sabato 26 febbraio 2011

Piet Mondrian, ma ce sei o ce fai? (seconda puntata)


E’ giunto così anche il momento di riprendere il discorso su Piet Mondrian, lasciato in sospeso qualche giorno fa per non gravare eccessivamente sugli sferici attributi del lettore. La scorsa volta avevo cercato di raccontare tutto ciò che l’opera di Mondrian m’ispirava, come se mi fossi trovato per la prima volta ad osservare i suoi quadri, senza averne mai sentito parlare prima.

Questa scelta è stata suggerita da una questione che a mio giudizio diventa fondamentale tutte le volte in cui ci avviciniamo all’arte moderna. Succede più o meno sempre così: da una parte ci sta l’opera da osservare, considerare, analizzare, gustare, ecc.
Dall’altra ci sta l’osservatore, il “considerante”, l’analizzatore, il degustatore, lo spettatore, il visitatore del museo, ecc.
Nel mezzo si frappone il critico.

Le questioni innescate a questo punto sono diverse. La più brutale, quella che le riassume un po’ tutte, potrebbe essere posta in questi termini: se supponiamo essere l’opera d’arte uno strumento espressivo autonomo, perfettamente in grado di “parlare” mantenendosi nell’ambito delle prerogative concesse dal proprio peculiare “linguaggio” (linee e colori in pittura; plasticità e spazialità in scultura; e così via…), a cosa serve l’intervento del critico, dell’esegeta?
Questo intervento che viene per spiegare, chiosare, approfondire, “tradurre”, non segna in qualche modo anche la sconfitta del linguaggio artistico, non ne sottolinea la sua incapacità di esprimersi per suo conto?

La risposta che riesco a darvi io a questi interrogativi è la seguente: non lo so. Tuttavia credo sia in ogni caso importante farsi queste domande. Le riflessioni che ognuno ne può ricavare rimangono molto stimolanti ed utili nel nostro cammino di comprensione dei significati dell’arte in genere, e di quella moderna in particolare.

Ma torniamo a Mondrian.
Per capire Mondrian occorre sapere che appena prima di lui c’era stato il “Cubismo”. Su questo movimento artistico bisognerebbe aprire un discorso altrettanto lungo di quello che sto facendo per Mondrian stesso. Per non cadere nel gorgo di una serie infinita di scatole cinesi argomentative, dirò solo quanto risulta strettamente utile alla presente trattazione.

Il Cubismo introduce la rivoluzione del “punto di vista plurimo”. Picasso & Co. si sono resi conto che per cercare di capire la realtà attraverso il filtro artistico, non è più possibile raccontarla come se fosse considerata da un punto di osservazione unificato, “mono-posizionato”, privilegiato, quasi riservato ad un’entità superiore. Così era stato per secoli. Il Cubismo fa invece deflagrare le possibilità di osservazione, affermando che ne esistono infinite.

"Les demoiselles d'avignon", Pablo Picasso - 1907

E, si badi bene, il discorso non è limitato al puro meccanismo visivo, che, anzi, è solo il portatore delle conseguenze più immediate ma meno profonde di questa sorta di “rivoluzione estetica”. Ciò che viene introdotto è una prospettiva totalmente nuova di considerare la realtà nella sua interezza, calandosi in innumerevoli “sistemi di riferimento” esistenziali.

Porto un esempio banale, ma che forse può aiutare a capire meglio. Immaginate di essere di fronte ad una persona che vi sta a cuore, un amico, un familiare, l’amore della vostra vita, o simili. State insieme un po’, chiacchierate e lo osservate.
Trascorso il tempo di questa piacevole compagnia, vi viene fatta una richiesta tipo: «…raccontami a parole come rappresenteresti con un’immagine pittorica il rapporto con quel tuo amico, un’immagine che sia in grado di mettere in rilievo non solo il suo carattere e la sua personalità, ma anche tutte le sensazioni che hai provato in questi minuti trascorsi con lui, e non solo, mettici dentro anche tanti ricordi di momenti simili vissuti insieme, ogni sfumatura di idea che ti sei fatta sul suo essere nel mondo…».

A questo punto, converrete con me che un ritratto eseguito nella maniera tradizionale del “punto di vista unico” inizierebbe ad andarvi un po’ stretto (con tutto il rispetto dovuto agli immensi maestri del passato che hanno saputo raccontare meraviglie, pur attenendosi a quella regola rimasta, a causa dei tempi ancora “culturalmente acerbi”, non scardinabile per migliaia di anni).

Questo ha fatto il Cubismo: ha introdotto una deflagrazione dei punti di vista sulla realtà, avvertendoci che essa è troppo sfaccettata, complessa, variegata, per essere abbracciata da un unico sguardo “centralizzato”.

"Ritratto di Ambroise Vollard", Pablo Picasso - 1909-10

Come s’innesta Mondrian in questo discorso? (e finalmente arrivo al punto…).
Mondrian assorbe senz’altro la lezione cubista, ma a suo modo di vedere essa contiene ancora troppe “scorie”. Il Cubismo per Mondrian rimane inutilmente vincolato al momento percettivo. La percezione delle cose è ancora una fase troppo soggettiva, troppo dispersiva, troppo legata alle sensazioni estemporanee, troppo frammentabile in mille rivoli interpretativi.

Mondrian è convinto che nell’interiorità umana esista un “livello di grado superiore”, capace di andare oltre la dispersività percettiva. Con l’impeccabile puntualità concettuale che gli è solita, dice a questo proposito Giulio Carlo Argan: «…Mondrian pensa che nulla si conosce senza la percezione, ma che l’essenza delle cose non si conosce nella percezione, bensì con una riflessione sulla percezione distaccata dalla percezione: una riflessione in cui la mente opera da sola, con i soli mezzi di cui la fornisce la sua costituzione…».


Ecco, cari amici viandanti per pensieri, detto questo potrei anche chiudere qui, perché il senso di Mondrian sta tutto in queste 48 parole (almeno, word mi dice che sono 48…). Ma siccome mi rimane qualche cartuccia da sparare, spero non vi dispiaccia se mi dilungo ancora un po’.

A parte che non so se avete goduto “a riccio” come me (sempre intellettualmente parlando, ovvio…), nel leggere le 48 parole di Argan, e a pensare che un uomo in grado di concepire un programma simile è esistito veramente, rimane il fatto che alcune cosette da aggiungere effettivamente ci sarebbero.

Insieme a Kant, Mondrian sa infatti che la “costituzione” della mente è uguale per tutti gli umani pensanti e senzienti. I risultati della percezione potranno essere diversificati pressoché all’infinito, o perlomeno nella medesima misura di quanti sono gli esseri umani che percepiscono il mondo, ma la “base costitutiva” di questo incessante lavorio sensoriale, l’«hardware mentale» in dotazione a ciascun umano, è un modello unico per tutti.

A questo punto del ragionamento, Mondrian si domanda: quali sono quegli elementi espressivi in grado di rappresentare un’«interfaccia di sintesi», il più possibile “disinquinata” dall’accidentalità percettiva, ma al tempo stesso non così eterei da lasciarsi sfuggire la presa sui significati effettivi della nostra “costituzione mentale”?

La domanda è molto ardua, ma la risposta, paradossalmente, è quasi banale (pur sottolineando mille volte il “quasi”). Quegli elementi espressivi sono: le linee nere ortogonali, i tre colori fondamentali (rosso, blu, giallo) e la luce, concretizzata dal bianco.
Mondrian depura al massimo la percezione da tutti i suoi caratteri empirici ed accessori, elevandola alla più alta “dignità sintetica” del “fenomeno mentale”.



Mi affido ancora alle sapienti mani di Argan: «…Per fare una pittura che abbia il rigore e la dignità della scienza, Mondrian si propone di trasformare la superficie (empirica) in piano (entità matematica). Suddividendo le superfici mediante le coordinate verticali e orizzontali, risolve in una “proporzione metrica” tutto ciò che, in natura, si dà come altezza e larghezza.
Rimane ciò che si dà nella terza dimensione: e sono le infinite sensazioni variabili secondo il colore locale, la distanza, la luce. E’ questa materia complessa che deve essere ridotta ai “minimi termini”…[…]…A che servono le linee nere? Senza quelle cesure i colori confinerebbero tra loro, si influenzerebbero l’uno con l’altro: tra i valori, per Mondrian, non debbono esserci rapporti di forza, ma metrici, proporzionali. Non sono i sensi, è la mente che deve valutarli...».

E se questo non vi basta, concludo con un altro illuminante passo tratto da «L’arte del ventesimo secolo», di Denys Riout (altro mio fondamentale testo di riferimento per queste sbrodolate artistiche…): «…Ciascuno degli elementi di questo insieme spartano viene scelto innanzitutto per abolire l’arbitrario e disporsi così, senza mediazioni, più vicino all’universale…[…]…Egli cercava un equilibrio dinamico, vivo e antinaturalista al tempo stesso…[…]…[La poetica di Mondrian] fondata sulla “espressione dei rapporti mediante la linea e il colore”, […] appaga le attese dell’esteta, il quale può riconoscervi la “espressione della bellezza della vita umana – immodificabile, ma pur sempre commovente – svincolata dalle banali soddisfazioni e dagli inconvenienti passeggeri”, senza per questo aderire ai presupposti esoterici dell’artista…».

In questo quadro culturale, non stupisce dunque nemmeno il fatto che Mondrian preconizzasse una sorta di “fine dell’arte” intesa nel senso “classico”, fortemente caratterizzato dalle attribuzioni “barocche” e “romantiche” che un po’ tutte le epoche le hanno appiccicato addosso, per sfociare in una società matura nell’ambito della quale la distinzione fra vita ed arte sarebbe divenuta superflua.

Detto ciò, rimane sempre in vigore per ciascuno la sacrosanta libertà di pensare che in fin dei conti si tratti soltanto di quattro linee nere messe in croce, con qualche rettangolino colorato. Io, per quanto mi riguarda, posso solo dire che è una goduria culturale immane.

Poi per il resto, fate un po’ voi.

giovedì 24 febbraio 2011

Gillipixel e il carro armato


«…pure un quarto d’ora prima…»

Alberto Sordi
"Finchè c'è guerra c’è speranza- 1974

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Son tempi duri questi, per un viandante per pensieri.
Ho iniziato a scrivere questo blog ormai quasi tre anni fa, senza una precisa idea di dove si sarebbe andati a parare. L'ho fatto un po' così, iannaccescamente, per vedere tutti insieme l'effetto che fa.

Col tempo mi sono accorto che seguire le "tracce del disimpegno" mi si confaceva di più. Non parlo ovviamente di vacuità o di tematiche insulse. Le cose che scrivo, le scrivo perché ritengo che a loro modo siano importanti. Ma sono sempre un po' eteree, marginali, incidono poco sulla realtà delle questioni concrete. Credo che, alla fin fine, la "poetica" del mio blog (sempre che la parola non suoni troppo altisonante...) consista nel parlare di bellezza. Non una quisquilia e nemmeno un'ovvietà, dunque, ma una componente fondamentale ed indispensabile del vivere.

Tuttavia, mi rendo conto che molte volte una simile scelta possa venir fraintesa, possa essere equivocata e scambiata per superficialità o disinteresse per le "questioni veramente serie".

Ho già cercato di spiegare tutti questi aspetti del mio scrivere in diverse occasioni, ma la questione mi si fa periodicamente più urgente in cuore quando ricorrono quelle circostanze in cui il "mondo dei viventi" bussa insistentemente alle porte del mio ovattato ed appartato "mondo estetico", con tutto il proprio carico di spietata concretezza quotidiana.

Non poteva fare eccezione l'attuale momento, che per drammaticità e complessità degli eventi non è secondo a parecchi altri gravi frangenti storici coi quali mi è toccato di con-vivere, sin dai tempi in cui, ancora bimbetto, sentivo alla tele le terribili notizie dal Vietnam o dalla Cambogia, e così via crescendo.

La Libia in fiamme, il nord Africa che esplode, la nostra situazione interna caotica e farraginosa, e mille e mille altri casini più o meno intricati e disseminati per tutto il pianeta.

Non è che non le veda queste cose. Per il fatto che preferisco parlare di Mondrian o di wombati, non è che non m'interessi anche e soprattutto di attualità, della cruda realtà che mi circonda.
E ovviamente ho tante idee in merito, riguardo a ciascuno dei tanti temi proposti a spron battuto dalla quotidianità globale. Ma sono idee la maggior parte delle volte confuse ed imprecise, poco più che impressioni e spesso magari anche contraddittorie fra di loro e poco lineari.

E' soprattutto per questo che preferisco rimanere fra i meandri di una visione "estetica". Addentrandomi in argomenti "seri", non potrei portare visioni né particolarmente originali dei problemi, né utili per capire meglio le cose.

Rimuginando un po’ fra simili crucci, mi si sono fatte largo fra le pieghe dei ricordi un paio di “suggestioni culturali” incontrate tempo fa.

La prima suggestione di cui parlo è annidata in un fantastico racconto di Ernest Hemingway che mi sono andato a rileggere proprio oggi, ritrovandolo ancora di una bellezza sconfinata.
S’intitola «La farfalla e il carro armato». Non posso raccontare la trama, perché vi rovinerei il piacere di un’eventuale lettura (che mi sento di consigliarvi vivamente…). Dico solo che «La farfalla e il carro armato» in qualche modo concerne proprio tale confronto incessante fra levità del pensare e pesantezza del vivere, che sempre si ripropone alla nostra coscienza, con mille rovelli interiori ed altrettanti dubbi abissali. «La farfalla e il carro armato» parla dunque in qualche modo anche dello spirito di «Andarperpensieri».

L’altra “nebulosa estetica” che mi piace ricordare qui oggi presenta forse un “pedigree culturale” meno puro, ma mi è altrettanto cara. E’ uno spezzone di un film di Alberto Sordi, «Finché c’è guerra c’è speranza».

Ora, non so bene spiegarvi come mai questo brano di film mi sia tornato alla mente proprio in questi giorni. Di sicuro, la molla mnemonica e l’associazione d’idee sono state fatte scattare dai tumultuosi e convulsi fatti nordafricani dell’ultimo mese circa. In qualche modo questi eventi rappresentano un “redde rationem” dagli infiniti risvolti storici, sociali, di politica internazionale, umanitari, ecc.

Ed un amaro “redde rationem” è rappresentato anche in queste immagini del grande Albertone. Nel film interpreta il ruolo di un mercante d’armi, che al ritorno da un suo viaggio d’affari in Africa, un bel giorno, ritrova la famiglia in “assetto di guerra”. Quello che succede poi lo potrete appurare agevolando l’avvio del filmato che vi riporto di seguito…





domenica 20 febbraio 2011

Piet Mondrian, ma ce sei o ce fai? (prima puntata)


“...Prima o poi qualcuno
doveva trovare la forza
morale per dirlo:
Elisabetta Canalis è brutta!!!...”

Gillipixel - 2011

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Ci sono certi esponenti del movimento artistico moderno di fronte ai quali viene quasi inevitabile domandarsi se siano dei geni supremi oppure dei sopraffini paraculi che l’hanno indovinata giusta per intortare milioni di persone con le loro opere (e scusate per il “sopraffini”…).

Oggi, per “s”parlare ancora una volta d’arte, mi andava di esordire così, con un po’ di sana brutalità ultra-qualunquistica, perché alla fine è inutile girarci troppo intorno: anche questo è un aspetto fondamentale da tenere in considerazione quando si affronta il tema artistico, e in particolare quando ci si addentra nei meandri creativi della modernità.

Mi riferisco in altre parole all’impressione spesso derivata dall’osservazione di un’opera d’arte moderna, dinnanzi alla quale ci sentiamo spesso come trascinati dentro un “meccanismo espressivo” incapace di parlarci con proprie forze autonome, bensì sempre bisognoso di un supporto critico che si sobbarchi l’onere di “tradurcelo” in termini a noi più accessibili e comprensibili.

Per dirla ancor più terra terra, mi riferisco a quella sensazione diffusa a partire dalla quale l'arte moderna suona spesso e volentieri come una bella presa per il culo, via.

Questa premessa mi sembrava pressoché doverosa, perché l’artista che mi va di affrontare questa volta è forse uno dei più intensi “suscitatori” delle suddette perplessità: Piet Mondrian (Amersfoort, Olanda, 7 marzo 1872 – New York, 1 febbraio 1944).
Mondrian, sì, proprio quello tutto righe nere e quadratini colorati.


Proprio in virtù di quanto detto finora, prima di addentrarmi nel racconto di tutto ciò che di “libresco” posso dirvi su Mondrian, vorrei fare alcune considerazioni, quasi come se non avessi mai letto nulla riguardo a questo artista.

Mi pongo innanzitutto la domanda più banale: cosa mi può ispirare un’opera di Mondrian? Se dovessi dirlo così di primo acchito, direi che mi trasmette un senso di ordine e di conseguenza anche di riflessività, di calma.
Mi sembra una sensazione che si possa dedurre abbastanza obiettivamente dalle modalità piane e lineari con cui Mondrian predispone le proprie composizioni pittoriche, e per quanto mi riguarda, partiamo già col piede giusto: essere invitati ad una meditazione ordinata ed equilibrata non è una faccenda da dare così tanto per scontato, sia nel mondo dell’arte, ma anche in generale.

Appurato dunque che in Mondrian, anche da un punto di vista per così dire “profano”, ci può essere qualcosa di buono da indagare, proviamo ad appianare un secondo motivo di possibile diffidenza.

Le opere per le quali Mondrian è diventato celebre sono in pratica tutte “quasi uguali”. Sono una continua variazione sul tema dettato da alcuni semplici elementi figurativi: linee nere, rigorosamente orizzontali e verticali, che individuano un numero di volta in volta diverso di piccoli rettangoli o quadrati, a loro volta immancabilmente campiti con soli quattro colori, i tre primari, (rosso, giallo, blu), più il bianco. Una sbirciatina ai libri adesso la possiamo dare e così scopriamo che Mondrian è andato avanti con questa “tiritera” per ben una ventina d’anni, dal 1920 al 1940.

Come dicevo, a questo punto, in una mente avvezza a considerare di preferenza le cose secondo il “senso comune”, potrebbe anche nascere un “leggerissimo” sospetto, simile a quello che colse Fantozzi quando scoprì gli armadi, le credenze, i comodini ed il mobilio tutto di casa, pieno zeppo di pane, “sagacemente” occultato da una Pina invaghita dell'abatantuoneggiante garzone del fornaio.

Detto in parole povere, è un attimo lasciarsi cogliere dalla malignità ed ipotizzare che Mondrian fosse completamente sbiellato, in preda ad una fissazione monomaniaca bella e buona. Invece niente di tutto ciò, anzi, è vero proprio il contrario.

A pensarci bene, questo è un fenomeno che ha coinvolto diversi artisti e anche molto importanti: Monet con le sue ninfee, Morandi con i suoi boccettini, Pollock con le sue “drippingate”, in certa misura anche Van Gogh con i suoi girasoli, Andy Warhol coi suoi ritratti plurimi a varianti cromatiche...e questi sono solo i pochi che ricordo io.
Ad un certo momento della loro ricerca artistica, si sono concentrati su di un soggetto (o su di una modalità espressiva), dedicandosi ad esso quasi ossessivamente, e lo hanno sviscerato in una serie di varianti ostinatamente calamitate dal “canovaccio” tematico primario.

Tornando a far parlare l'uomo della strada, mi domando ancora insieme a lui: è questo forse un comportamento più consono ad un folle o ad una persona assennata? Personalmente, attenendomi alla miglior tradizione dei fedeli di “Quélo”, opterei per la seconda che ho detto.

Questa ricerca di un “uguale nelle diversità” non è forse il senso di tanti comportamenti umani? Il tentativo di depurare le nostre conoscenze da tutto ciò che è accidentale, marginale, trascurabile, per ricavarne una “quintessenza sapienziale” stabile (e scusate se calco un po' il piede sull'acceleratore intellettualoide...), non è forse uno degli aneliti più profondi ed intensi che abbiamo sentito crescere nel nostro animo praticamente fin da quando abbiamo cominciato a ragionare un minimo sulle cose della vita?

E tutto questo, non tanto per raccontarci fra quattro amici al bar quanto siamo bravi a fare i filosofi della domenica, ma piuttosto per la necessità esistenziale di contrastare l'angoscia suscitata in noi dalla consapevolezza del divenire insito in tutte le cose che concernono la nostra esperienza umana, che a volerlo chiamare proprio col suo brutto nome, ce lo possiamo anche dire chiaramente: la prospettiva della morte.

Fissare una regola essenziale, immutabile, un punto fisso del nostro sapere, un'ancora di salvezza e di saggezza che ci sottragga all'angoscia del nostro essere entità finite: è questa la propensione più nobile ed elevata che possa albergare nell'animo dell'uomo.

Il caos, la mancanza di punti di riferimento, l'infinita mutevolezza del tutto, sono fonte di disperazione e di disorientamento per l'uomo, mentre l'ordine e dei precisi criteri d'interpretazione ci rassicurano, incorniciando le nostre vite in un quadro di significati che funziona come un sistema di coordinate esistenziali.

Insomma, anche l'opera di Mondrian, pur non parlando specificatamente di tutto ciò, si inserisce immancabilmente in questo discorso. Altro che maniaci o sbiellati, allora, questi artisti che si sono votati con ogni loro energia a sviscerare tutti i risvolti possibili di un medesimo tema: la cosa che in realtà essi ricercano con tale fervore e per la quale hanno speso i migliori anni delle proprie vite, è una bazzecola altrimenti nota anche col nome di “universale”.

Come potete dunque vedere, cari amici viandanti per pensieri, anche a parlare di un artista pur senza aver ancora aperto un libro che ne tratti, un paio di vaccate niente male si riesce già a tirarle fuori.

Ma siccome mi sono già dilungato troppo e non voglio abusare oltre della vostra pazienza, mi riservo di proseguire il mio racconto dedicato a Mondrian in una seconda puntata che, prometto, sarà un po' più specifica e attinente al tema.



giovedì 17 febbraio 2011

Sogni di lamiera


Cari amici viandanti per pensieri, anche oggi non ho proprio niente da dirvi.

E grazie al Caucaso, ribatterete voi...

No, ecco, lo so, se non si ha nulla da dire, si dovrebbe tacere, ma passavo solo per farvi un saluto veloce, in attesa del ritorno di qualche pensiero degno di questo nome nel mio cranio momentaneamente tabula rasato.
Il timore reverenziale per la pagina bianca, l'horror vacui narrativo, s'impossessano anche dei migliori, figuriamoci di me...

Sto leggendo però alcuni libri che mi stanno regalando buone soddisfazioni. Innanzitutto, vi confesso che il mio ennesimo tentativo con "L'uomo senza qualità" di Musil è anch'esso fallito miseramente. Niente da fare, per ora rimane sempre troppo ostico, ma non dispero di riuscire un giorno o l'altro.

In compenso, come dicevo, sto portando avanti in parallelo tre tometti niente male.

Il primo è quel classicone di "Don Chisciotte", una delle pietre miliari che hanno tracciato la via alla nascita del romanzo moderno. "Don Chisciotte" mi fa ridere di dentro, e questo è un suo grande pregio. Ha inaugurato un nuovo modo ironico di considerare la vita: se oggi sappiamo ridere della vita in una certa misura amara e surreale, lo dobbiamo un po' anche a Cervantes (oltre che a kafka).

Altro libro di questo mio periodo muto, è "Life", la biografia di Keith Richards, scritta da lui medesimo. Anche questo è proprio un buon libro.
Le vite dei rocker sono sempre affascinanti da leggere. Lessi già naturalmente quella di Jim Morrison e poi quella di Lou Reed. Le rock star sono esseri mitologici ed enigmatici che continuano a manifestarsi in questa nostra epoca che pretenderebbe di aver agguantato livelli assoluti di razionalità e spiegazione piana dell'esistere.
Non ne ho letto tanto, finora, ma Keith Richards si sta rivelando un personaggio positivo. Può sembrare strano a dirsi, se calcolate che questo tizio, tanto per dire, si è fatto di ogni droga immaginabile e non si è certo distinto per uno stile di vita da portare come modello ai proprio nipotini.
Ma con i rocker, tutto ciò non importa. Vivono una vita di esagerazioni anche per noi, esplorano dimensioni della vita sempre al limite, si lanciano in incursioni talvolta anche drammatiche nei regni più oscuri dell'umano sentire, per ritornare a raccontarci cosa succede dall'altra parte. Non saranno dunque assoggettabili senza stridori al giudizio usato ordinariamente nell'ambito della morale comune, ma c'è un tratto fortemente "morale" che accomuna tutti i rocker: attraversando le proprie vite esageratamente sopra le righe, loro fanno una cosa in cui credono intensamente e vanno sempre fino in fondo.
E Keith Richards non viene naturalmente meno a questa regola.

L'altro libro della mia triade di letture del momento è ancora una biografia, quella del magmatico filosofo Friedrich Nietzsche. E' scritta da un altro cavallo pazzo, Massimo Fini.
Anche in questo caso, sto scoprendo una personalità che poco mi sarei aspettato. Voglio dire, di Nietszche avevo un'idea di personaggio vulcanico, di una testa calda, di un ribelle idomito. Invece no: a quanto pare, più che il suo beneamato superomismo, si può dire che a Nietzsche si addicesse un ben più blando "posa-pianismo". E' proprio così infatti che lo definisce di preferenza Fini: un posapiano.
Un libro che si legge volentieri pure questo, insomma, anche per un'altra sorpresa, fra le altre cose, che vi si rinviene nello scoprire lo sgangherato e trombonesco stile di vita di un altro momunento della cultura teutonica, Richard Wagner.

Sì, va beh, mi direte voi a questo punto, ma con tutte queste letture, e chi ci va a lavorare? E chi le disbriga tutte le altre incombenze della vita quotidiana?
Presto detto: quelle non toccano mica a Gillipixel. Quelle le lascio tutte a "quell'altro", ossia alla parte di me deputata all'ordinaria amministrazione esistenziale.

Insomma, cari amici viandanti per pensieri, se voi avete un po' di pazienza, io intanto aspetto.
Aspetto di avere nuove idee per scrivere ancora qualcosa di buono. D'altra parte, non mi stupisco nemmeno tanto di questa mia arsura concettuale, perchè c'è poca voglia di sognare in giro, si percepisce nell'aria.
Non c'è da stupirsi, d'altra parte, se ad esempio pensiamo che si sentono anche infelici slogan di pubblicità automobilistiche scimmiottare Shakespeare, pretendendo di spacciare prodotti fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni.

Uno ha un bel da leggere Don Chisciotte, Keith Richards, Nietzsche...ma poi non è una gran consolazione pensare di essere arrivati al punto di accontentarci di un sogno di lamiera.


domenica 13 febbraio 2011

Pianeta Sgrmdndt chiama Terra!


Talvolta mi sorprendo immerso in pratiche di auto-estraneazione estetica. E’ un attimo ritrovarmici dentro, che quasi non mi sono accorto come. Osservo me stesso, le parti del mio corpo, dal punto di vista che, per dire, potrebbe essere quello di un abitante del pianeta Sgrmdndt.

E già dire punto di “vista”, per gli esseri più evoluti su quel pianeta, è un’imprecisione grossolana, perché non posseggono occhi, mani, braccia, piedi, gambe, accessori fra le gambe, bocca, naso, ecc. D’altronde non respirano nemmeno, ma assorbono radiazioni, delle quali l’instabile tessuto molecolare atmosferico di Sgrmdndt è saturo e che rappresentano il loro ossigeno (se non s’era capito, le sto sparando a caso, ma il senso della cosa quasi lo richiede…).

Certo, anche gli sgrmdndtiani hanno un corpo, se così si può definire. È composto da due cubi di un metallo sconosciuto sulla Terra, esattamente congruenti e sovrapposti, tenuti insieme da un filo sottile posto esattamente al centro delle due facce di dado che si fronteggiano. I nativi di Sgrmdndt deambulano senza toccare il suolo, slittando su di un cuscinetto di differenziale magnetico da essi stessi provocato (invento sempre alla grande…).

Le comunicazioni fra loro non avvengono con emissione di suoni, ma attraverso uno scambio di gas prodotti all’occorrenza.
Il linguaggio degli sgrmdndtiani è costituito da alcuni gas fondamentali, che funzionano come le lettere di un alfabeto, combinando le quali loro ottengono tutte le innumerevoli parole necessarie per capirsi a vicenda. Tutte le connotazioni attribuite sulla Terra alla mimica facciale e all’espressività del corpo, su Sgrmdndt sono affidate alla temperatura dei due “cubi corporali” di ciascun sgrmdndtiano.

Non pensiate, in considerazione di tutto questo, che gli sgrmdndtiani siano un popolo privo di sensibilità e di sapienza emotiva. Al contrario: anche fra di loro si annoverano sublimi poeti e scrittori, soltanto che là sono meglio conosciuti come gasisti; anche su Sgrmdndt esistono ballerini ed attori, e sono individui apprezzati per la loro suprema sensibilità nel saper trattare e combinare le temperature corporee (per la cronaca, il corpo di uno sgrmdndtiano medio può passare da 101 gradi sotto zero a 1759 sopra lo zero).

Non sono suddivisi in maschi e femmine, bensì in 5 diversi generi sessuali (sempre che questa specificazione possa avere un senso nel loro modo di concepire le cose e se stessi…). L’accoppiamento fra di loro sarebbe più corretto definirlo accinquamento: per dare vita ad un nuovo cucciolo di sgrmdndtiano è infatti necessaria l’unione di cinque individui di ognuno dei cinque sessi. Gli sgrmdndtiani amano ritrovarsi in posti che potremmo remotamente paragonare ai nostri bar o discoteche: lì si possono vedere cinquine di “persone” che cambiano di continuo temperatura in armonia fra di loro, emettono variegate gamme di gas e brindano assorbendo cocktail a base di vapori di piombo fuso (temperatura di ebollizione 1749°), del quale vanno ghiotti.

Se volete poi sapere anche qualche aspetto piccante, vi svelo pure che l’accinquamento fisico vero e proprio fra gli sgrmdndtiani tecnicamente avviene per contatto diretto di due facce di cubo di ciascuno di loro: l’individuo di uno specifico dei cinque sessi si mette in mezzo, mentre gli altri quattro tutti intorno fanno aderire due facce di cubo a ciascuna delle otto presentate dal “mezzano”.
In quelle occasioni è tutto un tripudio di gas e di sbalzi di temperature, un florilegio molecolare in piena regola…

Insomma, sono grandi facce di cubo, questi sgrmdndtiani, e si potrebbe andare avanti per ore, attribuendo immaginifiche vaccate di questo genere a potenziali altre forme di civiltà, remotissime rispetto a noi quanto a costituzione fisica ed esistenziale. Ma dove starebbe il vantaggio di tutto ciò? Esso risiede in una sorta di “ginnastica della tolleranza” derivabile da un simile strambo esercizio della fantasia.

Mi osservo attraverso gli occhi (che per altro, non ha neppure…) di uno sgrmdndtiano, e il mio “orgoglio umano” vola molto più basso. La bellezza che riconosciamo risiedere in una mano, in un volto, in una movenza particolare, appare molto meno assoluta. Ci siamo “messi d’accordo” che una mano è elegante, che un volto è attraente, che una movenza è sinuosa e sensuale. Fra di noi uomini e donne ci diciamo che siamo belli, intelligenti, affascinanti: ma cosa penserebbe in merito uno sgrmdndtiano?

Vedrebbe esseri capaci di emettere soltanto due tipologie fondamentali di gas, per di più considerati zozzoni e maleducati nel caso in cui osino farlo in pubblico nella meno popolare delle due modalità. Vedrebbe individui primitivi, ridotti a poter spaziare in una gamma ridottissima di temperature. Vedrebbe esseri così scarsi di fantasia da limitarsi all’accoppiamento (certo, l’umanità possiede pur sempre il concetto di “orgia”, ma non è niente rispetto ad un’ammucchiata su Sgrmdndt, che funziona solo per multipli di cinque, per cui laggiù è un attimo ritrovarsi aggrovigliati in un centinaio di sgrmdndtiani…).

A rigore, io stesso, nel raccontarvi le caratteristiche degli sgrmdndtiani, per coerenza non dovevo usare frasi e parole, bensì profondermi in copiose emissioni di gas, ma poi come l’avremmo messa in fatto di bon ton narrativo?
Per lo sgrmdndtiano, una mano sarebbe solo una sorta di grinfia molliccia, ridondante rispetto alle sue capacità di afferrare le cose per magnetismo. Un volto umano sarebbe un muto manifesto in grado di assumere qualche sfumatura in più soltanto in caso di una gravissima febbre a 40.

Per farla breve, cosa mi sta a rappresentare, in sostanza, tutto questo sgangherato apologo? A leggerlo in superficie, è tutto una immensa vaccata, non vi do torto.

Ma a saper intravedere fra le righe si potranno cogliere la magia e l’utilità del farsi di tanto in tanto un giretto al di fuori della propria “routine percettiva”. E non parlo solo di un’operazione puramente esteriore.
Mi riferisco piuttosto alla capacità di tenere sempre vivi dentro di noi nuovi orizzonti di bellezza alternativa, di mantenere costante la consapevolezza dell’esistenza di ciò che è abissalmente altro da noi. Questo per altro vale non solo ad un livello di considerazione materiale, ma è importante soprattutto sul piano concettuale e spirituale.
Il nostro punto di vista affacciato sul mondo è una frazione infinitesimale di tutte le miriadi di inquadrature immaginabili. Il nostro limitato sguardo particolare è un dettaglio, circoscritto ad un piccolo spazio e ad un piccolo tempo.

Persino dentro al nostro animo sono presenti cose che non siamo preparati a guardare, tanto sono distanti da ciò che riteniamo normale per la nostra considerazione: sono le nostre paure, i nostri fantasmi, le nostre debolezze e fragilità. In questo senso, allenarsi ad immaginare il totalmente altro da noi, a concedere ad esso la dignità di esistere, è un esercizio di “ecologia psicologica”.

Per concludere, riprendendo per un attimo un tema di qualche articoletto fa, ossia il senso del fare filosofia, mi sento di dire che, non saranno proprio la stessa cosa, ma filosofare e immaginare un viaggio mentale fra gli sgrmdndtiani sono due operazioni di avventura concettuale molto affini.
In entrambi i casi, si tratta sempre di non aver timore ad inoltrarsi sino agli estremi confini della libertà del pensabile.



giovedì 10 febbraio 2011

Indagine su un campagnolo al di sopra di ogni sospetto


Sono giorni travagliati e di amaro in bocca, questi per me. Vivo in una sorta di spiacevole giallo. Da qualche parte ci deve essere un colpevole e il suo delitto sta nell’avermi reso odioso il mondo.
Ma non solo. Il reo babbeo si è pure premurato di agevolare un’aggravante al proprio crimine. Anche la gente ha tramutato per me in fastidiosa presenza.

Non tollero l’umanità, mi risulta sgradevole ritrovarmela intorno. Spero che questo pernicioso stato d’animo evapori quanto prima, perché mi trasporta continuamente di spiacevolezza in spiacevolezza. Non si sta per nulla bene, in questo modo. Passi la malsopportazione per il genere maschile, che non è atteggiamento particolarmente inedito nel mio animo, ma l’aspetto più grave si sta rivelando la mancanza di refrigerio spirituale derivante dalle femminee presenze.

La vicinanza di una donna è sempre stata per me motivo di gratificazione estetica di grado superiore. Il solo sguardo posato sulle forme ingentilite delle altre metà del cielo, mi ha sempre arrecato sollievo e senso di serenità diffusa. Adesso no. Le donne mi paiono tutt’al più portatrici neutre di tette e chiome fluenti.

Sento di essere stato rapinato di un bene prezioso. Sono divenuto il ramo tagliato che ostenta con autolesionistica boria la propria potatura dall’albero della cui linfa ha tuttavia ancora estremo bisogno.
Anche la mia prosa ha risentito di tutto questo, ve ne sarete accorti da quanto s’è fatta oltremodo legnosa ed ingessata.

Dove ti nascondi, bieco autore di un simile scempio? Ti scoverò, scellerato responsabile di questa sciabolata che ha fatto calare il sipario fino a poco tempo fa aperto sulla scena del mondo.
Ti stanerò, ma dove posso rintracciarti?

Mi crucciavo in simili rimescolii interiori, quando casualmente mi sovvenne un nobile passaggio letterario incontrato tempo addietro. Sesta giornata del Decamerone, ottava novella: protagonisti il fiorentino Fresco e la schizzinosa nipote Cesca:

«…Ora, lasciando stare molti altri suoi modi spiacevoli e rincrescevoli, avvenne un giorno che, essendosi ella in casa tornata là dove Fresco era, e tutta piena di smancerie postaglisi presso a sedere, altro non faceva che soffiare; laonde Fresco domandando le disse:

- Cesca, che vuol dir questo che, essendo oggi festa, tu te ne sé così tosto tornata in casa?

Al quale ella tutta cascante di vezzi rispose:

- Egli è il vero che io me ne sono venuta tosto, per ciò che io non credo che mai in questa terra fossero e uomini e femine tanto spiacevoli e rincrescevoli quanto sono oggi, e non ne passa per via uno che non mi spiaccia come la mala ventura; e io non credo che sia al mondo femina a cui più sia noioso il vedere gli spiacevoli che è a me, e per non vedergli così tosto me ne son venuta.

Alla qual Fresco, a cui li modi fecciosi della nepote dispiacevan fieramente, disse:

- Figliuola, se così ti dispiaccion gli spiacevoli, come tu dì, se tu vuoi viver lieta, non ti specchiare giammai…».

E’ stato a quel punto che son corso allo specchio e mi ci sono messo dritto davanti. La risposta stava proprio là dentro, inquadrata alla perfezione nel centro della superficie riflettente: il colpevole ero io!



mercoledì 9 febbraio 2011

La fiaccola sotto il “minèn”


"...And being alone
is the best way to be.
When I'm by myself it's
the best way to be.
When I'm all alone it's
the best way to be.
When I'm by myself
nobody else can say goodbye..."

Edie Brickell - 1988

*******

Io ci provo ad auto-persuadermi di essere un nativo italico. Poi però succede sempre qualche piccolo episodio che mi rammenta la mia vera condizione di indigeno Gillipixilandese.

Potrebbe sembrare questione di “snobismo al contrario”, di malsana rivincita dell’orgoglio campagnolistico nei confronti dell’ostile omologazione urbana, di iper-campanilismo patologico. Ma credetemi che non è nulla di tutto ciò. Il fenomeno si concreta su oggettive basi linguistiche e la lingua, si sa, non mente mai.

In un certo senso, la lingua è il più diretto “tratto d’unione” con la realtà di cui possiamo disporre. Le parole attraverso le quali raccontiamo le cose agli altri e a noi stessi, quando sono dette o pensate con cuore limpido ed occhio asciutto, assumono la valenza delle cose medesime chiamate in causa.

Non so se capita anche a voi, ma la sensazione che io provo soffermandomi talvolta ad assaporare le sillabe mentre si formano sotto il palato quando parlo le parole, oppure nel pensiero, quando le idee si condensano nei suoni del muto pronunciamento interiore, è quella di possedere direttamente in bocca la cosa nominata, oppure di avviluppare fra le volute cerebrali il significato concreto del termine pensato, senza passaggi intermedi fra me e la realtà esterna.

Certo, anche la presa sensoriale sulle cose è altrettanto potente. Toccare, vedere, annusare, gustare. Son tutte azioni che ci consentono una comunicazione molto forte con l’«essere» che sta fuori e dentro di noi.
Ma a mio parere, attraverso nessun altra prerogativa umana sappiamo possedere il mondo nella misura così intensa che ci è concesso di fare con la parola.
Sembrerà un’affermazione impropria, ma io credo che i sensi permettano comunicazione col mondo, mentre solo con le parole può avvenire una effettiva comunione con esso.

Va praticamente da sé che un “dispositivo esistenziale” così pregnante può attivarsi nella sua forma più genuina solamente attraverso la lingua che sentiamo come la più familiare, ovvero per il tramite del linguaggio maggiormente in grado di convogliare la nostra spontaneità più istintiva e diretta.

Mi riferisco, ad esempio, alla lingua che viene naturale usare per prima quando capita di sbottare in un’esclamazione quasi automatica o in espressioni scaturite da eventi improvvisi e inattesi (per riprendere un tema di alcuni articoli fa, mi viene in mente ad esempio una bella maledizione scagliata, guidando, alla volta di un altro automobilista particolarmente scorretto; oppure un colorito apprezzamento, umanamente non arginabile, che fuoriesce alla vista di un bellezza femminile particolarmente vistosa e prorompente…).

Per me questa lingua, che tra l’altro finisce anche per costituire una sorta di estroflessione della personalità più intima e sincera, è proprio il dialetto di Gillipixiland (…e con questo mi riaggancio finalmente a quanto dicevo in apertura).

Per cercare di precisare un po’ meglio il concetto con una piccola metafora, posso anche aggiungere che se il mio “Io” pensa i pensieri in italiano, il mio “Es” sente invece il mondo in dialetto.

Sono convinto di questo fatto ormai da un po’ di tempo, ma ultimamente sono incappato in un piccolo accadimento linguistico che me lo ha indirettamente confermato.

Alcuni giorni fa mi sono imbattuto nella parola “moggio”. Pur avendola sentita chissà quante volte, non mi ero mai domandato cosa significasse di preciso, forse per un’anomalia d’utilizzo che la caratterizza. Si tratta infatti di una parola arcaica quasi caduta in disuso, e tuttavia ricorrente con una certa frequenza in due sedi “letterarie” di tutto valore. In un caso, mi riferisco al Vangelo di Matteo («…Voi siete la luce del mondo; una città posta sopra un monte non può rimaner nascosta; e non si accende una lampada per metterla sotto il moggio; anzi la si mette sul candeliere ed ella fa lume a tutti quelli che sono in casa…»); nell’altro invece, parlo del titolo di una tragedia di Gabriele D’Annunzio, «La fiaccola sotto il moggio», per l’appunto.

Chissà come mai, dicevo, pur avendo sentito svariate volte la parola in questi due contesti, non mi sono mai posto il problema del significato, accontentandomi di qualche vago riferimento ad un qualche oggetto genericamente campagnolo.

Ed eccoci al punto del mio aneddoto: essendo venuto a sapere con precisione il senso del termine solo pochi giorni fa, nell’attimo in cui è accaduta la “rivelazione”, senza pensarci su troppo, mi è venuto spontaneo esclamare: «…Aaah….al minén!!!…» (semi-trad.: «…Aaah….il minén!!!…»). Non so se si è capito bene, ma in pratica quel che è successo è stato che mi son reso conto di conoscere già l’oggetto indicato con la parola “moggio”, solamente che a me constava soltanto nella corrispettiva forma dialettale gillipixilandese, “minén” appunto.

Il moggio è in pratica un secchio, solitamente di legno (perché utilizzato ormai decenni fa), che funzionava da misura per i cereali. Riempiendolo sino all’orlo di frumento o di granturco, e “rasando” l’eccedenza con una barra spianatrice, in modo da ottenere un livello precisamente orizzontale di chicchi e perfettamente a filo con il bordo, si era sicuri di avervi introdotto un peso esatto di cereale. In questo modo, se nel moggio pieno ci stavano ad esempio 10 chili giusti di frumento, se ne cacciavano 5 in un sacco e si otteneva così la quantità già pre-pesata di 50 kg.

A testimonianza del mio essere medievale dentro, dovete sapere che il moggio l’ho utilizzato ai tempi della mia adolescenza. All’epoca, si stendevano al sole su un’antica aia in cemento, gentilmente concessa in prestito da un contadino locale, i pochi quintali di granturco ottenuti da un piccolo appezzamento di terreno, per un’essiccazione fatta in casa e in economia. La misura finale del peso, al momento dell’insaccatura definitiva, veniva fatta appunto tramite un moggio, che a me però era stato detto chiamarsi “minén” (parola che nel mio dialetto s’interseca gentilmente anche con un altro significato più giocoso e leggiadro: “minén” in gillipixilandese vuol dire infatti anche “gattino”).

E’ molto curioso, dunque: per anni ho sentito parlare di “moggio”, senza sapere cosa fosse, e tuttavia avevo usato il “minén” forse altrettante volte. In pratica, possedevo nella mia mente una parola (“moggio”) priva del corrispettivo oggetto significato nel concreto, mentre usavo quell’oggetto stesso catalogato con la parola (“minén”) che per me da allora lo classifica più con più immediatezza fra le cose reali.


domenica 6 febbraio 2011

Ma vaffanDrugo


Come passare dall’esaltazione, alla disillusione ed infine ad un lieve fastidio, nel breve lasso di tempo concesso dalla lettura di un articolo di giornale.

Ma prima, una doverosa premessa. Se siete persone dall’indole “rallentata”, se il vostro ideale sono i tempi lunghi, se detestate l’affanno nel fare le cose, se tendete più dalla parte della pigrizia che non da quella dell’efficentismo…se nel vostro carattere c’è di tutte queste cose un po’, e non avete ancora visto «Il grande Lebowsky» dei fratelli Cohen, provvedete subito a riparare la mancanza.

Il film racconta le strampalate vicende di un pittoresco sfaccendato di Los Angeles, Jeffrey Lebowsky, detto “Dude” (“Drugo” nella traduzione italiana; interpretato da Jeff Bridges), e dei suoi due altrettanto sgangherati amici (Steve Buscemi e John Goodman), tre personaggi maldestramente calati ai margini dell’opulenta e contraddittoria società americana, mettendone in rilievo tutte le stonate magagne semplicemente vivendo la propria esistenza di candidi perdenti (o meglio: “sereni sconfitti”), nella cornice di una storia condita da parecchie venature di sana perfidia e di ponderato surrealismo.

D’accordo, la mia sintesi fa schifo e per avere un’idea più precisa non vi resta che vedervi il film, molto divertente e a suo modo anche poetico, ma era tanto per inquadrare in qualche modo l’argomento.

Sì, perché l’articolo al quale facevo riferimento in apertura tratta indirettamente proprio del film «Il grande Lebowsky». Era sul “Corriere della Sera” di giovedì 3 febbraio 2011, a pagina 28.
Vi dicevo che dapprima la cosa mi ha esaltato. Nell’articolo si parla infatti di una sorta di nuova religione, o per meglio dire, di un movimento di pensiero fondato negli Stati Uniti proprio a partire dalle “regole di vita” adottate nel film dal Drugo in persona. Il “profeta” del “Dudeism” (questo il nome della nuova “fede”) si chiama Oliver Benjamin, che ha fissato il fulcro del suo movimento nel sito internet ad esso dedicato.

«…Sorridi e non fare niente…» è il comandamento fondamentale di questo nuovo “credo”, che stando all’articolo vanta fra i suoi illustri precursori storici, grandi pensatori del passato come Lao Tze ed Eraclito (anche se per il filosofo greco, non ho capito bene in che senso), passando attraverso la possente poetica di Walt Whitman, per giungere alla moderna saggezza del bracchetto fumettistico più amato di tutti i tempi, Snoopy, laddove il “peanutsiano” cagnetto fissa il proprio programma esistenziale in questa sentenza: «…la mia vita non ha scopo, è senza direzione, senza senso, eppure io sono felice…».

Tutte queste parti dell’articolo le ho trovate divertenti e per certi versi anche appassionanti. Fino a quando non ho letto un passo in cui si parlava anche di periodiche convention degli “adepti”, durante le quali «…gli emuli del nullafacente californiano trascorrono qualche giorno in pantaloni corti a scacchi, camicia hawaiana, notti bianche del bowling, bevute di White Russian, quiz e concorsi a premi…».

E questo sì che mi ha fatto parecchia tristezza.
Sempre per chi non ha visto il film, bisogna sapere che i pantaloni bermuda, la camicia hawaiana, il bowling e il cocktail White Russian, sono i tratti distintivi del personaggio di Dude, il Drugo. Sono l’essenza esteriore del suo “fannullonismo”.
Ma capite bene che nel momento in cui queste abitudini e vezzi personali del personaggio, vengono confezionati in un “pacchetto caratteriale” precotto e predefinito, pronto all’uso ed al consumo massivo, tutto il fascino della faccenda viene a sgonfiarsi miseramente.

Come accade sempre nei film dei fratelli Cohen, dietro il velo di un’ironia spesso spietata, si cela la volontà di sostenere una visione del mondo che esalta l’indipendenza del pensiero, la capacità di filtrare le cose che ci accadono attraverso lo spirito critico più libero e “svincolato” di cui siamo capaci. Nel grande Lebowsky non era dunque contenuto un invito a vestirsi tutti come il Drugo e a fare tutto ciò che fa lui.

E’ stato qui insomma che tutta la faccenda del Dudeismo mi si è smontata di botto. Per di più che a me piace un sacco il Negroni (un terzo di Gin, un terzo di vermouth rosso, un terzo di Campari), mentre il White Russian (5 decimi di vodka, 2 decimi di crema di latte o panna liquida, 3 decimi di liquore al caffè) non mi esalta per niente. E per dirne un’altra, nella migliore delle ipotesi, il bowling mi lascia indifferente.

Per fortuna che a mitigare il senso di delusione, ci ha pensato una visita al sito italiano del “Dudeismo”.
La homepage ospita tanti commenti di visitatori del sito. Fra questi, anche quello di un certo Paolo, che giustamente chiede chiarimenti riguardo a come si ponga, in questo quadro idilliaco di sfaccendatismo poeticizzante, la questione della sopravvivenza, del portare a casa la pagnotta.
La risposta del curatore del sito mi è piaciuta parecchio:

«…Tocca lavorare Paolo. Alla fine tutti dobbiamo dar da mangiare alla scimmia. Tieni conto che il Dudeismo non prevede come un dogma di essere disoccupati; il Dude sicuramente in qualche modo si guadagnava da vivere, forse facendo il roadie per i Metallica e forse no comunque le conchiglie, o le ossa in qualche modo se le guadagnava. Probabilmente senza sudare troppo. Essere Dudeisti significa prendere la vita con calma quindi dovendo scegliere tra lavorare 15 ore al giorno e lo stretto necessario di solito un dudeista sceglie la seconda, ma per esempio se per te è ok lavorare 15 ore al giorno riuscendo a prendere la vita con calma lo stesso va bene comunque. Noi siamo tranquilli praticamente riguardo a qualsiasi cosa…».

Se è così, allora il Dudeismo torna a piacermi. Se è così, son disposto pure a sopportare che abbia un nome, il Dudeismo appunto, ma soltanto per ricordarci che stiamo parlando di quella roba lì. Per il resto però, non mi venga a spacciare regole o modelli preconfezionati, altrimenti viene a cadere tutto lo spirito della baracca.

La pigrizia e la vita rallentata sono dunque una prospettiva allettante, ma se si pretende di trasformarle a loro volta in “dikat” imprescindibili (e magari già preconfezionati in quanto a modalità e forme…), diventano semplicemente e sciaguratamente nuove dimensioni alle quali assoggettarci per nuove schiavitù materiali e spirituali.
E sono sicuro che anche il Drugo avrebbe storto il naso, riguardo a tutto ciò. Sempre sorseggiando il suo White Russian, s’intende.

All’uopo, rimane dunque sempre un’ottima mossa rispolverare la perenne saggezza di Sant’Agostino (che a sua volta citava San Paolo - Seconda Lettera ai Corinzi - 3,6) quando, riferendosi alla fondamentale differenza fra un’interpretazione letterale ed una “critica” delle cose, affermava: «…La lettera uccide, lo spirito vivifica…».



sabato 5 febbraio 2011

W l’arte Filo-so-Fica


Quand’ero uno sbarbatelo di primo pelo, con più ormoni “brufoliferi” in corpo che capelli sulla testa (bilancio, tra l’altro, da non addebitare alla penuria di capelli), avvenne uno degli incontri fondamentali della mia vita.

«…E che sarà mai?...» si domanderà, più scoglionato che attonito, l’avventizio lettore insieme all’assiduo, «…ti innamorasti forse perdutamente?...Conoscesti la donna della tua vita, la tua Beatrice, la tua Laura, la tua Aldonza Lorenzo equivocata in Dulcinea del Toboso?...».

Macché!!! Sto parlando di filosofia.
Se non avessi incontrato la filosofia, lungo il contorto cammino del mio formarmi una conoscenza, sarei stato un’altra persona.
Migliore? Peggiore? Boh! Nessuno lo può dire: sicuramente diverso.
Forse mi sarei fatto un sacco di problemi mentali in meno, e qualcuno le potrà chiamare anche paranoie, o addirittura atti di onanismo incorporeo. Fatto sta che è andata così, e dell’esistenza della filosofia in qualche modo sono venuto al corrente.

Intendiamoci: non mi voglio spacciare per filosofo, ma nemmeno per esperto di filosofia. Diciamo che sono solo un simpatizzante, un osservatore amatoriale della materia.
Ciò che invece mi preme sottolineare, del rapporto fra me e la filosofia, è come essa abbia cambiato il mio modo di vedere il mondo e di considerare me stesso in relazione ad una ipotizzata “verità”.

Durante tutto l’iter filosofico scolastico, di man in mano che andavo conoscendo nuovi pensatori, non ho mai abbracciato per intero la visione di nessuno di loro. Per fortuna, una delle prime cose che compresi, fu che non avrei mai potuto fare così.
Già sarebbe stato poco sensato per un super esperto, ma da parte di un dilettante, avrebbe persino comportato risvolti comici. Quasi mi ci vedo, all’osteria, a predicare il ritorno a Talete e al suo principio unico dell’acqua, ammonendo con somma severità tre ubriaconi simbioticamente attaccati al loro fedele bianchino.

Solamente chi arriva a possedere veramente la materia filosofica fino a poterla manovrare con maestria, sviscerandola nei suoi minimi dettagli e muovendosi all’interno delle sue argomentazioni con precisione e competenza, potrà pretendere di dar vita ad una propria visione originale, dialogando coi maestri del passato per trarne insegnamenti attuali.

Niente di tutto questo, ovviamente, è scaturito dal mio incontro con la filosofia. Molto più modestamente, ma in misura non meno significativa per quel che riguarda la mia piccola dimensione esistenziale, la filosofia mi ha trasmesso una nuova forma mentale. Grazie alla filosofia ho imparato che vale sempre la pena guardare sotto la superficie delle cose.

In tutti i fenomeni della vita, c’è sempre uno strato banale che s’impone a prima vista. In questo senso, una definizione della materia, seppur “minoritaria” e incompleta, potrebbe dunque suonare nel seguente modo: la filosofia consiste in quell’atteggiamento conoscitivo che non si accontenta mai della superficie delle cose.

Theodor Adorno sosteneva che fra gli ingredienti culturali fondamentali della filosofia, andasse annoverato pure un certo fastidio da nutrirsi nei confronti del “senso comune”. Questo non significa che la visione filosofica del mondo debba per forza indirizzarsi verso la bizzarria e la stravaganza a tutti i costi. La disistima per il “senso comune” nasce invece nel momento in cui questo pretenda di porsi come sola ed esclusiva visione delle cose.
L’atteggiamento filosofico invece non teme di avventurarsi nell’«impensato». Chi non è pronto a mettere in conto una certa dimestichezza anche con la dimensione di un potenziale «assurdo», non potrà mai muovere nemmeno un passo oltre la soglia della “casa della filosofia”. La filosofia è predisposizione a pensare “tutto ciò che si può pensare”, a non scartare nessuna possibilità, a tener buono ogni dubbio, a sospettare sempre della validità di ogni pensiero, ad ipotizzare che ce ne possa essere sempre uno migliore e più raffinato.
Senza questo patto iniziale stipulato con se stessi, non ci può essere ingresso nella dimensione filosofica.

Dalla filosofia s’impara anche a considerare la “verità” come un cammino di ricerca perpetuo, che dura tutta la vita.

Ecco perché in generale, mi trovo meglio con persone che posseggono questa chiave di lettura del proprio pensiero, da poter proiettare poi sulla loro visione del mondo.

Non ne faccio tuttavia una questione snobistica, né tanto meno di “razzismo intellettuale”. Questo atteggiamento “filosofico” non è infatti di competenza esclusiva di chi la filosofia l’ha incontrata sui libri. Mi è capitato di conoscere persone mai andate oltre la quinta elementare, che posseggono in modo mirabile questo dono, pur nelle forme ridimensionate della propria semplice cultura. Mentre ho altresì incontrato tanti individui che hanno avuto occasione di attraversare la corrente degli studi liceali, emergendo tuttavia completamente asciutti, senza aver assorbito la minima goccia di atteggiamento mentale filosofico.

Forse io ero già portato naturalmente ad assumere questa veste mentale. Forse l’avrei indossata anche senza conoscere la filosofia sui libri. O forse ancora, il mio incontro con la filosofia sui libri “doveva” in ogni caso avvenire, “era stabilito” che avvenisse.

In tutti i modi, sono contento di come l’atteggiamento filosofico di guardare alle cose della vita si è calato dentro me con tutte le sue potenzialità di meraviglia e stupore.



martedì 1 febbraio 2011

Lurido luddismo ludico (e poco lucido...)


Si vede che non avevo proprio una rifulgente mazza da fare, perché mi son messo a domandarmi cose non propriamente classificabili fra le questioni cruciali ai fini della sopravvivenza quotidiana.

Ad esempio, pensavo: le attitudini, le “disposizioni interne”, i sentimenti, ce li ritroviamo di preferenza a serpeggiare in seno anche senza averli evocati o auspicati in modo particolare? Ci zompano in corpo anche senza esserci calati in una certa “propensione d’animo” che ne agevoli l’insorgere più o meno spontaneo, oppure la razionalità, la logica e una certa dimensione di controllo, una sorta di “governo dell’anima”, possono anch’essi recitare la propria parte nel grande circo dell’emotività umana?

E siccome evidentemente continuavo a non trovare faccende più importanti da combinare, mi son sorpreso a seguitare nel mio delirante vaniloquio interiore, convenendo con me stesso che forse alla fine poco o nulla è cambiato dai tempi del buon Omero, da quando i suoi eroi erano mossi interiormente dalle loro proprie pulsioni, dall’epoca in cui la “responsabilità personale” e i significati delle scelte umane erano concetti così labili che si preferiva chiamarli di volta in volta col nome di uno degli innumerevoli dèi a disposizione.

La palla passava ad Apollo, se magari si sentiva l’impellenza di costruire una casetta con tutti i crismi estetici al loro giusto posto, oppure di cimentarsi con un distico elegiaco, o con una lettera da vergare all'indirizzo della fidanzata.
Il tema era invece condotto da Atena, se l’intenzione era quella di svicolare la gabella sul transito dei muli, passando per la porta d'accesso alla polis.
Oppure, per non subire uno smacco, era tutta colpa di Bacco, se si veniva colti da una gran sete con proterva secchezza delle fauci annessa, e conseguente malcelato desiderio smodato di andarle a placare copiosamente alla “Taverna dei ludi ginnici” (ellenico esercizio antesignano del moderno “Bar sport”).
E ancora, era l'era di Eros, se ad esempio s'incappava nell’eventualità di occasionali allupamenti cagionati per via, dalla visione di leggiadre “scosciature” agevolate da donzelle abbigliate con mini-peplo inguinale (molto di moda ai tempi della “swinging Atene” periclea).

D’altra parte, non son mica cose che m’invento io:

«...In Omero gli dèi promuovono ogni mutamento...[...] Due azioni si svolgono parallele: l'una nel mondo superiore degli dèi, l'altra sulla terra, e tutto ciò che succede quaggiù avviene per determinazione degli dèi.
L'azione umana non ha alcun inizio effettivo ed indipendente; quello che viene stabilito e compiuto è decisione e opera degli dèi. E, poiché l'azione umana non ha in sé il suo principio, essa non ha nemmeno una fine propria.
Soltanto gli dèi agiscono in modo da raggiungere quello che si sono proposti; e se anche il dio non può portare a compimento ogni cosa, e se a Zeus, per esempio, non è concesso di salvare dalla morte il figlio Sarpédone, o se Afrodite viene addirittura ferita in battaglia, ad essi rimane pur sempre risparmiato il dolore degli uomini, destinati a morire. Questa superiore vita degli dèi conferisce un senso proprio all'esistenza terrena... ».

La cultura greca – le origini del pensiero europeo
Bruno Snell - 1963

Certo, qualche dettaglio deve essere cambiato da allora.
Oggi sarebbe probabilmente un po' dura giustificare una succosa evasione fiscale addossando ogni addebito alle astuzie della buona e cara Pallade (per gli amici, sempre Atena...), anziché al ribaldo commercialista, sagace complice di taroccamenti contabili. Risulterebbe altresì alquanto fantasioso alleggerire tutto il fardello di un'edificazione balorda e sbilenca dalle strette spalle di un architetto pacchiano o di un ingegnere svalvolato, per farla pesare tutta su quelle di Apollo, magari solo perché una sera, contravvenendo al proprio usuale equilibrio, si era concesso un'uscita bevereccia proprio con suo cugino Bacco.

Tuttavia, sono ormai quasi convinto di avere appurato che sussista ancora una dimensione dell'umano agire e sentire, nell'ambito della quale si palesa con somma evidenza il persistere di una qualche azione numinosa a tutt'oggi operante fra di noi.
Sto parlando del mondo dell'automobile, e per diretta conseguenza, “de la ispecie de li automobilisti”, residenti naturali del Pianeta Motore.

Da dove questa impressione derivi, è presto detto.
Molto semplicemente, sono io che ho la sensazione di vivere in prima persona questo fenomeno di “attraversamento numinoso del sé”, io stesso, quando sono alla guida di un’auto, che mi sento tramutare in un’umana striscia pedonale, calpestata avanti e indietro da una volontà agita in altra sede superiore.

Dico questo perché, normalmente, non credo di andare molto lontano dal vero, definendomi un tipo di persona mite e pacata. Eppure, dovete sapere che questo modo di classificarmi viene a cadere clamorosamente nei frangenti autocircolatori. Poche situazioni al mondo riescono a farmi sentire veramente preda di un volere esterno, quanto sono in grado di farlo un volante fra le mani e un acceleratore sotto il piede destro.

L’intero fenomeno dell’automobile costringe a moti dell’animo del tutto estranei all’indole più genuina della persona coinvolta. C’è il posato padre di famiglia che si esalta, sbomballa e diventa uno spericolato scavezzacolo, perennemente in equilibrio sul filo dell’infrazione del codice penale; c’è l’indefesso lavoratore, sempre ligio e scrupoloso, che rilancia tutte le proprie frustrazioni sull’asfalto; e così via.
Io invece, da par mio, modestamente tiro accidenti a destra e a manca, maledico l’automobile e gli automobilisti, sfondando la barriera del suono della contraddizione, nel trovarmi io stesso ad impersonare il ruolo di automobilista in quei medesimi momenti.

Insomma: moti d’ira immotivata, attivati in virtù di un autolesionismo che malamente camuffa un effettivo auto-maledizionsimo di fondo, perché cacciando accidenti a destra e a manca all’indirizzo di un’ideale figura di automobilista tipo, come io faccio mentre guido, è anche e soprattutto verso me stesso che invoco quegli auguri al negativo. Se non si può parlare in questo caso di un intervento puro del numinoso e dell’irrazionale, non saprei dire in quale altra circostanza se ne possa parlare…

E se la sconfinata fantasia degli antichi greci prosperasse ancora come ai bei tempi, mi piace immaginare che l’addetto fra gli dèi preposto allo smistamento delle sorti automobilistiche, oggi si sarebbe chiamato Sfinterogeno. Un po’ per assonanza col noto ammennicolo motoristico che sta sotto al cofano, un po’ per commistione terminologica con il relativo forame posto in funzione di sfogo posteriore nel corpo umano, a sua volta antropomorficamente evocante una marmitta biologica.

Dunque, cari amici viandanti per pensieri, la prossima volta che guidando l’auto, vi sentirete presi nel vortice di comportamenti che non riconoscete propriamente vostri e che vi parranno scaturire da una volontà a voi aliena, niente paura: sarà semplicemente il buon vecchio Sfinterogeno ad aver afferrato il volante. Non azzardatevi a contraddirlo e lasciate correre, che tanto lui fa sempre di testa propria, anche considerando il suo vezzo di ragionar di preferenza col tubo di scappamento...