianti.

Il moderno e più sofisticato azzeccagarbugli è rappresentato non a caso dal tipo umano del pubblicitario, il nuovo e più potente “utopizzatore” del reale. A lasciar fare a lui, pretenderebbe persino di farti credere che una martellata su un piede è meglio di un week-end alle Bahamas in compagnia di Halle Berry.

Ecco allora che anche la diversificazione delle mirabolanti potenzialità degli shampoo tende ad assumere sfumature che hanno del miracoloso. Ci sono shampoo per “capelli difficili da lisciare, secchi o crespi”, altri adatti per “capelli ricci tendenti al crespo”, altri ancora per “capelli normali rapidi ad ingrassarsi”. Shampoo per “capelli mossi ondulati”, shampoo per ”capelli danneggiati o fragili da rivitalizzare”, shampoo per “capelli secchi o sciupati”, shampoo per “capelli lunghi con doppie punte che si spezzano”, shampoo per ”capelli secchi danneggiati e spenti”, shampoo per “capelli leggeri e brillanti di salute”. Manca solo lo shampoo per i palmi delle mani, e poi non ci siamo fatti mancare nulla.

Viene spontaneo dire che se le conoscenze tecnico-scientifiche a nostra disposizione avessero raggiunto quella capacità di “comprendere” la realtà che si potrebbe evincere dalla minuziosa “sensibilità molecolare” dimostrata dai produttori di shampoo, beh, probabilmente buona parte dei guai dell'umanità sarebbero risolti.

Mi sento dunque a questo punto di pronunciare una parola buona a beneficio dei pubblicitari stessi, incaricati di magnificare in modo così minuzioso le sorti luminose e progressive di un'umanità baciata in fronte dalle proprietà taumaturgiche dei loro shampoo. Il mio discorso è molto semplice, fatto con gli occhi negli occhi, direttamente dal consumatore al blanditore: «...Caro magnificatore di inenarrabili meraviglie shampistiche: rilassati, prenditela su più serena! Lo so che la più tremenda cosa al mondo per te, sarebbe farmi mancare la mia dose quotidiana di stupore. So che faresti qualsiasi cosa per vedermi ogni minuto della mia vita blandito e felice. Ma questa volta, sono io che voglio stupire te. Sai in base a quale criterio scelgo lo shampoo sullo scaffale del negozio? Di solito, preferisco quello dal boccetto trasparente, di modo che poi è più facile capire quando sta per finire...».




sabato 11 gennaio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Jean-Honoré Fragonard (1732-1806)

Cari amici viandanti per pensieri, oggi inauguro una rubrichetta in collaborazione con il blog amico «Le muse di Kika». Il rimando aggiornato a questo simpatico blog, lo trovate già da un po' di tempo nel mio blogroll.

Simpatico il blog, simpatica la sua autrice, Kika naturalmente. «Le muse di Kika» (che vi invito ovviamente a visitare) è un piacevole spazio dedicato fondamentalmente alla moda, che con intelligenza e divertimento Kika “contamina” di volta in volta con il discorso del cinema, della letteratura, ma anche e soprattutto, con quello dell'arte.

Il “gioco” che più di tutti mi ha affascinato fin dalle prime visite a «Le muse di Kika», è proprio quello imbastito a partire dallo spunto artistico. Nella sua rubrica del venerdì, Kika sceglie ogni volta un quadro di un autore famoso, e propone poi una serie di foto di accessori d'abbigliamento in sintonia con gli abiti indossati, in genere, dalla protagonista del dipinto in questione. Ho trovato incantevole questo tipo di operazione estetica, perché mette in moto varie componenti: ci vuole occhio, sensibilità formale, capacità di lettura e di reinterpretazione. Perché lo scopo non è tanto di ritrovare pari pari gli stessi capi indossati dal personaggio ritratto (in molti casi, soprattutto per i soggetti storici, sarebbe un compito forzato e quasi impossibile), ma piuttosto consiste nell'andare a scovare componenti moderni di vestiario, che “concordino esteticamente” con quelli proposti dal pittore. Forse la mia spiegazione è un po' fumosa, ma per capire al volo la cosa, basta dare un'occhiata ad alcuni degli appuntamenti del venerdì di Kika.

Con “dipietrificata” titubanza, a questo punto ci si domanderà: ma che c'azzecca un Gillipixel con la moda? Cosa c'entra con la classe e l'eleganza, un tizio che lungo l'anno alterna sempre le stesse due paia di braghe, e completa il proprio “guarda-che-roba”, con un paio di scarpe per l'inverno e uno di sandali per la stagione calda? Ve lo spiego subito.

Commentando appunto diverse volte la rubrica del venerdì di Kika, mi è venuta l'idea di partecipare in qualche modo al suo gioco. Mi sono accorto che, oltre alle analogie con il vestiario, si potevano intessere anche piacevoli similitudini con i volti dei personaggi presenti nei dipinti. Capita che i loro lineamenti suggeriscano affinità coi tratti somatici di personaggi famosi della nostra attualità, o per lo meno del '900. E così, proponendo varie volte alcune curiose somiglianze, è andata a finire che Kika stessa mi ha suggerito: ma perché non ricaviamo da questo gioco una rubrica incrociata fra i nostri blog?

Detto, fatto.

Ed ecco spiegata la genesi della presente rubrichetta, che in ragione di tutti i motivi esposti, ho deciso di intitolare «Le muse di Kika van per pensieri». Dopo ogni pubblicazione del venerdì di Kika, proverò a confrontarmi con la sua scelta della settimana, proponendo un abbinamento con un volto celebre. Avendo ormai tentanto questo tipo di associazione alcune volte, so già che non è sempre così semplice. A volte la somiglianza che riesco a scovare è molto vaga, suggerisce in qualche modo il “tipo somatico”, lo rievoca alla lontana, più che ricalcarlo fedelmente. Non sono nemmeno certo di riuscire ogni volta, ma il bello del gioco consisterà proprio in questa piccola sfida settimanalmente rinnovata.

Si comincia con un quadro di un autore che, pur essendomi molto simpatico, non si può dire abbia lasciato un'impronta tra le più fondamentali, lungo il cammino della secolare storia dell'arte: Jean-Honoré Fragonard (Grasse 1732 - Parigi 1806). Volendo suddividere la grande famiglia degli artisti nelle due sottoclassi degli “antesignani” e dei “testimoni”, Fragonard rientra sicuramente in questo secondo gruppo. Questo pittore del settecento francese ha giocato più che altro un ruolo di “narratore” della propria epoca, ma modesti sono stati i suoi apporti all'evoluzione del discorso artistico, inteso nell'ordine delle sue più alte implicazioni filosofico-estetiche-linguistiche.

Detto questo tuttavia, Fragonard occupa a suo modo un posto significativo nel grande collage della storia dell'arte. La sua leggerezza, le sue tematiche spesso scanzonate e frivole, riportano al meglio le atmosfere di un certo periodo storico. Buona parte della produzione di Fragonard è dedicata al mondo del libertinismo e della sensualità tipicamente settecenteschi. Suoi “marchi di fabbrica” sono diventate le donnine in vesti succinte, le curve paffute e spesso scoperte dei corpi femminei, le circostanze piccanti delle scene ritratte, la complicità sensuale, il velato intrigo erotico. I quadri di Fragonard rievocano atmosfere mozartiane, s'intrecciano a riverberi di “relazioni pericolose”, richiamano echi di un Capitan Fracassa in salsa maliziosa. Fragonard ha celebrato un modo d'intendere la vita attraverso il filtro di una certa sensualità gioiosa, sullo sfondo della quale noi posteri tuttavia non possiamo fare a meno di intravedere le lunghe ombre dei drammatici rivolgimenti storici che si succederanno di lì a pochi anni, destinati a cancellare le tante illusioni di un'epoca fondata anche su una profonda ingiustizia sociale e sul privilegio.
  

Mi è piaciuta dunque la scelta artistica di Kika per l'occasione, focalizzata in particolare sull'opera intitolata «I felici casi dell'altalena». Gli ingredienti “alla Fragonard” ci sono tutti: la donzella bricconcella che sfrutta il moto dell'altalena per arditi disvelamenti; il gentiluomo “guardoncello” appostato in posizione strategica; la scarpetta birichina lasciata partire in aria, come un apostrofo rosa messo fra le parole “a-stanotte-nel-mio-letto-non-tardare”.

In tutto questo stuzzicante scenario, passo allora a suggerire la mia somiglianza col viso della donzella in altalena. Riporto prima un dettaglio per meglio apprezzare i lineamenti del volto dipinto.

Ed ecco il personaggio famoso dei giorni nostri, che a mio parere presenta discrete affinità di tratti col volto femminile protagonista dell'opera di Fragonard.


Per chi non l'avesse riconosciuta, è Chelsea Clinton, la ex “first daughter” a stelle e strisce. Come dicevo già, non è propriamente una somiglianza precisa e spiaccicata. Si tratta invece più di un “riverbero somatico”, è un suggerire per componenti estetiche che si pongono fra di loro in risonanza, sulla base di un “minimo comun denominatore fisiognomico”. Tra l'altro, lo scopo principale di questo gioco, così come lo intendo io, risiederà non tanto nel risultato, ma nel divertimento connesso alla ricerca, e nella soddisfazione legata allo stupore del momento in cui coglierò una somiglianza anche pur minima, ma in qualche modo rivelatrice. E vi posso assicurare che andare a stanare Chelsea in quest'opera di Fragonard è stato molto divertente.

Con questo per oggi vi saluto, ringrazio tanto Kika per la bellissima idea che ha avuto e vi do appuntamento alle prossime puntate di questa rubrichetta gemellata.