martedì 30 aprile 2019

Selenitici sfoghi


Da un sonno agitato, si possono talvolta formare, nella nostra immaginazione semi-consapevole, delle specie di “traveggole linguistiche”.

Sbocciano allora certi cortocircuiti tra il pensato e il non-detto, che sfociano in buffe espressioni mentali quasi involontarie, ma pur sempre cariche di verità, sospese a mezza strada fra il poetico e il profetico.

In un dormiveglia un po' sgangherato, stavo sognando situazioni irritanti. Ora, il contenuto, la trama del sogno, non li ricordo più bene.

Ho ancora ben presente però l’atmosfera in cui ero immerso: quel senso di opprimente ottusità che ti coglie di fronte a persone ostinate nel non capire una beata fava di niente.

Quelle situazioni in cui, nonostante titanici sforzi di argomentare, di spiegare, di addivenire a un compromesso ragionevole e ponderato su taluni argomenti, continui a vedere la controparte arroccata sulle sue monolitiche, tetragone, asfittiche “ragioni” insostenibili.

In simili casi, non resta altro che appellarsi alla nobile arte del mandare al diavolo.

Però, nell’esasperata condizione di quel mezzo incubo dell'impossibilità di capirsi, sentivo estremamente faticoso anche scovare un “posto maledetto” adeguato verso cui indirizzare l'insulso interlocutore.

Non si riusciva a trovare nemmeno la maledizione giusta, tanto era impermeabile a ogni refolo di ragionevolezza, quell’ermetica camera stagna mentale con cui mi trovavo oniricamente a confrontarmi.

Non capendo nulla, non avrebbe capito nessun luogo dove l’avrei volentieri mandato a farsi benedire.

Fino a quando, il genio del sonno che sempre veglia su di noi e infinitamente più di noi conosce il senso delle cose, mi ha suggerito la magistrale invettiva da adottare, semplice, lineare e definitiva come uno scrosciar di sciacquone.

Caro individuo dalla mente ermetica e serrata a doppia mandata e triplo catenaccio: fottiti sulla luna!

venerdì 26 aprile 2019

Il canto libero di Paul Klee



È normale che risentendo certe canzoni ascoltate e amate con forte intensità nel passato (in particolare nell’infanzia), tornino alla mente sensazioni sommerse molto remote, echi di stati d’animo dati quasi per dispersi, ma nondimeno ancora presenti e pienamente vivi nelle profondità di sé.

Più inusuale che canzoni mai sentite nella loro epoca di appartenenza, riescano a ottenere lo stesso effetto di trasporto temporale ed evocativo.

Mi succede ultimamente con uno strepitoso brano di Lucio Battisti: “Vento nel vento” (1972).

Sono quasi sicuro di non averla mai ascoltata nel periodo in cui uscì il disco o giù di lì, quando passava nelle radio e in ogni caso era più diffusa, magari nei jukebox. L’ho conosciuta soltanto poco tempo fa e l’ho trovata incredibilmente capace di farmi tornare alla mente ricordi e sensazioni di momenti noti, ma che nemmeno io sapevo di aver depositati sul fondo della memoria.

A tanto può arrivare la potenza della musica: fa rivivere momenti non vissuti.

Credo che nel caso di “Vento nel vento”, questo fatto succeda perché si tratta di un brano così intensamente “battistiano” (e “mogoliano”) da recare con sé una carica poetica sconfinata.

Ci sono i falsetti impervi, le note straziate a sfiorare l’eroica “sgraziatura” e subito dopo ricomposte in una perfezione sublime, il fascino di certe dissonanze spigolose, le vaste distese sinfoniche, ma soprattutto c'è l’energia melodica di questo sconfinato autore, sempre capace di nuove invenzioni armoniche che ti fanno esplodere l’animo di rapimento lontano, nei territori del sogno amoroso e della infinita sete di completezza del proprio essere, sempre ricercata nell’agognata fusione con la persona-soggetto idealizzato del desiderio.

Battisti non è il solo, ovviamente: la storia della musica è piena di incredibili talenti in grado elevare l'ascoltatore alle più alte vette dello spirito.

Ma lui mi è caro in modo particolare perché indelebilmente fuso al periodo della fanciullezza, quando i fili scoperti della sensibilità sono sempre pronti ad accogliere le sconvolgenti scosse che anche la minima fonte di bellezza sa regalare.

Poi ho scoperto una curiosa affinità. La musica di Battisti mi suscita emozioni straordinariamente simili a quelle nascoste nei quadri dell’immenso pittore svizzero-tedesco Paul Klee [(1879-1940), nella piccola immagine riportata, una sua opera del 1923: “Der seiltänzer” (Il funambolo)].

Entrambi questi artisti, anche se così lontani per ambito creativo, epoca e complessità culturale, sanno farci penetrare in una dimensione della memoria che pur non appartenendoci personalmente, sentiamo in ogni caso “nostra”.

Sono creatori di ricordi nuovi, plasmatori di barlumi di reminiscenza che non hanno nessuna base, in nessun “dove” e in nessun “quando” strettamente personali, eppure li sentiamo appartenere a noi con una densità quasi sconvolgente.

Entrambi hanno saputo avventurarsi nei territori del “profondo”, laddove i sentimenti di trovano in uno stato magmatico talmente puro da riuscire a far male.

E ne sono ritornati più volte, pagando anche con acciacchi e scottature personali, per riportare, a noi rimasti ad attenderli con trepidazione di qua dal guado, il dono delle indicibili verità dell’anima intraviste “laggiù”.

giovedì 25 aprile 2019

Il fasc"ino" ("ismo") discreto dell'uomo forte


Giambattista Vico (1668-1744), coi suoi celebri “corsi e ricorsi”, ci aveva ammonito molto tempo fa: la Storia si ripete.

Purtroppo però ha modi subdoli tutti suoi: si ripresenta sì nella sostanza, ma lo fa praticamente sempre in forme nuove.

E, per dirla con espressione molto cara al casato degli Höenzwilling Geopardini Figi, è un attimo  non avvedersi che stiamo posando di nuovo il piede su un “frammento cilindrico di materia organica anfibia di scarto”, già pestato da numerose generazioni precedenti.

Niente di più “naturale” allora che ciclicamente ritorni la leggendaria “voglia di uomo forte”.

È un fenomeno che si verifica in periodi storici di disorientamento, misto a una componente di dimenticanza della natura del mondo, da parte dell’uomo stesso.

L’uomo infatti è in grado di immaginare la perfezione, ma sfortunatamente per lui, la realtà, da che se ne ha memoria, si ostina a rimanere imperfetta.

Quando si attraversa appunto una fase di particolare difficoltà, concomitante a una momentanea amnesia in merito alla difettosità del mondo, ecco che puntuale come un fungo, rispunta lui, “l’uomo forte”.

Non importa che si tratti propriamente di un individuo singolo. Può essere un movimento, un’ideologia. Quel che conta (purtroppo) è la sua convinzione di avere in mano la “chiave del bene infallibile”, e che con questa chiave riuscirà ad eliminare le imperfezioni del mondo.

Ma come si fa a rendere perfetta una realtà per sua natura imperfetta? (Che è come domandarsi: come si fa a mungere lambrusco da una vacca?).

Le idee argomentate con raziocinio e ponderazione non sono sufficienti, perché il naturale e logico scorrere delle idee conduce sempre a costatare la già nota imperfezione della vita.

Per costringere l’imperfetta realtà ad essere perfetta, non rimane altro che “obbligarla” con la forza. E qui “l’uomo forte” capita a fagiolo, perché la forza è appunto la sua specialità.

Succede a questo punto, con sorprendente regolarità, un fenomeno curioso. L’uomo forte proclama ai quattro venti che renderà la realtà perfetta e come per incanto, tanta gente disorientata, inizia a credergli.

Chi si lascia affascinare dall’uomo forte, lo fa accogliendo un duplice abbaglio, causato dal potentissimo faro della iper-semplificazione banalizzante, ad emissione di milioni di watt di faciloneria.

Innanzitutto, dà per scontato che l’uomo forte sia il depositario della “ricetta indiscutibile del bene vero assoluto”, indubitabile, non sindacabile, e come tale va autorizzato all’uso di “qualsiasi mezzo possibile” per conseguirlo (con sdogananento prioritario della violenza “a fin di bene”).

In secondo luogo, chi si getta fra le braccia dell’uomo forte, è a sua volta convinto di stare proprio dalla parte giusta dello schieramento, di fare parte di quelli che le legnate non le prenderanno mai, ma si gusteranno solo lo spettacolo di vederle dare.

Mai autoinganno fu più beffardo.

Perché l’uomo forte, ebbro nell'invasamento della propria auto-investitura messianica, una volta che gli consegni in mano il bastone, non si può mai dire su quali e quante schiene lo andrà poi a misurare.

Teniamoci dunque cara la consapevolezza della nostra imperfezione. Perseguiamo con l’impegno congiunto di una comunità di persone libere, la perfettibilità. Tenendo sempre presente che perfezione non potrà mai diventare.

C'è un colorito modo dialettale per indicare lo stato di un cibo avariato, andato a male, dall'odore ormai fattosi pungente, per il cattivo modo di conservazione.

Si dice di un pezzo di formaggio fermentato, di un salume frollato oltre ogni consentita decenza: “…al sà ad fòrt…” (sa di forte).

Ecco, nella sua spontaneità diretta e schiettezza impagabile, nessuna espressione mi sembra più indicata per metterci in guardia nei confronti della ricorrente chimera storica dell’autoritarismo “a fin di bene”.

Innanzitutto, e per l'appunto, l’uomo forte è tale perché “…al sà ad fòrt…” (puzza in anticipo della “fermentazione” e del marcio che verranno, a concedergli eventualmente campo aperto).



martedì 23 aprile 2019

lunedì 22 aprile 2019

Il supermercato della fifa


Mi domandavo quale fosse la merce più prodotta, reclamizzata, diffusa, commercializzata, al giorno d’oggi.

La risposta non è facile, l’offerta di articoli è veramente sterminata, e sono destinati a una molteplicità di esigenze umane non così semplici da elencare.

Poi mi si è accesa una lampadina, piccola, eppure molto luminosa.

Ma certo! Come avevo fatto a non pensarci prima!
Il prodotto attualmente più prezioso e smerciato in enormi quantità è uno in particolare: LA PAURA!!!

(BUH!!!).

Anzi, la paura è “la merce” per eccellenza, perché se riesci a vendere bene quella, poi la gente ti comprerà ogni altra cosa: briglie per unicorno; sandalini per millepiedi all’ultimo grido (urlato in conseguenza di pestoni sui mille-calli); biglietti di sola andata per Borgo Utopia (regno dei più prelibati formaggi).

Ma soprattutto, chi governa la paura riesce a vendere un altro tipo di prodotto fondamentale: le idee.

Il fabbricante di paura ha gioco abbastanza facile.
La paura è infatti una materia prima che si trova in abbondanza “in natura”. Sta depositata nell’animo delle persone, in giacimenti distribuiti a varie profondità.

Potremmo paragonare la paura a un gas nobile, oppure a un metallo prezioso.

All’uomo può essere molto utile, la paura: fa parte dei sentimenti-guida fondamentali che aiutano a incanalarsi in maniera sana nelle logiche dell’esistenza. Avere paura è uno degli atteggiamenti più umani.

Quello che il fabbricante di paura fa, è calarsi nelle miniere dentro ai cuori e alle pance della gente, estrarre materiale grezzo di paura originale, e lavorarlo, trasformarlo, raffinarlo, fino a creare stock di nuovi articoli derivati, smerciabili sotto forma di angoscia, smarrimento, chiusura in se stessi, sfiducia generalizzata, diffidenza verso gli altri, tendenza a rifugiarsi nel passato, sguardo miope rivolto al futuro.

Ci sono poi due tipi di fabbricanti di paura.
Quelli di infimo livello, per paradosso, sarebbero anche i “migliori”, perché sbugiardarli risulta più agevole.

Creano infatti paure dal nulla, ampiamente infondate e, a meno che non siano dotati di astuzia diabolica, prima o poi vengono smascherati.

Infinitamente più insidiosi sono invece certi “produttori di paura ” che interpretano il proprio ruolo con gran “scrupolo professionale”.

Questi mica sono scemi.

Lavorano il loro prodotto a partire da materiale genuino: si servono di paure reali, effettivamente in corso nel sentire comune diffuso.

Fanno tuttavia in modo di mettere in risalto queste paure, come se fossero l’aspetto principale del mondo di chi le vive.

In altre parole, il fabbricante di paura esperto si danna l'anima per sussurrarti, suggerirti, urlarti in continuazione all’orecchio, che per te deve esserci soltanto quella paura, esiste solo lei, deve diventare la tua ossessione, è il tuo interesse principale, il nodo da sciogliere per continuare a vivere, la tua realtà di riferimento primaria.

Poco importa se nell'effettività vera della tua vita, quella, o quelle paure, occupano alla fine dei conti uno spazio marginale.

Il costruttore di paura te le innalza come sopra un palcoscenico, illuminato con bagliore accecante, che impedisce di vedere il resto della tua vita.

Difficile non piegarsi ai voleri dei fabbricanti di paura. Non puoi smontarli in modo semplice, tacciandoli di falsità, perché le cose da loro raccontare sono effettivamente vere.

La loro mossa di marketing fondamentale sta infatti in tutto “il resto” che non ti dicono, nel “molto positivo” che nascondono dietro al “poco negativo” che sbandierano.

Una volta che ti ha preso per paura, il suo fabbricante ti terrà al guinzaglio come un cagnolino, ti farà comprare, fare e pensare tutto ciò che lui vorrà.

C'è modo di parare il colpo, di proteggersi, di non abbandonarsi a “bere da botte” assecondando ogni volere dei gran bottegai della paura?

L’antidoto ci sarebbe e vale anche per molti altri aspetti della vita.

Consiste nell’abbracciare la complessità, leggere, interrogarsi, “andare a lezione” dai saggi del passato e del presente, filosofi, pensatori, poeti, scrittori, artisti, musicisti, scienziati, e studiosi generalmente votati alla causa del conoscere.

E ascoltarli, imparare da loro che la realtà va osservata da più punti di vista possibili.

Contro lo scudo della cultura e della conoscenza, le quattro fregnacce spuntate del fabbricante di paura si piegano come pugnali di cera, lui inizia a balbettare, emette penosi flati inconsulti, perde il controllo degli sfinteri tematici e si imbratta le mutande della sua nullità argomentativa.

È nella natura delle cose che sia così: essendo abituato a parlare alle pance, il venditore di paura non ce la fa quando viene messo a confronto con le menti.

Così alla fine si rivela la sua vera, originaria e genuina essenza: la pancia era da sempre il suo habitat, perché il fabbricante di paura altro non è che un povero stronzo.


giovedì 18 aprile 2019

martedì 16 aprile 2019

Lo scorrere in sé e per sé


Credo che ciascuno di noi ogni giorno, magari anche solo in modo inconscio, si raffiguri in mente un’immagine dello scorrere del tempo.

Lo facciamo per una sorta di autodifesa rispetto alla mancanza di senso, verso cui tutta la questione tenderebbe altrimenti.

Cosa sarà mai, infatti, questo misterioso ottovolante che chiamiamo (o che chiamano) “tempo”, sopra il quale ci siamo ritrovati a viaggiare, lo volessimo oppure no, e a cui ci teniamo aggrappati con tutte le nostre forze, nella sua corsa a tratti impazzita ma pur sempre affascinante?

Ecco, ho dovuto quasi per forza usare un'immagine io per primo (l'ottovolante), perché se non ce lo raffiguriamo con qualche suo “ritratto parallelo”, non sapremmo quasi nemmeno di cosa parliamo, quando parliamo di tempo.

L’uomo si ritrova dentro questa necessità irrinunciabile di assegnare significati alle cose, e il passare del tempo è una delle più sfuggenti e ritrose dal lasciarsi appiccicare sopra etichette di spiegazione.

Anzi, il tempo è quella cosa che contiene tutte le cose, quindi è come fosse “trasparente”, invisibile, è l'anonimato supremo, nella sua universalità avvolgente l’ovunque e “la qualsiasi”.

Sentiamo dunque come un bisogno innato di raffigurarcelo per immagini, perché la sua indefinitezza ci reca ansia e smarrimento.

Mentre, se lo incaselliamo in uno schema di senso, un po' ci rassicuriamo, raccontiamo a noi stessi di stare immersi in un “recipiente” non del tutto assurdo e incomprensibile, e ne traiamo qualche conforto.

Dato che il tempo è così inafferrabile, per prendere le sue misure dobbiamo farci aiutare da “suo cugino”, lo spazio.

Le immagini del tempo che ci raffiguriamo sono formate allora perlopiù di “materiale spaziale”: il tempo lo capiamo, almeno un po', solo se lo ingabbiamo in una cornice fatta di spazi.

Ci sono poi spazi e spazi. A seconda della geometria a cui lo paragoniamo, il tempo assume caratteri diversi.

A vederlo come una linea, non è molto rassicurante. Anzi, il tempo “lineare” crea piuttosto sensazioni di assillo e fretta, ci incalza lungo una progressione da rispettare, e alla fine lo stato d’animo ricavato non è dei più sereni e rilassanti.
Più amichevoli i paragoni con figure geometriche dispiegate su un piano.

Fra tutte, forse una un po' “meno ansiogena”, è quella dei cerchi concentrici, come per un sassolino lanciato in uno stagno. I cerchi trasmettono pur essi il senso di un avanzare, ma la ripetitività della sagoma offre un punto di riferimento saldo, una piccola certezza in cui rifugiarsi.

Ultimamente, mi viene spontaneo pensare al tempo come a un lungo colpo di frusta. Tutti i fatti successi, soprattutto quando mi hanno coinvolto in prima persona, li vedo allora come se cavalcassero le varie ondate della frustata, in equilibrio sul punto più alto di ogni “cima” del susseguirsi “a serpente” del flusso.

Mentre l’attimo presente, in questa immagine, equivale allo schiocco in punta della frusta, e a seconda che si tratti di una giornata più o meno riuscita bene, lo schioccare è secco e vigoroso, oppure fiacco e flebile.

In conclusione, sia come sia, mi sento di darvi un piccolo avviso: state attenti a come scegliete l’immagine del tempo, a farvi da guida nei vari momenti.

Potrebbe dipenderne tutto il vostro umore della giornata.

lunedì 15 aprile 2019

Il nobile mistero del non dire


Ci sono certe frasi che sembrano affermare un concetto molto chiaro, ma se analizzate con più attenzione, si rivelano molto insidiose e dubbie.

Uno degli esempi più clamorosi, è quando si sente qualcuno sostenere: io dico sempre quel che penso.
È il vero e proprio inno alla mancanza di dubbi assoluta, e invece nasconde non poche magagne esso stesso.

Di solito, di fronte a un proclama così altisonante, si sgranano tanto di occhi in ammirazione, quasi a convenire insieme al dichiarante: minchia, che grand’uomo che sei!

Ma non è tutta onestà quello che luccica.
Prima osservazione: chi mi garantisce che fra il tuo pensiero e le tue parole ci una corrispondenza perfetta?

D'accordo, me lo garantisci tu, ma se ti rinnovo il mio dubbio, “salendo di un gradino”, e ti ridomando: e chi mi garantisce del tuo garantirmi?

Va bene, me lo garantisci ancora tu, e così via, di gradino in gradino più alto, si può continuare a rinnovare il sospetto circa l’effettivo fondamento della necessaria garanzia, che alla fine non potrà mai essere definitiva.

Già qui dunque la faccenda traballa, e non poco. Perché, se oltre a farmi credere di essere quel gran modello di specchiata verità, nella sostanza poi mi racconti anche cose diverse dal tuo pensiero, la presa in giro è raddoppiata.

Ci sono poi altri aspetti della questione.

Uno, immediato, è che, a mio avviso, se davvero tutti dicessero sempre quanto effettivamente pensano, l'umanità (per ovvi motivi) si estinguerebbe a coltellate dopo 24 ore (escludendo pure le pause pranzo e cena).

Ma il punto cruciale di tutto il ragionamento è che nessuno potrà mai dire interamente, fino in fondo, quello che pensa o sente nel proprio intimo, perché sarà sempre troppo complesso, variegato, ricco di tante sfumature, difficilmente traducibili con piena fedeltà in parole o sotto forma di qualsiasi altro mezzo espressivo.

Fidatevi, ci hanno provato grandissimi poeti, pittori, scrittori, artisti di tutte le epoche, e ci sono riusciti solo in parte, a fatica, sempre con gran tormento e imperfezione.

Volete che ci riesca allora il primo fesso che passa, dicendovi: io dico sempre quello che penso?


domenica 14 aprile 2019

Il sapore degli anni


La nostra mente ha più familiarità con le “qualità concrete”, mentre in generale fatica a trattare con le “quantità astratte”.

I numeri sono “quantità astratte” per eccellenza.
Si sa di persone in grado di eseguire complicate operazioni matematiche a memoria, che per ottenere simili risultati, associano idealmente alle varie cifre certe caratteristiche qualitative, come colori e forme, in modo da poterle trattare come degli oggetti “quasi visibili” con lo “sguardo della mente”.

Nel mio piccolo, ho sempre fatto qualcosa del genere con il numero degli anni.

Quando ripenso a un certo anno, magari il 1989, o il 1996, mi si raffigura in mente una sorta di personaggio, con le sue forme, i suoi colori, le sensazioni, i suoni, bene o male legati a ricordi di fatti successi in quel periodo, a me personalmente, o anche in generale in Italia e nel mondo.

Questa impressione si è andata però un po' affievolendo nel tempo.

Da bambino, davvero il passaggio da ciascun 31 dicembre al primo gennaio, lo percepivo proprio come un cambio di costume dello scorrere dei giorni.

E la cifra del nuovo anno, a pronunciarla o a pensarla nelle prime settimane dopo il suo arrivo, la immaginavo come la protagonista di una nuova storia, che andava acquistando pian piano la sua fisionomia, di man in mano che le cose succedevano.

Si sa, diventando grandi si vanno perdendo certe capacità di meravigliarsi possedute nell'infanzia, e i numeri degli anni sono diventati via via meno saporiti.

Per trovare un'intensità simile a quella della vecchia carica emotiva, sono stati necessari allora i cambi di decennio.

Per ottenere uno stupore creato prima con cadenza di dozzine di mesi alla volta, ne servivano ora 120 (di mesi).

Ma le generazioni che hanno avuto modo di attraversare quest’epoca, si sono ritrovate a varcare una soglia numerica particolare.

Per cui, alla fine del 1999, ciascuno nel mondo ha ricevuto una gran scarica di innovazione immaginifica numerica, col cambio simultaneo, nel giro di un attimo, non solo dell’anno, del decennio o del secolo, ma addirittura del millennio.

Adesso, non so più bene cosa diavolo volevo dire con tutto questo (effetto di oziose riflessioni nate in un’uggiosa domenica d’aprile).

Ma so che pensare il tempo, immaginarselo con un suo sapore, con colori suoi, sagome, sfumature di luce e di intensità, può essere un aiuto ad orientarsi meglio lungo il suo scorrere.

sabato 13 aprile 2019

Fuori i secondi


Secondo i manifestanti:
“...Rarissimo esemplare di aquilotto imperiale del Ciribibìhbistàn, abbarbicato a uno sperone di roccia a strapiombo sul canyon del Piumiño, nel folto della foresta pluviale di Pitaciònia, intento a far garrire sotto le vigorose sferzate del vento montano le imponenti ali, dispiegate in segno di altisonante manifestazione amorosa rivolta alle settecentotrentadue femmine del suo harem… “

Secondo la questura:
“…Pasaròt śügatlóŋ, inspinculà atàch a la scòrsa dàl s’riśóŋ, ch’al sbarbàtla i’àli ind’l’aria e’l fà al pajàs, ind’la spéransa da cumbinà quèl con ‘na pasaréla töta spatüsénta ch’al l’ha gnànca in nota…” […Passerotto giocherellone, appeso (inspincolato) alla corteccia (scorza) del ciliegione, che fa sguazzare (sbarbatlare) le ali nell'aria e fa il pagliaccio, nella speranza di combinare qualcosa con una passerottina tutta scarmigliata (spatüsénta) che non lo ha neanche in nota…”.

mercoledì 10 aprile 2019

La musica del mondo


Nel gran compostaggio cerebrale televisivo generalizzato, ci sono ancora alcuni gloriosi canali tv che si affannano nel ricordare agli spettatori come le idee e i neuroni non siano per forza da sbattere ogni sera nel bidone dell’umido esistenziale, insieme alle bucce di patate, alle bustine “ciucciate” di tè e a laute manciate di rispetto per sé.

Vedevo uno di questi documentari naturalistici su quella gloriosa rete tv chiamata “Rai Scuola”, quando ho sentito raccontare una cosa che mi ha “catarifratto” di bellezza.

In Sudafrica esiste un arbusto dotato di una spettacolare particolarità.

Purtroppo non mi ricordo come di chiama, perché ormai alla tele, quando si sente dire qualcosa di intelligente, la propria energia emotiva viene tutta dominata dalla meraviglia, e non resta più nessuna forza residua per la memoria.

Ad ogni modo, questa pianticella si distende per sua consuetudine naturalistica in ampie radure, a formare belle chiazze molto colorate e rigogliose di “afro-brughiera”.

Nel suo fiore, il polline non si trova normalmente esposto all’aria, come succede praticamente per tutte le altre specie vegetali.

Con uno stratagemma evoluzionistico affinato nel tempo, viene invece incapsulato in speciali cilindretti attorcigliati, che lo custodiscono per bene, inaccessibile come in una piccola cassetta di sicurezza.

Questo, lo fa per impedire una dispersione caotica e imprecisa della sua “polverina fecondante”.

Molti insetti infatti vagano a casaccio sui più differenti tipi di pianta e “sprecano” polline, quando non fanno “scopa” tra un certa qualità di fiore e la sua corrispondente, cresciuta magari cento metri più in là.

Viene ora da chiedersi dove stia tutta questa gran furbata evolutiva, se poi la piantina il polline se lo tiene tutto per sé, come impacchettato nel cellophane.

Ed è qui che arriva il bello della storia.
In parallelo, esiste anche una simpatica ape grassottella, che si è evoluta in una sua abilità, di pari passo con il fiore geloso custode.

Questa ape, quando si trova al cospetto della tanto desiderata corolla floreale, è capace di modulare la frequenza del battito delle ali, in modo da emettere un ronzio di una particolare tonalità.

Questa vibrazione esclusiva funziona come una parola d’ordine per il fiore ritroso che, nel “sentirla”, lascia esplodere i suoi “salsicciotti” di polline, liberando una nuvoletta polverosa, nella quale poi la golosastra dell’ape si avvoltola, inzaccherandosi tutta la pelurietta e le zampine.

La magia è così fatta: la pianta in questo modo si assicura un cliente fedele per i propri fiori, e la garanzia che, preferendo sempre fornirsi da individui della sua specie, quella “cicciarda” di un’apetta porterà sempre a conclusione un lavoro di impollinazione ben fatto.

L’uomo, con non poca presunzione, si crede spesso l’essere più intelligente in circolazione.
Invece, l’osservazione di fenomeni sbalorditivi come questo dell’ape dal ronzio a codice, fa riflettere molto.

Viene da pensare come “il succedere delle cose” sia esso stesso una generale forma di intelligenza diffusa.

La realtà può essere vista allora come un’immensa musica in cui siamo immersi.

I suoi suoni ci appaiono spesso misteriosi, ma nondimeno compongono armonie grandiose, con le quali dovremmo cercare di entrare sempre più in armonia e in concorde risonanza, se vogliamo evitare di emettere tremende stonature, il cui prezzo siamo sempre noi per primi a pagare.

lunedì 1 aprile 2019

Lega le ore


Ogni primavera, nella notte dell'ultimo sabato di marzo, “un’ora” ci viene fatta evaporare fra le dita.

Tra le due e le tre, si forma un piccolo vuoto nel tempo, che crediamo di oltrepassare in un attimo, ma in realtà ci costa un invisibile scarto di incalcolabile “non essere”.

Quell'ora svanita via, moltiplicata per i milioni di uomini, donne, marmocchi, a cui è stato impedito di viverla, si trasforma in giornate intere, mesi e anni di tempo messo in forse.

Dove se ne va a finire tutto questo mucchio di ore “legalmente” sottratte ai legittimi proprietari?
Se non esistesse più nessun uomo al mondo a percepirlo, il tempo come noi lo intendiamo, continuerebbe a esistere? Probabilmente no, ci ha messo in guardia Kant.

Per analoga motivazione esistenziale, è sempre il tempo desiderato quello che rimane più caro nel cuore. Molto più di quello effettivamente vissuto. Su questo ci mise in guardia d’altra parte Leopardi.

In virtù di queste due umanissime motivazioni, tutto il malloppo di ore personali messe in sospeso con lo scatto d’orario estivo, rimane a veleggiare a mezz'aria, in una dimensione non meglio precisata, molto simile a una sorta di vasto “stato d’animo collettivo” mancato, a cui tutti possono guardare con una strana forma di malinconia affacciata su “tutto ciò che poteva essere ma non è stato”.

In quel gran marsupio di ore non spese, ci sono momenti di amore non fatto, sogni non proiettati, sonni non ronfati, parole nel dormiveglia mai pronunciate, libri non letti, riflessioni non pensate, odori notturni non annusati, fotogrammi di film non guardati, suoni non ascoltati, strade non guidate, appuntamenti mancati.

Quando poi quell’ora, a noi dovuta per naturale diritto marzolino dello scorrere del tempo, in ottobre ci verrà restituita, la ritroveremo ormai slavata e mezza biascicata, consunta dal gran lavorio che ci avranno fatto sopra per mesi le mascelle desideranti di mezza popolazione mondiale.

La logica delle cose avrebbe voluto che la potessimo trascorrere almeno in giugno, quell’ora messa in parentesi, o in buona compagnia sotto una serenata di stelle agostane fra lieti stridii di grilli e frulli di falene.

Invece ci sarà resa tutta scolorita dal gran sciacquio di voglie estive andate a vuoto.

Cosicché alla fine, ben che vada “ce la godremo” in novembre, quando non c'è nessuno in giro e tirando la coperta dal freddo ai piedi, il massimo che si ottiene è di scoperchiare il culo.