giovedì 28 maggio 2009

E dicevano, quelli vengono dalla campagna


L’estate mi mette tristezza.
Quando sono triste, l’obiettività va a farsi benedire e le mie peggiori magagne concettuali si lasciano sorprendere a brache calate, totalmente indifese e disarmate di fronte a qualsiasi minimo rilancio dialettico altrui. Mi trasformo in un “lamentone” supremo, più pedante di un James Blunt abbandonato da 10 morose in un botto solo.
Quando sono triste, le automobili mi fanno più schifo del solito. Gli automobilisti mi fanno pena, e dovendo io stesso stringere il volante ogni giorno, 30 km. ad andare e 30 a venire, per la proprietà transitiva tirate voi le vostre conclusioni.
Quando sono triste, il mio “passatismo” si aggrava e la mia apertura mentale di fronte alle novità si fa agile come un gatto di marmo.
Così, quando sono triste, divento ancor più triste se vedo costruire delle case.
In periodi di umore ordinario, una casa nuova mi lascia al limite indifferente. Invece quando sono triste, mi maltratta l’anima l’idea del terreno fagocitato da malta e mattoni, dei prati che non potranno più essere chiamati tali, di ogni stelo di spontaneità naturale fagocitata.
Dev’essere questo il punto, mi pare: le sensazioni trasmesse da qualcosa di libero che sta per cessare di esserlo. Il primo giorno di scuola che spazza via gli anarchici vagheggiamenti delle vacanze. Il grembiulino col fiocchetto che prende il posto della maglietta inzaccherata con la maionese del panino sbafato a merenda giocando coi LEGO. Il grigiore del lunedì che opprime gli sfumati bagliori del fine settimana.
Il fatto è che stavolta l’edificio o la serie di edifici in questione verranno su cancellando un campo al quale avevo dedicato anche un leggiadro scritto in cotal sede bloggatoria.
La mefitica carie del cemento armato è arrivata così a far cadere in un battibaleno centinaia di denti di leone.
Ma sotto la spianata compatta creata dai rulli compressori, io so che si annida ancora la “vis germogliante” dei milioni di petali gialli che lì la natura aveva previsto dovessero dispiegarsi negli anni a venire. Passando vicino a quel campo, si possono quasi sentire le pallette dei piumini futuri che spingono con la loro grazia pelosa contro il terreno che adesso le comprime ammutolite.
Non rimane che lasciar fare il loro corso alle cose degli umani, tanto quelle pallette di pazienza ne hanno da vendere.
Eh, già…l’estate mi mette proprio tristezza e mina gravemente la mia capacità di giudizio nelle sue fondamenta. Non chiedetemi di essere coerente, d’estate.
Adesso che ci penso, però…Minchia, siamo ancora in primavera!



sabato 23 maggio 2009

Il ragazzino col pallone nuovo


Ci sono due figure che a tratti mi tornano a visitare la mente.
Chissà perché, questo fatto succede grosso modo dalla primavera 2008.
Non riesco a capirla bene, questa manifestazione iconografica periodica. Magari scriverci sopra due righe qui, mi potrà aiutare a chiarire meglio la faccenda insieme a voi.
Definirli “tipi umani” mi sembra eccessivo. Forse è più giusto dire “macchiette esistenziali”.
In apparenza, queste due figure sono anche molto slegate, perchè riguardano ambiti “storico-sociali“ piuttosto distanti fra di loro.
La prima risale ai tempi della fanciullezza, rimanda alle atmosfere di gioco che pervadevano in modo quasi totalizzante quel periodo della vita. In particolare, questa figura emergeva nel corso della partitella di calcio con gli amici: era il ragazzino col pallone nuovo.
I suoi erano solitamente un po’ più benestanti degli altri genitori. Non si leggano in questa frase pregiudizi “pluto-denigratori” di sorta: è semplicemente un dato statistico quello che sto riportando.
Il ragazzino col pallone nuovo magari era figlio del dottore del paese, o del geometra, o di qualche altra personalità di spicco dell’indigena intellighenzia. In questo senso, possedere un pallone nuovo, più che un fatto di soldi, era per lui una questione di atteggiamento culturale.
Fatto sta che al momento di fare le squadre, «…pari…dispari: bim, bum, bam!!!...», alla fine eri quasi costretto a reclutare anche il ragazzino col pallone nuovo. Regolarmente fra le ultimissime scelte però. Sempre per sua costituzione culturale, il ragazzino col pallone nuovo era infatti scarsissimo nel gioco.
Fin dalla più tenera età, era stato matriarcalmente interdetto da due pratiche che sono l’essenza stessa dell’infanzia: sudare e sporcarsi. Ma se non sudi e non ti sporchi, come puoi diventare bravo a giocare a calcio?
Il dilemma si ripresentava dunque ogni volta molto forte e solitamente andava a finire che, pur di non giocare con il solito vescicone che “scamera-d’ariava” fuori da tutte le cuciture, si inghiottiva il rospo di beccarsi in squadra anche quel brocco del ragazzino col pallone nuovo.
Da quel momento in avanti, il potere contrattuale del ragazzino col pallone nuovo lievitava a dismisura. Perché non sarà stato buono coi piedi, ma era uno che studiava, leggeva, s’informava e del calcio teorizzato sapeva tutto. Così, non si accontentava di un posticino relegato in difesa, come sarebbe stato di sua naturale competenza.
No, no.
Il ragazzino col pallone nuovo voleva fare il centravanti, o addirittura la mezz’ala.
E schiappa qual era, non gli riusciva niente di meglio che mangiarsi dei goal a iosa davanti alla porta, prodursi in pessimi passaggi sgangherati e lasciarsi scartare come una Girella Motta da tutta la squadra avversaria, portiere compreso.
Le rimostranze “garbate” di tutta la squadra del ragazzino col pallone nuovo scattavano a quel punto inesorabili come sette morti ammazzati nel sommario di Studio Aperto:
«…Bidòn…va’a cà…at sì gnànca bon ad dà ‘na sbaràda a ‘na vèrza…» (trad.: «…Cilindriforme contenitore di rifiuti solidi urbani…fai tosto rientro alla tua dimora avita…non sei nemmeno capace di calciare un cavolfiore…»).
Il ragazzino col pallone nuovo però non si impressionava. Un suo gesto e una frase erano sufficienti. Dritto in mezzo al campo, sollevando al cielo il suo sfavillante pallone nuovo, come l’arbitro Coelho dopo il triplice fischio della finale del mundial di Spagna ’82, sentenziava perfido «…il pallone è mio…vado a casa e non si gioca più…».
La base della compravendita amicale era così fissata, e una volta stabilito il primo prezzo, le quotazioni sarebbero poi salite alle stelle. Il ragazzino col pallone nuovo possedeva infatti anche il più sfavillante mazzo di figurine doppie dell’album Panini dei calciatori. A casa aveva un bellissimo Subbuteo con morbidissimo panno di gioco e gli omini delle squadre più mitiche di sempre: Arsenal, Boca Junior, Santos, Real Madrid.
Alla fine stava un po’ sulle scatole a tutti, ma nessuno aveva il coraggio di dirglielo: dopo aver venduto una volta l’amicizia e la propria compagnia, diventava molto più arduo rinunciare a tutte quelle meraviglie, vero e proprio miele per lo spirito della bambinità tramutato in ape.

Ecco, è questa la prima figura che mi frulla in testa spesso da qualche tempo a questa parte. Della seconda magari vi parlo un’altra volta, ma intanto chissà se a qualcuno ha fatto venire in mente qualcosa…

[Continua...forse...]


mercoledì 20 maggio 2009

La porno-desertificazione


E fu così che la fantasia venne definitivamente schiacciata dall’ottusità quotidiana.
Il desiderio di alzare gli occhi al cielo, irrevocabilmente sconfitto dalla rassegnata ostinazione mentale che opprime a terra lo sguardo.
Già da parecchio tempo, i sogni americani di un gruppo di piccoli amici campagnoli erano sfumati via fra le nebbie.
Lo sapevo.
Ma il più squallido suggello alla cosa m’è toccato di vederlo applicare giusto in questi giorni.
Sembrava ieri che ci eravamo sbucciati le ginocchia sulla grattugia catramata del campetto da basket del paese, nel tentativo di scivolare a canestro in “terzo tempo”.
Sembrava ieri che ci eravamo beati le orecchie col suono della palla arancione affondata nella retina di nylon dopo un morbido tiro in sospensione.

E’ stato proprio ieri invece che ho visto il canestro del vecchio campetto, abbattuto e miseramente gettato in un angolo della vicina discarica.
«…Avete voluto il calcio…», pensavo osservando il cerchio del canestro miseramente schiacciato a terra sotto il peso del tabellone. Minchia, nemmeno l’accortezza di smontare prima il cerchio per evitare di tramutarlo in un’insulsa ellisse inservibile.
«…Avete voluto il calcio…però adesso, tutta la folta stoltezza cieca che ci gira attorno, ve la godete voi…».
Non ho mai avuto niente contro il calcio in sé.
Anzi, sono convinto che rimanga sempre quel bellissimo sport che mi ha fatto trascorre indimenticabili, lunghissimi pomeriggi di felicità scorrazzando a perdifiato dietro ad un pallone affondato nel verde del campo sportivo.
Quello che non ho mai sopportato è la pretesa di non poter pensare diverso. Quel senso di ineluttabilità ossessiva, quasi fosse un destino inevitabile che vuole così, e non il tuo fottuto diritto di scegliere e di vagliare la vita con giudizio critico (…portate pazienza se a tratti mi scappa di parlare come un film anni ’70…).
E non è più dell’insignificante dettaglio della predilezione per uno sport rispetto ad un altro, che sto parlando ora.
E’ anche quello, ma mi riferisco soprattutto a qualcosa di più ampio.

Dai alla gente solo quello che la gente sente di volere in punta di papilla gustativa.
Dagliene sempre di più.
Specializzati nella scienza divinatoria del rivolo di acquolina che cola dalla bocca del cittadino medio, e avrai il mondo ai tuoi piedi: «…è un’occasione, prezzi di realizzo fino ad esaurimento scorte di neuroni…».
Falli ingozzare di calcio, di Grande Fratello e di Amici.
Tieni le persone sempre ancorate alla superficie delle loro giornate.
Ecco il senso ben più importante delle cose che ho visto schiacciate sotto il peso di quel tabellone abbattuto: l’importanza di poter scegliere sempre; scegliere la bellezza; scegliere la varietà e le sfumature della vita.
Tutto spiaccicato tristemente nel cerchio di quel canestro che ora giace a terra in una beffarda smorfia ellissoidale.
Sono stati loro però, che volevano il calcio.
Ma forse è semplicemente così che deve andare. E questi sono solo i deliri di un umile lettore smarrito che ha sbattuto il muso contro la rovina di Kasch.


domenica 17 maggio 2009

sabato 16 maggio 2009

It's all cold in Alaska


Certe volte, inopinatamente, la tristezza viene a farmi visita.
Si presenta con la nera vischiosità della pece, oppure sotto la subdola forma di una nebbiolina indefinita.
Nella mia sgangherata esperienza, forse due cose le ho imparate, per quando la tristezza bussa alla porta.
La prima cosa è tenere sempre a portata di mano la 44 Magnum dell'ispettore Callaghan in persona, per sparare a bruciapelo a chiunque si azzardi a rifilarvi il ritrito luogo comune: "...Su col morale!!!...".
La seconda cosa è che la tristezza non bisogna cercare di evitarla. Non solo è sconsigliabile, ma addirittura è inutile.
Quando lei bussa, io apro la porta, la faccio accomodare, sto lì con lei. Sono paziente, la blandisco, le faccio la corte, se serve. Bisogna solo aspettare, di fianco a lei.
Poi viene quel momento, che essa stessa tutto d'un tratto sbotta: «Minchia!!! Ma questo qui è molto più triste di me!!!...».
E allora, così com'era venuta, se ne va. E la pece diventa crema profumata. E la nebbia, milioni di goccioline di una rugiada vellutata, che riflettono, ciascuna, uno dei milioni di raggi del sole riapparso.
Ed il mondo ha di nuovo le gambe di una bellissima donna.





Stephanie says
(Lou Reed - 1968)

Stephanie says that she wants to know
Why shes given half her life, to people she hates now
Stephanie says when answering the phone
What country shall I say is calling from across the world

But shes not afraid to die, the people all call her alaska
Between worlds so the people ask her cause its all in her mind
Its all in her mind

Stephanie says that she wants to know
Why it is though shes the door she cant be the room

Stephanie says but doesnt hang up the phone
What sea shell she is calling from across the world

But shes not afraid to die, the people all cal her alaska
Between worlds so the people ask her cause its all in her mind
Its all in her mind

She asks you is it good or bad
Its such an icy feeling its so cold in alaska,
Its so cold in alaska, its so cold in alaska



mercoledì 13 maggio 2009

All american foggy boys


Come fu che un gruppetto di “poco più che bambini poco meno che ragazzini” si innamorarono degli sport americani, nonostante fossero nati e cresciuti in pieno autarchismo concettuale soffuso di nebbie padane, rimane a tutt’oggi un mistero.
La spiegazione si potrebbe forse ricercare per paradosso nello spirito stesso di questi luoghi. Potrei tentare di spiegare il fenomeno ricorrendo a sofisticate disamine sociologiche, ma faccio prima a riassumere il concetto in questi laconici termini: qui da noi, quando ti dicono di fare una cosa, scrupolosamente per il gusto di non farla, ci stai anche a prenderti una scrupolosa martellata sul ditone.

Lo sport “da fare”, secondo la vulgata campagnolesca, era il calcio. A noi, non è che ci dispiacesse, il calcio. Ma la posta in palio era il nostro pluralismo culturale, e ad esso non volevamo rinunciare.
Che poi: vuoi mettere la soddisfazione di sentirsi dare del “siochétto mal-maturo”, votandosi all’eccentricità di certi sport dei quali il mugiko medio locale non capiva esattamente un’acca?
La molla iniziale fu senz’altro questa.
Dopo, provandoli, scoprimmo che gli sport americani erano anche bellissimi da giocare. Ma le prime volte fu solo per il piacere di udire sollevarsi in sottofondo il diffuso mormorio della plebe rurale: “…che ràsa d'un coijòn…” (trad. = “...che razza di un insipiente, assimilabile a viril attributo sferoidale...”) .
Un’altra cosa che non usa molto nelle mie zone, è fare le cose a metà.
Per questo, quando si trattò di scegliere uno sport americano, noi ci buttammo a pesce su quello che in fatto di astrusità, se rapportato all’asfittica prospettiva agonistica locale, li batteva tutti alla grande: il baseball.
Il baseball era perfetto: vedere un ragazzino che scaglia una specie di sassata in direzione di un amico, il quale tenta di difendersi fendendo bastonate nell’aria, mentre tutto il resto della compagnia se ne stava disperso sul campo reggendo nella mano sinistra non meglio identificati vesciconi in cotenna di maiale (i guantoni), era più di quanto la padana capacità di “intendere e volere di sport” potesse tollerare.
Fra le più immense sensazioni di “onnipotenza snobistica” mai provate in vita mia, ci fu senza dubbio quella di stare al fianco di una “casa-base” posticcia piazzata alla vigliacca nel bel mezzo del campo sportivo comunale, brandendo la mazza sotto lo sguardo di compatimento del bifolco mono-calcistico di turno che si ritrovava a passare di lì, tutto sprizzante amorevole disprezzo.
Come mai amorevole? Perché fra gli usi e i costumi di qui, c’è pure questo fatto: quando ti danno del coglione, lo fanno sempre volendoti un gran bene.

Ma il baseball era solo l’aperitivo di tutta la storia: il bubbone passionale sportivo “Iù-ès-éi” doveva scoppiare all’epoca delle scuole medie, con la pallacanestro.
Avete presente la scena dei Blues Brothers, quella nella chiesa, quando John Belushi viene asfaltato da un’autostrada di luce e si mette ad osannare invasato: “…La Banda!!!...La Banda!!!...”?
Ecco, su di me la scoperta del basket ebbe un effetto simile.
Addentrarmi gradualmente nella magia delle movenze cestistiche e familiarizzare pian piano con gli eroi del basket NBA , divennero un tutt’uno.
Così, se nei pomeriggi di maggio, col caldo incipiente che saliva dalla grattugia catramata del campetto da basket del paese, assaporavo la bellezza del palleggiare, del tirare, dello scartare gli avversari come birilli, alla sera l’appuntamento era invece fissato con i playoff del campionato NBA.

Ma qui gli ostacoli agro-socio-culturali si complicavano e si articolavano fieramente anziché no.
L’unica rete che all’epoca trasmetteva le partite NBA era PIN, Prima Rete Indipendente. E l’unico posto dove la rarissima frequenza di questo canale veniva captata era il Bar Sport di fianco alla chiesa.
Va beh, dove stava il problema, si osserverà…il problema stava nel “Guardatore di Tv del Bar Sport” professionista.
Non abbiamo mai potuto appurarlo, ovviamente, ma sono certo che se si fosse verificato all’epoca sulla sua carta d’identità, dopo la voce “professione” si sarebbe letto: “Guardatore di Tv del Bar Sport”.
Era un signore domiciliato giusto giusto nel borghetto dietro al bar. Il motivo per il quale assumesse la sala-tv del locale come surrogato del proprio salotto di casa, non venne mai chiarito.
E quando dico che era professionista, lo dico a ragion veduta. La sua fruizione della tele avveniva nella forma di una vera e propria pay-tv ante-litteram. Con una differenza fondamentale: invece della scheda pre-pagata, lui andava giù di bicchierini di cigliegioni sotto spirito.
Per il perdigiorno da bar, com’è noto, la scelta dell’articolo oggetto di consumazione è uno dei punti cruciali per la massimizzazione dello spazio-tempo scroccato all’esercizio commerciale. Non a caso, il “Guardatore di Tv del Bar Sport” sceglieva per sé il massimo: con un bicchierino di cigliegioni maraschinati nelle mani si trasformava nel Mozart del “far flanella”.
Voi capite bene che di fronte ad un simile avversario, capace di farsi durare una “maròla” (trad. = “nocciolo”) di ciliegia in bocca, ciucciandola anche per tutto il primo tempo di “Via col vento”, la lotta per il canale si faceva più ardua che mai.
A quel punto si innescava una guerra fredda delle più serrate: nella stanzetta accanto, ci davamo dentro col calciobalilla, nella speranza di ricacciare, con il nostro casino, il nemico alla volta della trincea domestica del suo divano. Ma s-lirati com’eravamo, non potevamo reggere il confronto sulla lunga distanza, riuscendo a giocare solo poche partite.
Così ci rassegnavamo, attendendo la resa nemica decretata in tarda serata dalla palpebra calante del “Guardatore di Tv del Bar Sport”.
Una delle più memorabili battaglie si tenne quella sera di maggio che seguì ad una giornata in cui ci eravamo esaltati da matti ad infilare il cesto sul campetto. Ci precipitammo al Bar Sport affamati di gesta mitologico-cestistiche yankee, ma il “nostro” era già perfettamente posizionato in saletta-tv armato delle peggiori intenzioni: spararsi dal primo all’ultimo fotogramma l’intera «Dolce vita» di Fellini!!!
Fra di noi, quando realizzammo il programma bellico dell’avversario, ci fu chi per poco non si ritrovò a collassare sul tavolo da ping-pong, e ce ne volle poi di spuma al ginger per farlo ritornare in sentimenti.
Anche quella volta, dopo due frullate di rabbia con gli omini del calciobalilla, non si potè fare altro che pazientare: neanche con le paghette di quattro settimane messe assieme, avremmo tirato su tanta moneta da giocarci la «Dolce vita» di Fellini nella sua interezza!
Si sfiorarono picchi di parossismo scancheratorio supremo, con gente fra di noi che giunse persino a pregare invano per l’improbabile affogamento della Ekberg nella famosa scena della fontana di Trevi, ma alla fine tutta l’attesa patita bruciò via come la candela che era valsa (…io i detti me li faccio e me li plasmo a piacere, va mò làh).
Dopo che il “Guardatore di Tv del Bar Sport” abbandonò la trincea fellinato per bene, riuscimmo a carpire solo un ultimo stralcio di partita.
Ma fu la prima volta in vita mia che vidi un uomo volare: Phil Ford, playmaker dei Kansas City Kings, che sul movimento conclusivo di un’entrata a canestro, eseguì in aria una perfetta rotazione a 360 gradi, prima di depositare la palla dolcemente nel cesto. Standing ovation di noi sbarbati cestisti in erba, e giuramento di eterna fedeltà alla palla-cesto ed al suo profeta Dan Peterson, già da allora unica e vera voce del basket NBA.
Non è un caso che a distanza di tanti anni questi ricordi mi siano riaffiorati alla mente proprio in questi giorni. Anch’essi sono infatti un piacevole frutto del digitale agricolo: fra i pochi canali pescati dal fatidico rural-decoder, c’è anche SportItalia, che trasmette un sacco di partite NBA, sempre ed ancora con un’unica voce, quella di Dan Peterson (…anche se, senza dover lottare oggi con un “Guardatore di Tv del Bar Sport”, devo dire che c’è un po’ meno soddisfazione).


lunedì 11 maggio 2009

Texismo-Carsonismo

(Tex Willer e Kit Carson nell'indimenticabile,
e purtroppo unica, interpretazione del grande Magnus)

***

Chi non vorrebbe avere certezze assolute nella vita?
Chi non vorrebbe vedere il nero ed il bianco nettamente stagliati l'uno di fianco all'altro, il bene ed il male chiaramente distinti senza ombra di dubbio alcuno?
Tipo: il campionato di calcio è truccato da almeno 30 anni, con la connivenza di tutti i protagonisti, è certo, è sicuro, è provato.
Bene, uno lo sa e si regola: senza remore di sorta, sbatte Moggi in gattabuia e fa fondere la chiave all’Ilva di Taranto, spedisce tutti i giocatori a fare i turni di notte vita natural durante all’Ilva medesima e fa ricominciare tutto da capo partendo con nuove squadre di Pulcini come massima divisione nazionale.
Ma nella vita, si sa, le cose non funzionano quasi mai così.
Salta fuori magari che Moggi ha avuto un'infanzia difficile, è cresciuto in una famiglia che aveva in odio lo sport, era costretto a sentire di nascosto sprazzi di Tutto il calcio minuto per minuto al telefono grazie alla complicità di un suo cuginetto, nascondeva l'album del campionato delle figurine Panini dentro la sua raccolta completa di Lando.
Salta fuori magari che molti giocatori erano inconsapevoli, altri sapevano ma erano costretti dalle circostanze ad accettare l'andazzo generale, altri ancora lo subivano come un mezzo ricatto, altri erano incapaci di intendere e di volere, ma solo di calciare.
Insomma, ecco che la netta separazione fra bene e male si è già andata a far benedire. E questa menata, lo sapete anche voi, si ripete un po’ uguale in tutti gli ambiti della vita.

Tutti tranne uno: il mondo di Tex Willer.
Nelle avventure di Tex si sa esattamente dove finisce il bene e dove comincia il male e non ci sono sfumature sociologiche che tengano.
Ogni sistema filosofico, per quanto giri intorno a se stesso, alla fine si ritrova intorcinato nel paradosso di una visione del mondo labirintica.
La visione del mondo di Tex no: lei corre dritta e spedita come uno cavallo d’acciaio lungo la sua strada ferrata. Di qua ci stanno i buoni; di là i cattivi. E chi osa mettersi sui binari per fare il salto della quaglia dalla parte dei malvagi, viene spianato dal locomotivone sbuffa-giustizia di Aquila della Notte (così è chiamato Tex quando veste i panni del saggissimo capo bianco dei suoi fedeli Navajos).
Tex avrà fatto fuori forse un ottantacinquemila - ottantaseimila persone, tagliagole più, razziatore meno. Ma ciascuno di loro meritava senza ombra di dubbio di crepare.
Innanzitutto, dal primo all’ultimo, erano assolutamente e certissimamente dei bastardi matricolati al 100%. Nessun sceriffo l’ha poi mai fatto, ma se si fosse rovistato nel passato di ogni delinquente accoppato da Tex, sarebbe emerso che senza eccezione alcuna ognuno di loro aveva avuto un’infanzia stupenda. Genitori eccellenti ed amorevoli, iscrizione nelle migliori scuole dell’Unione, sorelle e fratelli premurosi, veri e propri esempi di rettitudine e di dirittura morale.
Nonostante questo, loro, niente, cocciuti come i muli: scientemente e ben consapevoli del male che facevano, avevano optato chi per il racket delle meredine, chi per investire la paghetta della nonna nelle scommesse legate alle corse clandestine degli orsetti lavatori, chi per interminabili partite sui panni verdi del bigliardo del bordello del paese, dove, dopo aver ripetutamente marinato la scuola, si erano messi in affari con la tenutaria, fornendo sotto banco cancelleria rubata ai bidelli, da usarsi per tenere aggiornati i libri contabili della meretricevole azienda.

Tex poi ti accoppa solo se non ne può fare a meno, e mai senza averti fornito prima tutte le prove d’appello possibili. Subito ti intima di tenere abbassata l’artiglieria. Se insisti, ti spara, sempre e solo dopo che hai estratto tu, badando bene a disarmarti con un preciso colpo alla mano. Se riesce ti toglie proprio la pistola di pugno, e te la cavi col polso indolenzito. Nel peggiore dei casi ti sacrifica un paio di falangi.
Ti ostini ancora con mossa da fetente, cercando di raccogliere la Colt con la mano scampata, per fregare alla vigliacca il Texone nazionale? A questo punto te la sei voluta tu, e una bella palla nel petto non te la leva nessuno…e che minchia, sei proprio de’ coccio!!!

Fra le altre certezze granitiche garantite da Tex, c’è che quando lui e Kit Carson irrompono in un saloon sventagliando all’unisono le porte, magari dopo essersi sbarbati 120 miglia nel deserto del Mojave, con 50 gradi all’ombra del solo cactus incontrato ed alle calcagna una banda indemoniata di Mescaleros, cascasse il mondo loro ordinano una bistecca alta tre dita sepolta da una montagna di patatine fritte, il tutto innaffiato da un boccale di birra ghiacciata. Perché la congestione gli fa un baffo, a Tex, e con l’acqua ci si lava solo i piedi, tanto è vero che alla fine ci beve sopra anche un bourbon doppio.
Un altro dogma del Texismo recita che Tex non lo freghi mai in un agguato.
Bisogna anche mettersi nei panni del povero bounty killer ordinario o dello svuota-cartucce di mezza tacca: la pistola di Tex è la più veloce del West e se si vuole avere una minima speranza con lui, ci si deve buttare sulla codardia.
Ma ad aspettarlo di giorno dietro le rocce in cima a un dirupo, lui subito si accorge di un riflesso di sole sulla canna del fucile. Se confidando nell’ombra delle fresche frasche, si tenta di fargli la festa sul limitar di un boschetto, Tex sente lo scricchiolio di un rametto sotto i piedi del sicario.
Per non lasciare nulla d’intentato, l’ammazza-cristiani coscienzioso prova allora a sorprendere il rangerone in notturna, ma niente da fare, Tex mangia la foglia alla grande, capendo tutto dal nervosismo di una civetta di passaggio.
In ogni caso, Tex si butta a terra, schiva per un pelo le pallottole del bruto facendosi ombra sotto una tettoia di “zing!!!”, e rende la pariglia al cattivone spiccandolo da dietro le rocce, dalle quali il malnato aveva incautamente esposto poco più di mezzo mm. quadrato di cute.
A questi grandi postulati Texiani, si accodano poi alcuni corollari.
Se per motivi di servizio Tex, Carson, Kit e Tiger non possono fare altrimenti che sfasciare tutto l’arredo di un saloon in un’epica scazzottata, il barman può starsene a guardare la scena da dietro il bancone con il sorriso sulle labbra, come se stesse visitando il reparto mobili del “Mercatone Uno”: infatti il bravo mescitore di torcibudella sa perfettamente che il portafogli di Tex è sempre pieno di dollari come un uovo sodo ed occasione più ghiotta per fare un ottimo restyling al locale non la poteva trovare, perché alla fine Tex ripagherà i danni fino all’ultima vite, più un giro di whisky per tutti.

Insomma, il Texismo-Carsonismo è forse l’unica verità assoluta rimasta in piedi dopo il crollo di tutti i muri ed i solai ideologici vari. Così, quando voglio pascermi di dubbi, non ho che l’imbarazzo della scelta, districandomi tra Adorno, Jung, Hillman, Kundera, Philip Roth, Rilke, Bhagavadgīta e Rovine di Kasch assortite.
Ma se ho bisogno di certezze e solidità, il nome del mio pensatore di riferimento è uno solo: Tex Willer.



mercoledì 6 maggio 2009

Palinfraskity


«…Serendipity is looking in a haystack for a needle and discovering a farmer’s daughter…»

«…la serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino…»

Julius Comroe Jr. - 1976

***

E’ strano, per un lettore, trovarsi nel bel mezzo di un periodo di “palinfraschità”.

Detto per inciso, la dimensione esistenziale di lettore è una delle poche che mi calza pienamente. Ogni altra mia specificità umana ha sempre suonato lievemente fessa.
Un po’ per sorte, forse un po’ meno per scelta, molto più per eccentricità congiunturali.
Fessa come un orcio.
Volendo, di tanto in tanto anche colmo d’olio di qualità, ma pur sempre un orcio fessurato.
Fino in fondo, non sono mai stato bambino.
Non sono mai stato nemmeno ragazzo, fino in fondo. Non sono mai stato completamente adulto e chissà se lo sarò mai. Non sono mai stato davvero studente. Non sono mai stato lavoratore fino in fondo, né impiegato, né professionista, né dilettante, né esperto di nulla.
Tutt’al più un guazzabuglio di nozioni, sono stato.
Nemmeno scrittore sono mai stato e lo dimostro periodicamente in codesto “loco blogo”. Forse potrei dirmi scrivente. Però anche lì, non fino in fondo.
Ma lettore sì, quello mi sento di dirlo: lo sono fino in fondo.
Probabilmente perché l’essere lettore riassume di per sé in un colpo solo tutti i miei altri “non essere qualcuno o qualcosa”.

L’identità di lettore ha le sue periodiche evoluzioni, con corsi e ricorsi che si riaffacciano uguali a se stessi in superficie, a ricoprire meno trascurabili mutazioni magmatiche di fondo.
Capitano in questo modo varie fasi di lettura fervida e monoliticamente proficua, quando l’adesione all’essenza di un libro si fa così totalizzante da far quasi dimenticare la propria corporeità quotidiana.
In quelle fasi, leggere diventa come mangiare fuoco. Le parole prendono forma in forza di una grazia che non sapresti dire se scaturita dai segni neri d’inchiostro istoriati sulla pagina oppure dall’immateriale sfioramento agito dai tuoi stessi occhi.
Poi a tratti improvvisi, si piomba nella “palinfraschità” (anche nota come culturale “menare-il-can-per-l’ai-ismo”).
Questa si manifesta quando il lettore non riesce a fare il nido in nessun habitat narrativo.
Si è colti da un’inquietudine diffusa, mista al famelico desiderio della bellezza che solo una lettura giusta può darti. Anzi, è il sapere che quella bellezza sta custodita con precisione “matematica” fra le pagine di uno dei milioni di libri scritti da qualche autore, in qualche parte nel mondo, in chissà quale epoca. E’ sapere tutto ciò, ma non poter fare niente per facilitare con “quel libro” l’incontro fatidico, il cui esatto momento solamente gli Dèi della lettura potranno fissare.
Così il lettore “palinfrascato” si arrabatta fra le pagine dei testi più disparati e zompa da un libro all’altro pescandoli fra quelli solamente iniziati ed accantonati negli ultimi 10 o 15 mesi.
E non sembra, ma alla fine, considerando la cosa da un punto di vista opportuno, se ne traggono anche benefici.
Basta mettersi nell’ottica di stare leggendo un grande volume composito, i cui capitoli sono forniti dall’accozzaglia di libri che con errabonda frenesia di frammentario lettore si vanno ammonticchiando sul comodino ad un ritmo indemoniato.
In questo periodo dunque il mio “gran libro palinfrascale” del momento è stato formato da libri-sottocapitolo come “Opera aperta” di Umberto Eco, “Filosofia della noia” di Lars Svendsen, “Walden – ovvero la vita nei boschi” di Henry David Thoreau.
Lo so che un trittico simile sarebbe capace di causare fulmineo sopore violento anche nel rettore di Oxford, ma che ci posso fare se di fronte ai libri contorti so trattenermi come un bombo scatenato in una serra olandese?
“Palinfrascheggiando” in siffatta guisa ho avuto così modo di sapere qualcosa di più sull’essenza dello Zen (molto più vicina al concetto di vita come “opera aperta”, non finita), di conoscere alcuni aspetti paradossali della personalità di Andy Warhol (con la sua esasperata ricerca del perfetto anonimato estremo, del quale le sue opere sono simbolo, ha finito per toccare le vette più alte della notorietà e dell’eccentricità distintiva) e persino di trovare (grazie all’ammonimento, caro a Henry David Thoreau, di non lasciarsi trasformare in strumento dei nostri strumenti) un motivo di fierezza nelle due paia di jeans che mi bastano lungo tutto il corso dell’anno, insieme al solo mio paio di scarpe per l’inverno alternato ad uno di sandali estivi.
Va precisato che in congiuntura “palinfrascale”, è opportuno evitare come la peste le incursioni in libreria.
A causa della scarsa capacità di cernita libresca patita in queste circostanze, si corre infatti il grave rischio di andare a scegliere l’ulteriore arduo tomo che si andrà ad insinuare subdolo fra i tanti pali e frasche culturali già attivati, con notevole aggravio in altitudine del montarozzo di libri sul comodino.
Detto, fatto: oggi durante la pausa pranzo mi sono subito infeltrinellito, andandomi inevitabilmente a schiantare da lettor-moscerino contro il parabrezza del Tir della Cultura e provocando il seguente suono: LarovinadiKasch!!!

Poi tornando verso l’ufficio e sbirciando la frasetta di Calvino in quarta di copertina: «La rovina di Kasch tratta di due argomenti: il primo è Talleyrand, il secondo è tutto il resto», con somma eleganza critica non ho potuto fare a meno di considerare fra me e me: “…Minchia, di tutte le figlie del contadino, proprio la più ciccia ho pescato nel fienile!!!...(grazie al Cielo…)…”.






domenica 3 maggio 2009

I count your eyelashes, secretly




I've found a way to make you
I've found a way
A way to make you smile

I read bad poetry
Into your machine
I save your messages
Just to hear your voice
You always listen carefully
To awkward rhymes
You always say your name,
Like I wouldn't know it's you,
At your most beautiful

At my most beautiful
I count your eyelashes, secretly
With every one, whisper I love you
I let you sleep
I know you're closed eye watching me,
Listening
I thought I saw a smile

venerdì 1 maggio 2009

Rural graffiti


Ritrovandomi a crescere campagnolo sull'ultimo scorcio del XX secolo, ho avuto modo di poter osservare un fenomeno curioso: l'imbastardimento rurale delle mode cittadine.
Dire "mode" e aggiungere "cittadine" risulta alquanto pleonastico, lo so.
Ma se è vero (come è vero) che in pratica tutte le mode nascono in ambiente urbano, è altrettanto vero che la contaminazione ricevuta da queste quando trapelano lentamente verso i "confini dell'impero", dà vita a fenomeni che si possono considerare del tutto nuovi e soprattutto si possono osservare solamente "godendo" (si fa per dire) di un punto di vista campagnolo.
Solo pochi decenni addietro, la cosa andava avanti ancora come da abitudine secolare: città e campagna era socialmente e culturalmente distinte con demarcazione ben più netta.
Ma con la modernità, sulla cui scia grosso modo la mia infanzia si è accodata, lo scambio di comunicazione fra centri e provincie si è fatto più diretto e rapido, ed i costumi si sono mescolati con maggiore facilità.

Fra i mix urbano-campagnoleschi più divertenti che io ricordi c'è sicuramente il «punk paesano». A ripensarci, è molto buffo domandarsi quale fascino potessero ritrovare in un movimento radicalmente metropolitano come quello del punk, dei ragazzini (o poco più che bambini) molto più familiarmente in sintonia con l'odore delle stalle nell'aria di quanto non lo fossero con la puzza dello smog.
E per rendere ancor più candido il ricordo di questa mescolanza culturale a dir poco singolare, c'è da dire che la nostra fascinazione non si abbeverava nemmeno alla fonte diretta dei Sex Pistols oppure dei Ramones, ma molto spesso passava per il cammino traverso già ben bene provincializzato da Anna Oxa.
La massima manifestazione punk alla quale assistetti in prima persona da bambino, fu vedere un mio amico, mentre eravamo al corso di pattinaggio, che sfilava sulla pista "calzando" una spilla da balia alla guancia. Naturalmente, con saggezza secolare tutta contadina, non l'aveva infilata per davvero, ma solo appoggiata, con effetto tuttavia molto realistico.
Mi viene da sorridere pensando che sicuramente, appena rincasato, avrà dovuto togliere in tutta fretta la spilla per potersi gustare a merenda un bel panino col salame preparato dalla mamma (ma forse, per non tradire fino in fondo la sua allora fiorente anima punk, di nascosto dall'oppressione genitoriale si sarà di seguito ingollatto un sorso di Lambrusco direttamente a collo dalla bottiglia).

Una delle più recenti e curiose espressioni che ho visto nascere di questa tendenza modaiola bucolic-urbana, è quella dell'«agri-writer», o «graffitaro rurale» che dir si voglia.
Ci sono dei ragazzini con una certa abilità per il disegno che per dare sfogo alla loro cretività prendono di mira i muri di vecchi casolari agricoli abbandonati e dipersi in mezzo ai campi.
Riflettendo un po' sul fenomeno, mi sono reso conto di come, passando attraverso il vaglio socio-ambientale campagnolo, esso abbia assunto sfumature ben più nobili ed eroiche di quante non fossero contenute nella sua originale versione urbana.
Son capaci tutti di andare a sbombolettare lungo una trafficatissima arteria cittadina, dove le proprie opere saranno osservate da migliaia di automobilisti in transito.
Ci vuole invece tanta più passione creativa, e fuoco artistico da vendere nelle vene, per essere disposti ad andare ad istoriare pareti diroccate in mezzo al nulla agreste, dove si sa che il massimo dell'audience sarà composto da 3 pescatori in bici, 2 fagiani e 6 leprotti che passano in tutta fretta inseguiti da 4 cacciatori distratti.
L'«agri-writer» è un eroe dei nostri tempi dunque, uno dei tanti buffi prodotti socio-culturali che ho visto fiorire in questa terra di confine e di contaminazione fra due visioni del mondo così lontane e così vicine.