giovedì 28 novembre 2013

Orme

 

Orme vuote, orme slavate.
Orme tipografiche,
orme inchiostrate.


Orme di Remo fra le more.
Orme orfane d’un’«a» per far l’amore.


Enorme fra le orme,
l’improntitudine all’impronta.


Orme sgrammaticate,
impronte di te ch’«or»-giungono a «me»,
orme di me ch’«impron»-vengono a «te».


Orme linguistiche
di lingue ormai ormeggiate.


Orme che vanno ovunque.
Orme ignare del loro andare.


Orme parlanti
su frasi ormeggianti.


Un giorno le mie orme
m’hanno abbandonato
e per l’America son partite.


Impossibile inseguirle,
alla frontiera senz’orme
non lasciavano passare.
Invano ho loro gridato:
«…Ormeeeeeeeeeee!!!...».
«…Impronteeeeeeee!!!...».
 
                                        
 
                              Scrivere
                               vuol dire
                                lasciare orme.
                                A chi legge, il compito
                                di ricostruire un cammino.
La profondità delle cose dette,
l’evidenza del tempo trascorso.
Tutto questo nelle orme si legge,
finché il vento o l’insipienza
non passano a cancellare.
Ora devo aggiungere
qualche parola, per
completare la forma
del piede: ecco, così mi
pare che possa andare.
Manca ancora il tallone,
 eccolo, arriva, più bello e
spazioso di quello
d’Achille l’eroico
in persona.



martedì 26 novembre 2013

Wittgenstein fa un balzello


Secondo Ludwig Wittgenstein non è dato mondo che non passi attraverso il pensiero. Allo stesso modo, non è dato pensiero che non passi attraverso il linguaggio. Come conseguenza inevitabile, le regole del mondo e quelle del linguaggio vengono a coincidere.

Ci sarebbe dunque da iniziare ad insospettirsi, e non poco, quando ci si accorge che qualcuno si è messo a manipolare il linguaggio. Se tanto mi dà tanto, si sarà messo nel contempo anche a manipolare il mondo.

Un campanello, che non era quello della ricreazione, bensì d’allarme (anche se sarebbe stato perfettamente in tema), si è messo a suonare qualche tempo fa intorno al mondo della scuola.

Proprio durante il periodo in cui la scuola iniziava a dar segni di voler andare assai volentieri in vacca, i nomi delle “categorie scolastiche” sono magicamente cambiati. Una volta c’erano l’asilo nido, l’asilo “e basta”, le elementari, le medie, le superiori. Erano nomi bei distinti, chiari per tutti. Quando ne citavi uno, si capiva al volo a quale fascia di età ti riferivi. Poi, ad un certo punto, ecco sbucare quelle minchia di diciture uniformanti, anonime ed appiattite: scuola per l’infanzia, primaria, secondaria di primo grado, secondaria di secondo grado, o non so bene nemmeno io.

Copio pari pari, dalla relativa voce di Wikipedia (che immagino sia stata compilata da un qualche burocrate scolastico), il quadro riassuntivo dei periodi in cui sono state suddivise le vecchie elementari e medie:

«...Oggi la scuola primaria, con quella secondaria di primo grado, si compone di cinque periodi didattici:
• un monoennio iniziale, che comprende la 1ª classe della scuola primaria.
• il 1º biennio che comprende la 2ª e la 3ª classe della scuola primaria.
• il 2º biennio che comprende la 4ª e 5ª classe della scuola primaria.
• il 3º biennio che comprende la 1ªe 2ª classe della scuola secondaria di primo grado.
• il periodo didattico finale che comprende la 3ª classe della scuola secondaria di primo grado...».

A parte la ridondante macchinosità del tutto, vorrei mettere in guardia chiunque abbia un bimbo da mandare a scuola di questi tempi: tenete sempre ben presente che state affidando ogni giorno vostro figlio alle mani di gente che usa la parola “monoennio”!!!

Pensateci…secondo me non c’è troppo da stare sereni…

La burocrazia esistenziale, insomma: toglie ogni colore alle parole e alla vita, uccide la lingua prima, e chi ce l’ha in bocca per usarla, poi. Il “politically correct” sarebbe più preciso chiamarlo “politically infected”: il mondo infettato dalla labirintica asfissia del politichese. Intendendo per “politici”, molto in generale, tutta la classe dirigenziale, coloro che hanno possibilità decisionali di un certo livello ed influenza.

Ve lo ricordate il caro e vecchio netturbino, o al limite spazzino? (...e non pretendo la sublimità del dialettale “spasòn”, no, sarebbe chiedere troppo...). E il bidello? Cosa c’era di male a chiamarli così? Non è che se li chiami operatore ecologico e collaboratore scolastico, lasciando il loro stipendio uguale per trent’anni, quelli si mettono a godere come dei ricci filologici.

Sembravano già questi sintomi gravi, ma bisogna constatare che la diffusione del morbo ha ormai toccato gradi di intensità estrema.

La cosa è ben più grave di quanto non sembri. Perché tra l’utilizzo sciatto e la mistificazione, molto spesso il passo è assai breve. Tra i maggiori fomentatori dell’insciattimento della nostra, altrimenti, bellissima lingua, ci sono i giornalisti (di bassa lega) e i politici (di bassa e media lega). Operando in combutta, seppur spesso involontariamente, cambiando piano piano il linguaggio, erodendo lentamente certi suoi aspetti, modificandone la superficie “sonora”, senza intaccarne minimamente la profondità “significante”, ecco come ti sfornano caldo e croccante il “gonzo blandito” (sembra una simpatica ricetta, ma purtroppo ci sono in gioco i cervelli delle persone).

La punta di diamante, l’eccellenza sciattona suprema, si è toccata con il recente balletto dei nomi delle tasse. Forse mai prima era stata percepita una simile deriva linguistica, come da quando hanno cominciato ad imperversare quei nauseabondi “acronimuzzi” micragnosi. Già erano odiosi suoni come ICI e IMU (al confronto, la vecchia IVA è un’attempata signora alla quale ci si sente di portare “quasi” rispetto), ma poi si è abbandonato ogni pudore, dando sfogo al delirio puro, farfugliando su uno «straparlìo» sgangherato dei più «traveggolanti», ed ecco sbocciare tutto un florilegio di orrori: TRISE, TASI, TUC. Si è trattato di un crescendo rossiniano nella gara a concepire la sequenza di lettere più improbabile (derivata, certo, dalla denominazione per esteso), per approdare al gran botto “conclusivo” (ma fino a quando?) che ha partorito la possibile definizione della nuova tassa del futuro: la IUC.

I politicanti del vecchio corso avranno avuto di certo tutte le loro magagne, ed anche grosse, ma perlomeno padroneggiavano la cultura “umanistica” in misura ben più solida rispetto agli attuali. Mai si sarebbero concessi d’incappare nella ridicolaggine di una gaffe disneyana così eclatante. Ma forse è giusto così, alla fine il linguaggio, se lo tratti male, te la fa pagare.

Come ben sa chiunque abbia un minimo di rudimenti topolineschi, «...Yuk!...» è precisamente l’esclamazione preferita da Pippo, quando vuole esprimere i più disparati ed imprecisati sentimenti e stati d’animo. Anche se la fatidica parolina si differenzia nella grafia rispetto al nuovo balzello recentemente battezzato, di fatto suona preciso identico, di modo che l’effetto straniante è garantito. Anzi, forse è pure peggio. Perché d’ora in avanti, quando toccherà sborsare quattrini nel nome di questo novello lacciuolo tributario, parrà di esser chiamati a farlo da gente non solo suonata come Pippo, ma che nemmeno sa scrivere!


lunedì 18 novembre 2013

Laggiù nel Gillipixiland, terra di funghi e di chimere

 

Complici le recenti copiose piogge novembrine, nei prati di Gillipixiland si son messi a spuntare i tipici funghi di questa terra. I funghi di Gillipixland si differenziano dai funghi tradizionali per le loro dimensioni, molto prossime a quelle di un discreto gatto casalingo ben pasciuto.

Dei gatti hanno assunto anche le abitudini. Questi funghi amano infatti sdraiarsi al sole, soprattutto nel presente periodo dell’anno più avaro di raggi caldi. Rispetto ai funghi tradizionali, presentano un fondamentale vantaggio logistico. Non è necessario spingersi sulle ripide pendici collinari, per poterli rinvenire, e nemmeno addentrarsi nel folto di umbratili boschi montani. Sarà sufficiente atteggiare le labbra nella foggia tipica usualmente impostata per assestare un bacino alla morosa, levare con l’immaginazione l’ipotetica morosa di mezzo, dar di schiocco all’aria un paio di volte in forma di “mck-mck!!!”, ed ecco, in men che non si dica, un piccolo stuolo di funghi di Gillipixiland vi si struscerà ai garretti, in festoso segno di riconoscente baldanza.
 
 

Un’altra fondamentale caratteristica differenzia i funghi di Gillipixiland da quelli ordinariamente intesi. Si tratta di funghi da compagnia, boleti d’affezione. Niente a che vedere dunque con destini gastronomici o culinari che dir si voglia. Il fungo di Gillipixiland non finisce in padella, a meno che non sia per essere protagonista esso stesso, in prima persona funghesca e ladresca, di una memorabile sbafata. Nell’eventualità che un fungo di Gillipixiland riesca a nascere in casa, anziché la cucina, come proprio habitat naturale d’elezione prediligerà senz’altro ambienti più temperati da mollezze poltronesche, tipo il salotto, dove lo si potrà molto facilmente osservare mentre spunta fra i cuscini di un divano o nelle pieghe rigonfie di un morbido pouf.

Il nome scientifico del fungo di Gillipixiland è “micetus pelliccensis smiagolans”. A partire dalla diffusa conoscenza, fra i nativi del luogo, di questa denominazione ufficiale, non è raro tra l’altro udire di tanto in tanto i dottissimi abitanti di Gillipixiland, intenti a prodursi nell’erudito richiamo: «…Micetuuu!!! Sà, vèa chè…» (trad. «…Micetuuu!!! Orsù, vieni qui…»), in sostituzione del già illustrato, e ben più ordinario: “mck-mck!!!”.
 
 

Altri fenomeni singolari si succedono in queste giornate di novembre, in quella strana terra che va sotto il nome di Gillipixiland. Non solo i funghi son pelosi, ma pure i ramoscelli s’ingentiliscono in leggiadra rosea peluria, stillando pendule e grasse gocce. Mentre il cielo, stringendosi un po’ trova spazio anche in una piccola tinozza d’acqua piovana, ed un’antica secchia panciuta invidia un umile coperchio suo pari grado, mentre veste l’eleganza d’un cristallino improbabile specchio.

 




giovedì 14 novembre 2013

It’s a v-llludo?


Stavo meditando se fosse più fastidiosa una cazzuolata di puntine nascostamente calata nelle mutande da mano proditoria, oppure la foca con la voce della Littizzetto, quando sono incappato in un pensiero secondario.

L’obiettività.

Cos’è che è veramente obiettivo, a questo mondo?

Azzardando una risposta alla carlona (e anche un po’ alla ernestona), mi vien quasi da affermare: niente. Niente è obiettivo a questo mondo.

L’impressione circa una certa idea, che avevamo dato felicemente per assodata intorno al mezzogiorno del dì di festa, davanti al buonumore di un piatto di spaghetti fumanti, cotechino con purè, torta inzuppata alla panna, vini assortiti, caffè, ammazzacaffè, vacilla miseramente qualche ora più tardi, con lo stomaco in subbuglio per una troppo dilungata digestione, concomitante la mestizia per il volgere al termine dell’atmosfera festaiola.

Non soltanto ogni cosa, ogni evento, fenomeno, muta incessantemente di fronte alla nostra considerazione, ma queste continue mutazioni sono per di più in balia dei più svariati stati d’animo da noi attraversati.

A questo si aggiunga il fatto dell’incremento di esperienza, accumulata inoltrandosi di man in mano nel sentiero della vita, tanto che ad ogni passaggio del nostro tempo biografico in evoluzione, ci pare di aver vestito identità diverse, di essere stati persone differenti, di aver impersonato decine di ruoli e nemmeno tanto attinenti l’uno con l’altro.

Tutte queste considerazioni per giungere a concludere che è vero tutto, ed è vero anche il contrario di tutto? Che ogni cosa è falsa e vera nel medesimo momento? No, assolutamente niente di tutto ciò.

Il vero ed il falso, da qualche parte perlomeno, devono esistere, ed anche essere nettamente distinti. Ma quella distinzione, con la maggior cura filologica possibile per il termine, va ricercata appunto nel nome di una “obiettività” che intende il Vero come incessante “obiettivo” al quale tendere. Il Vero è oggetto troppo vasto per la piccolezza di sguardo del “conoscente”, che si deve perciò vestire di modestia suprema e navigare a vista tra verità parziali conquistate di volta in volta.

Non so come mai sono stato colto da simili bislacchi pensieri, e non so nemmeno se sono attinenti con i bei brani e citazioni che mi va di riportare di seguito. A mio avviso, una qualche attinenza c’è, e ci si può persino divertire ad andarla a stanare:

«…L’insignificanza, amico mio, è l’essenza della vita. E’ con noi ovunque e sempre. E’ presente anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso coraggio per riconoscerla in condizioni tanto drammatiche e per chiamarla con il suo nome. Ma non basta riconoscerla, bisogna amarla, l’insignificanza, bisogna imparare ad amarla…».

La festa dell’insignificanza
Milan Kundera - 2013

«…Jung è […] persuaso che la psiche è così solidale con la storia da esserne profondamente attraversata e modificata. Questa variazione continua non consente una costruzione della psicologia come scienza esatta, ma un’attenzione ininterrotta alle sue mutazioni che sono decise dalla forma che di volta in volta assume la storia. Questa infatti, inaugurando delle idee dominanti e dei modi collettivi di vita di volta in volta diversi, modifica continuamente la natura dell’inconscio che si trova ad ospitare ciò che le varie epoche storiche rimuovono come non confacente alla visione del mondo che di volta in volta inaugurano. […] tra civiltà, che è cura dell’ordine intersoggettivo, e psicologia del profondo, che è cura dello scarto soggettivo, c’è rapporto e sguardo reciproco…».

Il gioco delle opinioni
Umberto Galimberti – 1989

E per far quadrare il cerchio di questa confusionale miscellanea di suggestioni sgangherate, mi piace concludere citando (per sommi capi) le parole di Philippe Daverio, riguardo alle opere di Pablo Picasso, in riferimento particolare a quelle più astruse del periodo cubista: «…Adoro Picasso, anche se il più delle volte non mi dice assolutamente niente…».

Così, mentre anche per oggi narrativamente mi accomiato, mi sento ancor più roso dall’amletico dubitare: è più intensa fonte d’attrazione per le legnate, la foca con la voce della Littizzetto, oppure George Clooney quando domanda: «…It’s a v-llludo?...».