venerdì 27 giugno 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Paul Gauguin (1848-1903)

Puntata coi controfiocchi oggi della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Per il suo appuntamento settimanale con moda e pittura, Kika ha infatti scelto un autore da annoverarsi fra i capisaldi della storia dell’arte moderna: Paul Gauguin (Parigi, 1848 – Isole Marchesi, 1903). In particolare, Kika rivisiterà l'abbigliamento di una delle due figure femminili ritratte nell'opera “Donne tahitiane sotto le palme”, del 1892.

Per parlare di Gauguin come si deve, “un esperto” dovrebbe premettere la seguente domanda: «...D'accordo, ragazzi: avete una settimana di tempo?...». Dal momento che non credo ci sia nella disponibilità di nessuno una “volumetria cronologica” simile, e considerata anche la mia sana insipienza di critico d'arte del lunedì (che son peggio di quelli della domenica), mi limiterò ad alcuni cenni e suggestioni sparpagliate, da par mio (e soprattutto, potendomi ampiamente affidare, in questo celeberrimo caso, alla salda guida di Giulio Carlo Argan).

Per farsi un'idea del “clima esistenziale” in cui maturò l'arte di Gauguin, suggerisco due riferimenti di varia natura. Uno è il film “Brama di vivere” (1956): abbastanza avvincente, per quanto assai oleografico ed “Hollywoodianeggiante”, racconta principalmente della vita di Vincent Van Gogh, ma si sofferma a lungo sul travagliato periodo vissuto in comune dai due pittori ad Arles. L'altro appiglio biografico, stavolta di più notevole spessore, è un bel romanzo di Mario Vargas Llosa, “Il paradiso è altrove” (2003), dove a capitoli alternati si narrano le peripezie artistiche di Gauiguin nelle lontane e diverse isole esotiche in cui visse, intrecciate alle vicende di Flora Tristan (1803-1844), la nonna materna del pittore, scrittrice, propagandista a favore della lotta per i diritti dei lavoratori e femminista ante-litteram.

Dopo un primo periodo parigino e “molto borghese” della propria vita (fu impiegato in un'agenzia di cambi), Gauguin si avvicina relativamente tardi al mondo dell'arte. Si formò nell'ambiente degli impressionisti, assorbendo profondamente sia la lezione di Van Gogh, che quella di Cézanne. Gauguin è noto come il pittore della riscoperta delle radici primitive dell'arte. Questa affermazione è senz'altro in parte vera, ma in modo più profondo ed articolato di quando non si intenda comunemente. Dopo aver “ripudiato”, in pratica con gesto definitivo, la civiltà occidentale, visse quasi tutto il resto della sua vita fra Panama, la Martinica, poi soprattutto a Tahiti, ed infine nelle Isole Marhcesi, dove trovò la morte per le terribili conseguenze della sifilide, contratta a causa della sua smodata bramosia sessuale (sintomo, anch'essa, della straripante energia vitale con cui questo artista affrontò tutta la propria esistenza; e d'altra parte, fra le principali “utopie culturali” di Gauguin, ritroviamo anche la riscoperta del candore primigenio di un erotismo non contaminato dalle “sovrastrutture della civilizzazione”).

L'allontanamento di Gauguin dalla cosiddetta civiltà, più che un fuggire lontano da qualcosa, rappresenta un lunghissimo viaggio in direzione di una ricerca interiore. Scrive Argan che Gauguin
«...in Martinica e in Polinesia non cerca qualcosa di altro o diverso, ma la realtà profonda del proprio essere. Non esplora il mondo alla ricerca di sensazioni nuove, esplora se stesso per scoprire le origini, i motivi remoti delle proprie sensazioni. Nei dipinti di Gauguin non c'è rilievo né profondità, tuttavia non sono piatti, come quelli di Manet. La loro profondità non è di spazio, ma di tempo. Non è l'istante fermato, come in Degas o in Toulouse, né il tempo che scorre, come più tardi in Bonnard; è un tempo remoto e profondo, su cui l'immagine del presente si adagia e dilata come una ninfea sull'acqua ferma. Cézanne dava alla sensazione la dimensione intellettuale, ontologica della coscienza; Gauguin la colloca nella dimensione dell'immaginazione...[...]....per Gauguin le immagini che la mente forma in presenza delle cose (le percezioni visive) non sono diverse da quelle che risalgono dalle profondità della memoria, né queste meno “percepite” di quelle. Sostiene che si deve dipingere di memoria, e non dal vero; e che nella cosiddetta barbarie dei primitivi ritrova la giovinezza, un tempo perduto...».

Come sempre, la prosa di Argan può apparire di non immediata assimilazione, ma si porga estremo ascolto ed attenzione al peso delle singole parole, all'architettura perfetta del suo discorso: ci si accorgerà che in questo brano c'è dentro non solo tutta la grandezza di un'artista, ma anche la sua straordinaria capacità di anticipare tantissimi “tesori” culturali a venire: ci sono dentro Proust e Joyce, c'è il Cubismo di Picasso, c'è Modigliani, c'è buona parte del “significato creativo e spirituale” (dell'essenza) del cinematografo, e poi c'è dentro chissà cos'altro ancora.

Argan spiega inoltre come Gauguin “metabolizzi” gli insegnamenti di  Cézanne e degli impressionisti, andando oltre: «...Si distacca dalla corrente che discende dall'Impressionismo (nel 1887) perché ormai è certo che la sensazione visiva è solo un caso particolare dell'immaginazione. E l'immaginazione non è al di là della coscienza, la implica: ecco perché la pittura di Gauguin presuppone quella di Cézanne e, in definitiva, mira ad estendere l'area della coscienza al di là di quella dell'intelletto...[...]...Gauguin non ricusa i risultati delle ricerca impressionista nel campo della percezione, ma li utilizza per offrire col quadro un campo percettivo, in cui è contenuto ed espresso un pensiero. Trasforma cioè la struttura impressionista del quadro in una struttura di comunicazione, espressionista...».

Di fondamentale importanza, anche l'aspetto culturale di fondo, insito nell'atteggiamento di ricerca artistica di Gauguin: dimostrando che fra i cosiddetti primitivi bisognava recarsi per apprendere civiltà, e non invece con la pretesa di imporne loro una nuova, il pittore francese denunciava apertamente, di fronte al mondo suo contemporaneo, la grande stortura del colonialismo, fenomeno, proprio in quell'epoca, in piena espansione.
Rendendomi conto di aver detto il minimo, ma proprio il minimo indispensabile, riguardo ad un artista della levatura di Gauguin, passo ora alla mia consueta indagine fisiognomica. Grande artista, colpo secco: così siamo soliti dire “noi” che bazzichiamo l'ambiente dei detective di volti. Molto più modestamente, confesso che sono riuscito a trovare solo una somiglianza, in questo caso, ma credo abbastanza efficace. Eccola a voi:

Si tratta della brava (e anche bella, a mio modesto parere) cantante e strumentista Marina Rei, il cui volto mi sembra abbastanza in tema con l'estetica di Gauguin, per un certo esotismo dei suoi tratti.

Si conclude così l'odierna puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”, e adesso andiamo a scoprire le sorprese che Kika ha fatto sbucar fuori dal suo rutilante cappello a cilindro di fantasiosa maghetta modaiola.

venerdì 20 giugno 2014

Le muse di Kika van per pensieri: l’arte Moghul (1526-1707)

Puntata un po’ particolare oggi della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Il tema proposto da Kika per inseguire le proprie fascinazioni di moda, è infatti alquanto misterioso. Si tratta di una stampa risalente con ogni probabilità all’epoca dell’impero islamico-indiano Moghul (1526-1707), o perlomeno è nello stile di quel periodo attraversato dalla lunga civiltà indiana che va inquadrata. Vista la “rarefazione” dell'argomento, per non rischiare di dire inesattezze madornali, evito di avventurarmi in analisi critiche o storiche di dettaglio, e per un inquadramento di massima dell'epoca di cui stiamo parlando, vi rimando alla relativa voce di wikipedia (dalla quale ho tratto anche i termini temporali indicativi del periodo di maggior splendore di questo regno).

Per quel che riguarda la stampa in questione, voglio fare invece una breve considerazione, più connessa alla “storia della rappresentazione”. Osservando l'immagine dal nostro punto di vista “occidentale”, possiamo notare un aspetto, per così dire, visivamente anomalo. I personaggi, e anche tutto il contesto del paesaggio, non sono calati nello spazio con il tipo di distribuzione prospettica che più ci è familiare (se si eccettua l'arte moderna, ma qui il discorso si complicherebbe a dismisura). I vari elementi della scena rappresentata seguono invece una sorta di “gradiente spaziale” proprio, di volta in volta “contrattato” con l'osservatore. 

Cerco di spiegarmi meglio con alcuni esempi. Gli occhi dei due personaggi seguono il profilo generale dei volti, ma le dimensioni ricalcano piuttosto quelle di uno sguardo frontale, fatto questo accentuato ancor più dalla notevole lunghezza del sopracciglio. Questa particolare commistione tra profilo e frontalità, si ripropone anche nei due corpi, quasi appiattiti (e ad ogni modo “innaturali” nella postura), per seguire una loro “logica” di eleganza a se stante, e in maniera particolarmente evidente nel piede della ragazza, in parte visto di profilo, ma che, per la porzione che concerne le dita oltre l'alluce, sembra sottostare a tutt'altro ordine spaziale. Simili annotazioni si possono fare guardando le foglie della vegetazione che fa da contorno all'idillio dei due giovani, che sembrano disposte come se dovessero essere “enumerate” e non descritte con le modalità dirette di un osservatore immerso in questo tipo di scena.

Tutto questo per dire forse che gli artisti indiani elaboravano le loro rappresentazioni a partire da una minore perizia tecnica e compositiva? Assolutamente no. La distinzione non è infatti di carattere tecnico, ma riguarda l'approccio concettuale alla scena. Generalizzando e semplificando molto (e tenendo conto che le schematizzazioni sono pur sempre insufficienti a spiegare), possiamo vedere tutta la vicenda della storia dell'arte come un'oscillazione fra due poli: da una parte, c'è “un'arte” che tende a rappresentare della realtà ciò che “si vede” (espressione massima di questo tipo di “oggettualità” si è avuta con la prospettiva rinascimentale); dall'altra, si pone “un'arte” che tende a rendere la realtà facendo prevalere quanto di essa “si sa” (questo tipo di visione artistica del mondo, è stato privilegiato ad esempio dall'arte medievale; una sintesi somma fra le due, si è avuta invece col classicismo greco, con la sua idealizzazione suprema delle forme reali). 

Con tutte le magagne di questa classificazione, possiamo dunque far rientrare la nostra odierna immagine indiana proprio nel secondo gruppo. In questa immagine conta più ciò che si sa, o forse ciò che “si sente”, di ciò che si vede. Nello specifico dell'immensa cultura indiana, il discorso si farebbe oceanico, e soprattutto molto periglioso per un inesperto del tema, quale io sono. 

Mi limito dunque a citare  alcune frasi da un bel libro intitolato “Passioni d'Oriente – Eros ed emozioni in India e Tibet” (a cura di Giuliano Boccali e Raffaele Torella – Einaudi – 2007). In particolare, gli stralci sono presi da un saggio (contenuto nel testo citato) di David Smith, “La rappresentazione delle emozioni nella scultura indiana - Il corpo, lo spirito”, che pur riferendosi ad un'epoca molto precedente, possono fornire alcuni elementi in più riguardo alle particolarità dell'estetica indiana tradizionale: 

«...Il testo chiave su pittura e scultura, di tarda epoca Gupta, cioè la terza sezione del Visriudharmottara-purana (circa 600 d. C.), è raccontato al mitico re Vajra, archetipo del dotto mecenate. Il Visnudharmottara-purana inizia la sua dissertazione su pittura e scultura affermando che la danza è alla base di queste due forme d'arte e che la musica è alla base della danza. In seguito il testo spiega che la teoria letteraria dell'esperienza estetica (rasa), che facilmente si addice a danza e musica, si applica anche alle arti visive. La teoria dei rasa sostiene che la rappresentazione delle emozioni sul palcoscenico e in poesia conduca i fruitori ad assaporare l'emozione (rasa) con raffinata consapevolezza. Joanna Williams ha prudentemente accennato al fatto che nelle arti visive di epoca post-Gupta si fa riferimento sempre di più a questa teoria..[...]...Il principale problema nell'occuparsi di estetica indiana, tuttavia, è il fatto che la predilezione indiana per l'astrazione sembra remare contro la possibilità di trovare dettagliati esempi pratici di quanto elaborato in sede teorica...[...]...In ogni modo, un gradito tentativo di presentare in modo dettagliato i rasa fu intrapreso da B. N. Goswamy con la mostra che egli curò per il Festival dell'India nel 1986, raggruppando sculture e dipinti sotto i titoli dei nove diversi rasa...[...]...Goswamy appropriatamente avverte della difficoltà del progetto: Dal momento che le associazioni di pensiero sono diverse e che le rifrazioni dei significati non possono essere catturate con la stessa ricchezza in un differente contesto culturale, alcuni spettatori, sia in India sia altrove, potrebbero essere inclini a vedere certune opere come, probabilmente, connesse a un rasa diverso da quello con cui sono state qui messe in relazione. Tali divergenze o preferenze non sono inattese poiché, come dicono i testi, noi tutti importiamo nelle opere d'arte le nostre associazioni mentali, le “impressioni dovute all'esistenza precedente” e le nostre energie...».

Raffinata consapevolezza dell'emozione (Rasa), sensualità, spiritualismo, rifrazione di significati, pittura e scultura investite dell'essenza di danza e musica, energie, associazioni mentali, impressioni di vite precedenti: l'universo artistico-culturale indiano è veramente troppo sconfinato per esser tratteggiato in poche righe da un umile detective fisiognomico, che passa dunque ad occuparsi dell'indagine che più gli compete, nella speranza di aver fornito anche stavolta alcuni elementi utili per approfondire l'argomento.

La particolarità dei visi dei protagonisti di questa stampa indiana, mi ha dato agio di fare una ricerca piuttosto divertente. Mi sono sbizzarrito in piena libertà fisiognomica e ne sono scaturiti tre volti femminili dei giorni nostri, con un buffo corollario per quello maschile.

Ecco il primo esito femminile a cui è giunta la mia indagine:

Settiman-enigmisticheggiando, se non l'avete riconosciuta, ve lo dico io: è la più piccola delle sorelle Goggi, Daniela, che personalmente associo sempre al fanciullesco motivetto che si apriva coi memorabili versi: “...a Zigo-Zago c'era un mago con la faccia blu...”.

Proseguendo con le elucubrazioni fisiognomiche, sono approdato sui lidi della comicità:

Questa è Caterina Guzzanti, sorella di Sabina e Corrado, interprete di tanti divertenti personaggi di satira social-politica e di costume

Lasciando poi andare la barca fin che va, sono incappato in questo altro volto famosissimo:

E qui, che cosa ve lo dico a fare...altri non è che l'Oriettona Berti di “Io, tu e le rose” e tantissimi altri successi extra-nazional-popolari.

Chiudiamo poi col botto, con un'ipotesi stranissima, riguardante il personaggio maschile:

Avreste mai immaginato di andare a scovare in un dipinto indiano, niente meno che il volto del ruspante “bocconiano” di “Drive in”, Sergio Vastano? Beh, adesso potrete dire che vi è capitata pure questa...

Ed ora, tutti insieme sul blog di Kika, per scoprire quali fantasmagorie di moda ci ha riservato oggi, prendendo le mosse dalla misteriosa cultura indiana. Prima però, avete anche facoltà di rinnovare il johnny-stecchiniano grido di battaglia tradizionalmente utilizzato per criticare le mie proposte fisiognomiche. Parafrasando il personaggio odierno, il bocconiano sprezzante del minimo dei voti da istoriare sul libretto universitario (“...Digiotto? LO REFIUTO!!!...”), potete similmente all'unisono rinfacciarmi: “...Queste somiglianze? LE REFIUTO!!!...”.

venerdì 13 giugno 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Itzchak Tarkay (1935-2012)

Oggi Kika ci porta a conoscere un pittore che ha attraversato buona parte del drammatico “secolo breve” (così come viene anche chiamato il ‘900) con un'inopinata levità, dedicata prevalentemente alla ricerca della bellezza e dell’eleganza pura. Parliamo di Itzchak Tarkay (Subotica, 1935 - 3 giugno 2012), artista israeliano di origini mitteleuropee, ed in particolare della sua opera intitolata “Conversazione”.

Tarkay non è un autore molto noto e non si trovano tante informazioni critiche sulla sua opera. Segnalo un sito interessante a riguardo, con alcuni dati essenziali sull'artista e molte belle immagini di suoi lavori. A parte qualche cenno “biografico-operativo”, mi sbizzarrirò dunque con alcune mie osservazioni personali estemporanee.

Un dato interessante da segnalare è che Itzchak Tarkay nacque da famiglia ebrea a Subotica, una città dell'attuale Serbia che storicamente ha vissuto vicende culturali fortemente influenzate dalla propria posizione di confine (tra retaggi austro-ungarici e incipienti costrizioni jugoslave). Scorrendo velocemente la voce di wikipedia riguardante Subotica, ho colto un passaggio che mi ha dato alcuni spunti di riflessione:

«...Nel corso della storia sono state utilizzate almeno due centinaia di diverse forme nominali per indicare la città di Subotica. Questo è dovuto al fatto che Subotica ha accolto fin dai tempi del Medioevo diversi popoli. Essi hanno scritto della città utilizzando le loro lingue, le quali, per la maggior parte, non hanno fissato la loro grafia definitiva fino all'era moderna...».

La famiglia di Itzchak Tarkay subì il tragico destino di migliaia di altre famiglie ebraiche in quegli anni: deportata nel lager di Mauthausen, nel 1944, venne liberata poi dagli Alleati a fine conflitto. Nel 1949, Tarkay segue la famiglia che si trasferisce nel neonato stato israeliano, dove frequenta l'Accademia Bezalel di Arte e Design dal 1951, e si laurea al Avni Institute of Art and Design di Tel Aviv nel 1956.

Questi brevi cenni biografici, incrociati con l'espressività particolare riscontrabile nei quadri di   Itzchak Tarkay, mi hanno offerto alcuni spunti, magari un po' vaghi ed evanescenti, ma che mi piacerebbe illustrare. Itzchak Tarkay è stato un artista con profondissime radici culturali, tuttavia pressoché definitivamente sradicate (col genocidio del suo popolo). Inoltre, era originario di una città, e di una parte d'Europa, anch'essa praticamente “cancellata” dal punto di vista dell'identità più strettamente intesa, in seguito agli epocali mutamenti storici subiti.
 
 
 
 
 
Come si traduce, in termini estetici, tutto questo complesso retroterra culturale? A mio parere non è un caso che in  Itzchak Tarkay, la tematica si presenti in misura quasi del tutto ininfluente. Non ha interesse per soggetti sociali, politici, o che potremmo definire in qualche modo “impegnati” (e dire che, vivendo in Israele, avrebbe avuto l'imbarazzo della scelta). Per una vita intera, dipinge eleganti soggetti femminili, intenti a fare esattamente “un bel nulla”. Mi azzardo ad ipotizzare che Tarkay, in questo modo, si sia voluto concentrare totalmente sulla ricerca formale pura. In questo senso è un autore cosmopolita, che si innalza al di sopra delle contingenze storiche, con l'intento di cogliere l'eterno senso celato dietro le forme della realtà. Dite che ho esagerato con l'analisi? Boh, non so...a me questa cosa è venuta in mente e l'ho buttata lì. Come spunto di riflessione non mi pareva male... 

D'altra parte, non è mia intenzione, né esagerare l'importanza dell'opera di questo autore, ma nemmeno sminuirla troppo. Con Itzchak Tarkay, non parliamo di un artista particolarmente innovativo o rivoluzionario. Pur operando in pieno '900, i suoi riferimenti pittorici si rifanno in parte all'impressionismo, in parte alle correnti Fauves e Nabis, a Gauguin e poi ancora a Matisse. Mi ha incuriosito tuttavia un altro  aspetto del suo fare artistico, tanto da farmi avventurare in un altro piccolo excursus mentale su temi d'arte generalissimi, ma ai quali magari val la pena accennare.

Se si osservano le damine di  Itzchak Tarkay e tutti gli altri oggetti che fanno parte del loro ambiente pittoricamente riprodotto, si può notare come siano ritratte in parte con nette delimitazioni dettate dalla linea nera, in parte con pure macchie di colore che emergono all'uopo, occupando determinate porzioni della scena. Mi volevo allora soffermare brevemente sulla questione linea-colore, una delle più antiche e fondamentali di tutta la storia dell'arte (in realtà su questo tema si potrebbero produrre 10 libri, ma va beh, si prendano come brevi flash suggestivi i rapidi cenni che mi accingo a scrivere, con tutti i limiti di un'estrema sintesi così raffazzonata...).

Approcciare il soggetto da ritrarre, partendo dal punto di vista della linea, oppure da quello della “macchia” di colore, comporta due veri e propri modi di vedere la realtà completamente diversi. La linea presuppone una sorta di “appropriazione razionalistica” del mondo: contornando il soggetto lo si pone sotto l'egida di una identificazione fondata su di un certo ordine mentale, si privilegia la concretezza, la determinazione chiara degli oggetti, sempre mediata dalla mente. 

L'accento posto sulla “autosufficienza espressiva” del colore invece, scelta come “tramite significante”  principale, introduce una visione della realtà che accetta la “sensazione” come testimone primario.

Da un parte la ragione, dall'altra la sensazione: si tratta di un dualismo nato insieme all'arte stessa, risalente addirittura ai lontanissimi periodi del paleo e del neo-litico. Due interessantissimi passaggi tratti da “La storia sociale dell'arte” (1955) di Arnold Hauser, ci confortano in tal senso.

La “fedeltà alla sensazione”, che privilegia la forma dettata da colori “liberi”, vige per tutto il Paleolitico:

«...Questo fenomeno, forse il più singolare di tutta la storia dell'arte, è tanto più sconcertante in quanto non trova riscontro nei disegni infantili, né, di solito, nell'arte dei selvaggi. I disegni dei bambini e l'arte dei selvaggi son frutto della ragione, non dei sensi; mostrano quel che il bimbo e il selvaggio sanno, non quello che vedono realmente. Entrambi offrono dell'oggetto una sintesi teorica, non una visione organica...[...]...È viceversa caratteristica del naturalismo paleolitico la capacità di rendere l'impressione visiva in una forma cosa immediata, pura, libera, esente da aggiunte o limitazioni intellettuali, che rimane un esempio unico fino al moderno impressionismo. Qui noi troviamo studi di movimento che già richiamano le nostre istantanee fotografiche, e che ritroviamo soltanto nelle figure di un Degas o di un Toulouse-Lautrec; al punto che, ad un occhio non esercitato dall'impressionismo, molto in queste pitture deve apparire mal disegnato e incomprensibile...»

Col Neolitico, s'insinua la nuova figuratività incentrata fondamentalmente dalla linea:

«...Lo stile naturalistico dura per tutta l'era paleolitica cioè per molte migliaia d'anni; una svolta - il primo mutamento stilistico nella storia dell'arte - si manifesta soltanto con la transizione dal paleolitico al neolitico. Soltanto allora la visione naturalistica, aperta alla varietà delle esperienze, cede il passo a una stilizzazione geometrica, a un'arte che tende ad estraniarsi dalla ricchezza della realtà empirica. Invece del verismo, che aderisce con amore e pazienza al carattere del modello, d'ora in poi troviamo dappertutto segni schematici e convenzionali, quasi geroglifici che alludono all'oggetto, anziché rappresentarlo. Anziché la vita concreta nella sua pienezza, l'arte mira a fissare l'idea, il concetto, la sostanza delle cose, a crear simboli, non riproduzioni...».

Si potrà storcere il naso di fronte a questi collegamenti all'apparenza alquanto arditi, e soprattutto ci si potrà domandare cosa c'entra tutto questo con  Itzchak Tarkay. Ma la mia modesta intenzione era solo quella di lanciare qua e là alcune suggestioni sparse, utili “richiami” per la curiosità di ciascuno, da approfondire poi ovviamente come si deve in altre sedi e con altri strumenti.
Per ora, mi limito a concludere il discorso con la mia indagine fisiognomica di oggi. La vaghezza dei tratti delle damine del dipinto di  Itzchak Tarkay e la loro duplice presenza, mi hanno dato modo di divertirmi nella ricerca, e di ciurlare anche un po' nel manico fisiognomico. Ho scovato due somiglianze, una per ciascuna damina. Partiamo con quella da sinistra:
 
Qui davvero le presentazioni sono superflue. Siamo infatti di fronte ad una gran diva a tutto tondo, Liza Minnelli, attrice e cantante strepitosa.

Con la seconda damina, facciamo ora un salto più verso i lidi nostrani, ed andiamo a riscoprire un volto che fu piuttosto noto intorno agli anni '50 e '60:
 
Questa è Marisa Del Frate, anch'ella apprezzata cantante ed attrice di casa nostra, protagonista anche di diversi varietà televisivi, al fianco di famosi comici (Gino Bramieri, Raffaele Pisu, Erminio Macario e altri).

Siamo giunti così al termine anche dell'odierna puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”. Vi saluto e vi invito a fare un salto tutti insieme sul blog di Kika, per scoprire come, da brava “chef  estetica”, ci ha cucinato la poetica di  Itzchak Tarkay in salsa modaiola.

venerdì 6 giugno 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Hans Zatzka (1859-1945)

Oggi Kika, inseguendo idealmente le tracce di un soggetto smeraldino ed acquoreo da intonare al tema dei sandali proposto nei giorni scorsi, ci porta a conoscere un pittore austriaco vissuto tra le metà dei due secoli che ci hanno preceduto: Hans Zatzka (Vienna, 8 marzo 1859 – Vienna, 17 dicembre 1945). L’opera presa in considerazione s’intitola “A water idyll” (in italiano potrebbe suonare “Un idillio acquatico”), e ci introduce già direttamente nel vivo del “significare artistico” di questo autore, che a mio avviso si può riassumere con un'espressione del tipo: “poetica del non impegno”. 

Passando in rassegna anche altre opere di Hans Zatzka, mi pare di poter affermare che la sua maggiore “preoccupazione artistica” fu di mantenere le tematiche rappresentate sempre “in superficie”. Tutta la sua ricerca creativa si sviluppò ed articolò nell'ambiente viennese che gli diede i natali, dove si distinse fra l'altro anche come decoratore ed esecutore di affreschi in ambienti “ufficiali”. A differenza di molti altri artisti della sua epoca, Zatzka non accolse le influenze impressionistiche, ma nemmeno le inquietudini della Secessione, altro grande movimento culturale che doveva essergli ben più familiare, essendosi sviluppato a partire proprio dalla sua città. Compì invece vari viaggi in Italia, attingendo forse linfa creativa di preferenza dalla nostra lunghissima tradizione artistica.

Sia per le tematiche scelte di volta in volta, sia per le soluzioni espressive adottate nelle proprie rappresentazioni, Hans Zatzka si attenne sempre ad una sorta di “accademismo patinato”, che ci consente di parlarne ancora oggi come di un artista “non problematico”. “Problematizzare” la vita: è questa una delle prospettive a partire dalla quale può essere visto l'operato creativo di un artista. Per meglio chiarire il concetto, mi piace ritornare su un curioso fatterello illustre da me altre volte citato, apparentemente del tutto estraneo all'arte: l'aneddoto del piccolo Gauss. 

Secondo la leggenda, il futuro grande matematico Carl Friedrich Gauss (1777-1855), all'epoca ancora fanciullo, si trovava un giorno in classe con tutti i compagni, quando il maestro, forse per aver agio di sbrigare altre sue faccende, assegnò loro un compito alquanto pedantesco, giusto per tenerli impegnati un po', ossia eseguire la somma di tutti i numeri da 1 a 100. Tutti i ragazzini si misero di buona lena ad aggiungere numero su numero, tutti tranne il piccolo Gauss, il quale, considerando i dati a disposizione da un punto di osservazione per così dire “più panoramico”, e notando che essi erano molto più sinteticamente ragruppabili in 50 coppie la cui somma dava di volta in volta sempre 101 (1+ 100 / 2 + 99 / 3 + 98 / e così via, sino a 50 + 51), non fece altro che eseguire la ben più immediata moltiplicazione 50 x 101, ottenendo in un attimo il risultato, 5050, che gli amichetti intorno si arrabattavano ad inseguire con lungo sforzo. Gauss non si era limitato ad accogliere passivamente i dati a disposizione, ma “problematizzandoli”, era riuscito a “far dire” loro qualcosa di nuovo.

Trasponendo un po' forzatamente il ragionamento sul piano dell'arte (con tutte le rigorose distinzioni e differenze del caso), possiamo allora parlare anche qui di due grandi categorie di autori: quelli “problematici” e quelli “non problematici”. I primi assumono con la propria opera i “dati della vita” e li rielaborano in un discorso originale in grado di mettere in luce nuovi risvolti di senso. I secondi, al pari dei pedanti compagnucci del piccolo Gauss, si limitano a prendere atto degli “oggetti del mondo”, ragionando intorno ad essi senza mai discostarsi dall'ambito della consuetudine e del già detto. E proprio nella schiera di questi secondi è annoverabile Hans Zatzka (non ingannino le espressioni "oggetti del mondo" o "dati della vita", in relazione ad un pittore che era solito ritrarre di preferenza ninfe ed altre amenità mitologiche: più generalmente, il riferimento va rivolto invece alle componenti fisiche prese come dato di partenza del dipingere: la luce, i colori, i volumi, ecc.).

Per concludere le mie considerazioni “a latere” dell'opera del pittore austriaco, azzardo anche una genesi ed un percorso storico-iconografico, che mi sembra di poter attribuire alla sua predilezione per una figuratività così “patinata”. Possiamo considerare le ninfe e le eteree figure perennemente “bucolicheggianti” di  Zatzka, in prima battuta come pronipoti dei paffuti angioletti voluti da Raffaello a contorno della sua celeberrima “Madonna Sistina” (1513), e ad  un secondo livello, come nipoti del patinatissimo Gesù Bambino (1655 circa) di Bartolomè Esteban Murillo, divenuto quasi prototipo della più classica delle immaginette da Prima Comunione.
"La madonna Sistina" (1513) - Particolare - Raffaello Sanzio 
"Il buon pastore" (1655 circa) - Bartolomè Esteban Murillo

L'indagine fisiognomica di oggi mi ha messo alquanto in difficoltà, nonostante ci fosse più scelta, essendo ben tre i visi femminili ritratti. Mi sono concentrato sulle due figure in piedi a sinistra. 

La primissima signora abbigliata di verde-azzurrino, con la brocca in mano, è stata quella che mi ha creato il più intenso dissidio fisiognomico. Assomiglia infatti tantissimo ad una persona che conosco nella “vita comune”, una perfetta “non vip”. Ho trovato anche su facebook una foto che sarebbe stata perfetta, ma ovviamente non posso permettermi di riportarla qui, senza il consenso dell'interessata. Mi limito dunque a proporvi una somiglianza assai precaria con un volto famoso, premettendo però che si tratta di un tentativo al limite della “truffa fisiognomica”.
Si tratta dell'attrice Eva Grimaldi, che personalmente ricordo con simpatia al fianco di Massimo Boldi, nel leggerissimo filmetto del 1988, “Mia moglie è una bestia” («...non di solo Eisenstein e Pasolini vive l'uomo...»). Lo so, «...non ci rassomiglia [quasi] pe' 'gniente...», ma è stato il meglio che ho saputo fare pur di non dare per perso definitivamente questo caso, e più che altro per mitigare lo scorno subito con l'inattingibilità di quel volto dal mondo delle donne “non celebri”.

Forse un po' più centrata è la similitudine con la seconda dama da sinistra, la giallo abbigliata reggente il retino.
Si tratta in questo caso della bravissima attrice comica Anna Marchesini, della quale sono andato a pescare una foto giovanile, per rendere un po' più plausibile il raffronto.

Concludendo così anche questa puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”, andiamo ora insieme a fare un salto da Kika, per scoprire quali fantasmagoriche sorprese ci ha riservato in tema di abbigliamento, da abbinare alle protagoniste dell'opera di  Hans Zatzka.

martedì 3 giugno 2014

Il tubo digerente dell'apparato divertente

L’avvento di internet ha rivoluzionato in vari modi i rapporti fra le persone, non c’è sicuramente bisogno che ve lo venga a raccontare io. Senza voler esprimere giudizi di merito, diciamo semplicemente che si sono venute a creare dinamiche nuove e quindi anche nuove opportunità di entrare in relazione con gli altri. Questo è senza dubbio un fatto positivo, ma insieme alle nuove opportunità, sono spuntati anche vari fenomeni curiosi.

Il concetto di amicizia o di rapporto interpersonale in genere si è decisamente relativizzato. Probabile che si creino interazioni fra il modo di concepire e vivere le relazioni, da una parte, e le caratteristiche strettamente fisiche, offerte dall'interfaccia vera e propria dello strumento che ci apre ai contatti verso gli altri (schermo e tastiera del pc, smartphone, tablet, e così via).

A dispetto di tutta la virtualità messa in gioco, sembra proprio che l'ultimo residuo di fisicità riservato dai nuovi strumenti di interrelazione, s'imponga in misura notevole anche sulla natura delle stesse relazioni intessute con gli altri. Il ristretto spazio di uno schermo tende a dare evidenza soprattutto a ciò che è possibile visualizzare sopra quella limitata superficie di pixel. Su un blog, quel che conta è l'ultima cosa pubblicata. Su Facebook, sono in evidenza solo le ultimissime foto, le frasi citate più di recente, i video linkati nello stretto giro di pochi giorni prima. Uguale su Twitter. Conta solo ciò che sta a galla. 

A volte mi capita di pensare un po' alle sorti di questo mio umile blog. Immagino il visitatore casuale che si imbatta in questo spazio web e curiosi distrattamente. Ciò che s'impone alla sua svagata attenzione sono soltanto gli ultimi due o tre articoletti. Penso a cosa succederebbe invece se questo mio accumulo di roba scritta, si presentasse sotto forma di libro tradizionale, in fogli di carta e copertina veri e propri, rinvenuto sullo scaffale di una libreria di casa. L'occasionale lettore avrebbe modo di passare in rassegna la discreta mole di parole scritte, accumulate nel tempo qui su, probabilmente partendo proprio dalle cose più “antiche”, e arrivando a vagliare gli ultimi scritti, solo dopo essersi fatto un'idea ben più accurata e generale di tutto l'insieme.

Proprio il contrario di ciò a cui induce il “meccanismo” dell'interfaccia elettronico, che sospinge l'attenzione inevitabilmente sempre verso il “pelo dell'acqua”. Questa caratteristica non si trasmette forse anche al modo di relazionarsi agli altri via web? In parte è una cosa che succede anche nei modi “tradizionali” di aver a che fare con le persone, ma probabilmente internet acuisce la cosa. L'amicizia più “fresca” ed attuale è quella che rimane in evidenza, attiva “sullo schermo”, mentre le antiche relazioni si inabissano un po' nelle profondità dei vecchi spazi di pubblicazione, ormai celati sotto le insuperabili distanze di centimetri e centimetri di “scrollata” con la rotellina del mouse. Si tende insomma a “misurare” l'amico in base al suo stato di aggiornamento, a partire da quanto sa stupirci nello stretto presente.

Una delle avvisaglie più eclatanti per comprendere di essere diventato ormai un amico virtuale “passato in giudicato”, si verifica quando ci si accorge di aver subito l'irreversibile mutazione in discarica di mail “divertenti”. A dispetto dell'intenzionalità (forse anche in buona fede) dell'interlocutore, indirizzata semplicemente alla trasmissione di un paio di sorrisi, questa malinconica deriva è una delle più tristi pratiche immaginabili. Persone con le quali ai bei tempi si erano scambiate missive ricche di partecipazione personale, con discreto investimento di “energie amicali” dall'una e dall'altra parte, si fanno adesso vive soltanto con questi messaggi pluri-indirizzati, con la pretesa di farti partecipe ormai di un'inutile facezia comunitaria, svuotata di ogni profondità relazionale. 

Lo scoramento è reso infatti ancor più eclatante dal vedersi accomunati ad una nutrita lizza di co-destinatari della missiva in questione, tra l'altro, senza nemmeno l'accortezza di nascondere l'indirizzo altrui, e di conseguenza il proprio, allo sguardo di tutti gli altri leggenti. Essendo poi questi messaggi solitamente scambiati fra colleghi di lavoro, o conoscenti di conoscenti, conosciuti tramite l'amico che ha contatti con impiegati in altre ditte, alla mestizia generale, si aggiunge anche l'afflizione supplementare di passare in rassegna tutte quelle destinazioni mail, oscillanti fra l'asettico aziendaleggiante ed il confidenzial-fantasioso di certi nomignoli scelti con vezzo sbarazzino.

Da qui l'ulteriore sconforto nel constatare che il fondamentale messaggio è stato inviato “in beffarda esclusiva” ad altri settantadue indirizzi, fra i quai figura magari anche “p-punto-sbrignafulli-chiocciola-sidersgrugnatubisrl-punto-it”, oppure “lally72-chiocciola-cagnonetrasportisnc.com”.

L'estremo punto di non ritorno tuttavia, una certa amicizia web ormai cotta e decotta oltre ogni limite di decenza, lo tocca nel momento dell'ingresso nel mefitico vortice delle catene di Sant'Antonio. Quando un vecchio amico web ti manda un messaggio, nel quale ti prega di rigirare lo stesso ad altri 10 contatti, e vedi che anche lui a sua volta ti ha inserito in un elenco insieme ad altre 9 persone, beh, in quei casi, una simile azione equivarrebbe, nella realtà effettiva, al gesto di chiederti gentilmente di venirsi a pulire la suola delle scarpe sui tuoi pantaloni, dopo aver pestato una cacca di cane.