venerdì 25 luglio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Louise Breslau (1856-1926)


Dopo una raffica di pittori, in questa puntata di “Le muse di Kika van per pensieri” torniamo ad occuparci di un'artista donna. Si tratta di un nome che risulterà “per forza di cose” poco noto. Dico così non per un improvviso attacco di maschilismo di ritorno, ma più che altro per sottolineare un dato storico incontrovertibile: il mondo dell'arte (e della cultura in genere), salvo alcune rarissime eccezioni, non ha mai riconosciuto alle donne un deciso ruolo da protagoniste, se non a partire grosso modo dalla seconda metà del '900. Questo è un aspetto sul quale non ci si sofferma mai abbastanza a riflettere.

Il dipinto scelto oggi da Kika s'intitola “Le amiche” (1881) ed è opera della pittrice Louise Breslau (Monaco, 1856 - Neuilly-sur-Seine, 1927), la cui vicenda presenta alcune caratteristiche che inducono a toccare anche la tematica della figura femminile nell'arte. 

La storia di  Louise Breslau mi ha  rievocato in modo curioso lontane sfumature di peripezie da cartone animato giapponese anni '80, del genere di “Heidi” o “Candy Candy”.

Nata in Germania nel 1856, Louise Breslau trascorse l'infanzia in Svizzera, a Zurigo, dove la famiglia si trasferì al seguito del padre medico, chiamato ad insegnare nell'università della città elvetica. Louise soffre di asma, e per questo motivo è costretta a trascorrere in casa molto tempo, che cerca di impiegare dedicandosi alla lettura e al disegno. Nel 1866, rimane orfana del padre, morto a causa di un'infezione contratta mentre stava eseguendo un'autopsia. Seguono per Louise diversi periodi di soggiorno in un convento sul lago di Costanza, dove viene inviata per curare l'asma e dove il suo talento artistico inizia rivelarsi in misura sempre più evidente. Nel frattempo, Louise affianca spesso la madre nell'educazione delle tre sorelle più piccole e soprattutto trova in lei il sostegno più importante per decidersi ad abbracciare in pieno le sue attitudini artistiche.

Nel 1876, per favorire questa aspirazione, si decide di inviare la promettente Louise ad  approfondire gli studi a Parigi, come abbiamo detto più volte, capitale assoluta dell'arte in quel periodo. Pare che per meritarsi il salto di qualità, le venisse chiesto di soggiacere all'impegno non scritto di non ritrarre mai un uomo nudo. L'apprendistato parigino di Louise Breslau ci offre l'occasione di fare un breve cenno ad un'istituzione dell'epoca piuttosto importante proprio per quanto riguarda le poche possibilità allora offerte alle donne di avere a che fare con la cultura e con l'arte.

L'«Académie Julian», fondata nel 1867 dal pittore Rodolphe Julian (1839 - 1907), dove Louise Breslau si recò a studiare, era l'unica scuola d'arte che accettava le donne fra i propri allievi. Per questa e per varie altre sue peculiarità, la scuola si poneva agli antipodi rispetto alla tradizionalista ed ufficiale Accademia di Belle Arti, che consentì l'ingresso alle donne solamente nel 1897. Negli ambienti della «Académie Julian» si respirava un clima di libertà intellettuale improntata ad un deciso fervore progressista, non privo a tratti di sfumature anarchiche. Fra gli allievi più illustri usciti in periodi successivi da questa accademia, si ricordano Marcel Duchamp, Henri Matisse e gli artisti che intorno al 1888-89 diedero vita al gruppo dei Nabis. Alla «Académie Julian», le allieve avevano anche la possibilità di ritrarre modelli maschili nudi, cosa impensabile per qualsiasi altra scuola d'arte dell'epoca. E chissà che la nostra Louise non abbia fatto un pensierino a venir meno al suo originario voto...

Dopo l'esperienza formativa, Louise Breslau andò a convivere in un appartamento parigino con altre donne “emancipate” della sua epoca (fra di loro, la “chanteuse” Maria Fuller), formando una sorta di piccola comune femminile ante litteram. Negli anni a seguire, espose regolarmente in numerose occasioni ufficiali, ottenendo anche notevoli riconoscimenti. L'opera che le diede una certa notorietà fu proprio quella che stiamo considerando oggi, “Le amiche”, del 1881. La sua figura artistica, dopo la morte avvenuta nel 1927, cadde nell'oblio ed è stata in parte riscoperta solo negli anni recenti (nel 2002, il Musée Cantonal des Beaux-Arts di Losanna le ha dedicato una mostra monografica).

La ricerca artistica di Louise Breslau viene per certi versi riferita all'ambito espressivo cosiddetto “simbolista”. Vediamo allora di approfondire un po' i significati di questo ennesimo “ismo” che spesso ricorre, non solo nella storia dell'arte, ma anche in quella della cultura e della creatività in genere (ad esempio, in poesia). Questo più che altro per aggiungere una parola nuova al lessico ideale della nostra rubrichetta, che non in stretto riferimento alla pittrice medesima in questione.

Quando un pittore decide di realizzare un'opera, per attingere il soggetto da ritrarre ha a disposizione non uno, bensì due diversi mondi. Il primo è quello “classicamente” inteso, ossia la realtà fisica delle cose intorno a noi. Il secondo mondo è la propria interiorità. In altre occasioni abbiamo parlato, in riferimento a questi due poli contrapposti, di “realtà” e di “coscienza”. La storia dell'arte può essere vista anche come il lungo cammino di una continua oscillazione variabile fra queste due polarità. L'Impressionismo, corrente artistica “dominante” nel momento storico in cui operò Louise Breslau, rappresentò in un certo senso il tentativo di fare dell'arte lo strumento conoscitivo di sintesi esplorativa lungo il confine che intercorre fra realtà e coscienza. Louise non poteva non essere influenzata dal clima impressionista, avendolo respirato direttamente in tutti i suoi anni parigini, ma, assecondando la propria sensibilità e le propensioni creative personali, di fronte alla polarità di realtà e coscienza, scelse di addentrarsi con maggiore curiosità fra i misteri di quest'ultima.

Il simbolismo guarda alle cose della realtà come se fossero ammantate da un perenne velo illusorio che in vario grado nasconde i significati più veri e genuini delle cose stesse. La realtà ci parla dunque “di altro” in continuazione. Nei dipinti di  Louise Breslau, questo si traduce in atmosfere soffuse, in indeterminatezza dei confini fra le cose, nell'immersione in una sorta di nebbia visiva che avvolge la scena. E si traduce anche nella scelta di soggetti quotidiani all'apparenza privi di particolare “rilievo narrativo”. 
La toilette (1898) - Louise Breslau
La liseuse (1891) - Louise Breslau
La chanson enfantine (1898) - Louise Breslau

Se quanto detto sul “Simbolismo” non dovesse bastare, lascio per un attimo spazio ancora una volta alle illuminanti parole di Giulio Carlo Argan:

«...Benché contrario alla pura visività impressionista, il Simbolismo non si contrappone all'Impressionismo come contenutismo e formalismo, ma tende a trasformare i contenuti così come l'Impressionismo muta il valore delle forme. L'arte non rappresenta, rivela per segni una realtà che è al di qua o al di là della coscienza. Le immagini che salgono dal profondo dell'essere umano s'incontrano con quelle che provengono dall'esterno: il dipinto è come uno schermo diafano attraverso il quale si attua una misteriosa osmosi, si stabilisce una continuità tra il mondo oggettivo e il soggettivo […] a queste forme, non più spiegabili come “analogiche” alle forme naturali, si attribuisce valore di segni di un'esistenza trascendentale o profonda, la cui infinità sfugge all'apprensione dei sensi e alla riflessione dell'intelletto. L'assunto è simile a quello per cui, nella poetica simbolista di Mallarmè, le parole non valgono per il loro significato abituale o lessicale, ma per quello che assumono nel contesto, come generatrici di immagini...».
 
E adesso vediamo a quali risultati sono pervenute le mie indagini di detective fisiognomico, relative al dipinto “Le amiche”. I visi ritratti sono risultati molto suggestivi ed hanno stuzzicato non poco il mio “archivio mnemonico-iconografico” di volti femminili. Le somiglianze trovate sono rimaste perfettibili, come spesso accade, mantenendo un certo grado di inafferrabilità della soddisfazione piena. Ho trovato un volto famoso per ciascuna delle due donne dipinte: un'attrice e una cantante. Il volto dell'attrice me lo ha suggerito la signorina coricata:
La foto è di qualche anno fa e anche per questo non so se tutti l'avranno riconosciuta: si tratta dell'eccellente interprete inglese di cinema e teatro, Vanessa Redgrave.

Per la donzella che accoglie fra le ginocchia il capo dell'amica, la somiglianza che sono riuscito a scovare, seppur un po' vaga, fa riferimento ad una nostra brava cantante di musica pop:
Qui non c'è forse tanto bisogno di presentazioni e per una volta posso dire con soddisfazione di esser riuscito a fare a meno di una somiglianza “vintage”. E' infatti l'ancora attualissimo viso di Elisa Toffoli, meglio conosciuta nel mondo musicale con il semplice nome proprio.

Anche se per puro caso, le due moderne figure femminili chiamate in causa, per una certa loro indole “energetica” e battagliera, rappresentano un bell'esempio di rivincita rispetto alla tematica dell'affermazione della donna nell'ambito dell'arte, che tanti significativi risvolti comportò nella vicenda umana ed intellettuale della nostra pittrice di oggi.

Si chiude così anche questa puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. A questo punto vi saluto e vi ricordo la tappa obbligata sul blog di Kika, per scoprire come la nostra brava amica-esperta di moda e di arte ha reinterpretato col suo inconfondibile tocco le atmosfere dell'opera di  Louise Breslau.

venerdì 18 luglio 2014

“Le muse di Kika van per pensieri”: John Everett Millais (1829-1896)

“La ragazza cieca” (1856) - John Everett Millais

La rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” si presenta oggi in un formato ricco e variegato. Comincio con un piccolo corollario alla puntata precedente. Avevamo parlato del pittore Jules-Joseph Lefebvre (1836–1912) e del suo dipinto “Graziella” (1878). Nel compimento delle mie funzioni di detective fisiognomico, per il viso di “Graziella” avevo proposto sul finire due somiglianze con altrettante note attrici dei nostri giorni: Monica Bellucci e Sonia Bergamasco.

Ma la somiglianza più spettacolare, mi è stata suggerita in seguito proprio dalla mia esimia collega di blog Kika, che non solo sa far magie con la moda, ma ha in generale buon occhio per tutte le espressioni estetiche. Ecco il notevole parallelo suggerito da Kika:
Abbiamo qui ancora un'attrice notissima, Stefania Sandrelli, ritratta in una foto giovanile, assai consona ad evocare la similitudine con la Graziella di Lefebvre. Grazie dunque a Kika per l'azzeccatissimo suggerimento.

Un'altra similitudine a tempo scaduto, anche se meno efficace, era venuta in mente a me e ve la propongo:
Questa, l'avrete senz'altro riconosciuta, è Asia Argento, attrice nonché figliola di Dario,   celebre maestro di tanti memorabili film “de' pppaura!!!”. Ora, constatando che la partita si chiude con un ampia vittoria di Kika, con questo dichiaro esaurito il capitolo “Graziella” di Lefebvre.

L'artista proposto da Kika per la puntata odierna è invece John Everett Millais (Southampton, 1829 – Londra, 1896), uno degli esponenti della confraternita artistica dei “Preraffaelliti, insieme a Holman Hunt (1827-1910) e Dante Gabriel Rossetti (1828-1882). Kika ha focalizzato il suo interesse su un quadro di Millais del 1856, intitolato “La ragazza cieca”, per la presenza sullo sfondo di due evidenti arcobaleni (tema modaiolo-artistico di questa settimana su “ Le muse di Kika”). 

Mi accorgo che “Andarperpensieri” sta diventando alquanto “anziano”, quando mi capita d'imbattermi in un certo argomento e subito un'intuizione repentina mi coglie, facendomi esclamare: ma di questo ho già parlato sul blog! L'argomento dei Preraffaelliti lo avevo infatti già trattato l'anno scorso, tirandolo in ballo a proposito di una delle mie tante suggestioni campagnole. Sarà allora inevitabile che mi ripeta in qualche passaggio...portate pazienza, anche in  questo consiste il bello e il brutto di essere arzilli vecchietti telematici.

Il termine “Prerafaellita” mi ha sempre affascinato, pur non avendo mai capito bene cosa volesse dire, forse anche per una certa ambiguità contenuta negli intenti programmatici stessi di questi tre giovani pittori inglesi. Il loro fare creativo pretendeva di muovere verso un ritorno all'arte dei “primitivi”, intendendo con questa parola tutti i pittori che avevano preceduto Raffaello, “colpevole”, per citare Giulio Carlo Argan, del «...peccato d'orgoglio che aveva fatto dell'arte un'attività intellettuale...».

Di fatto, prosegue Argan, «...malgrado l'insistente richiamo ai “primitivi” italiani (benché si dessero per “primitivi” artisti come Gozzoli e Botticelli, Mantegna e Carpaccio) non vi sono, nella pittura preraffaellita, riferimenti manifesti allo stile di quei maestri: i quali vengono invocati piuttosto come esempi di morale professionale che come modelli formali...».

Volendo trovare dei precedenti più in sintonia con la figuratività dei Preraffaelliti, li potremmo individuare nei loro connazionali John Constable (1776-1837) e William Turner (1775-1851), entrambi accomunati da una certa “vibrazione romantica” nel modo di attingere ai dati della realtà.

L'essenza della poetica preraffaellita va ricercata invece nella fiducia riposta nell'arte come strumento di riscatto spirituale per l'umanità. La recente rivoluzione industriale aveva portato la società ad uno scadimento culturale generalizzato. Iniziò ad imporsi una visione del mondo improntata in prevalenza a criteri materialistici e di stretto utilitarismo. Un nuovo e più intimo rapporto con la “natura vera delle cose” poteva essere riscoperto, secondo i Preraffaelliti, attraverso l'empatia e  l'«intimità del sentire» di cui solo l'arte è capace. Per meglio precisare questi concetti, lascio ancora la parola a Giulio Carlo Argan:

«…Il movimento preraffaellita è anche indirettamente collegato con la corrente religiosa del cosiddetto risveglio cattolico, che moderatamente reagisce alla scandalosa collusione del puritanesimo anglicano con il capitalismo e relativo imperialismo: del resto la componente religiosa era fondamentale in un programma come quello del gruppo preraffaellita, mirante a recuperare attraverso l’arte l’intrinseca eticità e religiosità del lavoro……[…]…Si afferma la necessità di un nuovo naturalismo, poiché si riconosce alla natura una sua intrinseca poeticità e il carattere di messaggio divino; ma, come mezzo per decifrarlo, non si indica il sentimento della natura, bensì una tecnica pittorica umile, onesta, accurata, simile a quella degli antichi maestri e artigiani. Si procede ad un’imitazione particolaristica delle cose naturali, non già per “rappresentarle”, ma per vivere con esse un’intima comunione che permetterà di scoprire il loro segreto, la loro misteriosa spiritualità: accostandosi al vero con una già formata concezione del mondo si comprometterebbe la possibilità di ricevere in tutta umiltà il messaggio delle cose…».

In questo ambito culturale s'inserisce dunque l'opera di John Everett Millais, pur non priva a tratti, va detto, di certe derive nel sentimentalismo e nel patetismo, come possiamo constatare scorrendo le sue opere principali, e in particolare il suo dipinto forse più famoso, “Ofelia” del 1852.
“Ofelia” (1852) - John Everett Millais
Il viso della ragazza cieca di Millais, presentandosi con le palpebre abbassate, manca di un indizio fondamentale per un detective fisiognomico. Ho trovato tuttavia un viso famoso della nostra contemporaneità, che si può avvicinare ai tratti del personaggio del dipinto:

E' ancora un'attrice, apprezzata soprattutto intorno agli anni '70 per le sue qualità recitative sia nel cinema, sia in teatro:  Ottavia Piccolo. A proposito: mi rendo conto sempre più di possedere un immaginario femminile alquanto datato...non parlerei tuttavia di obsolescenza, ma piuttosto di un'indole vintage che mi appartiene (...buttiamola di lì...).

Prima di chiudere, una parola sulla canzone che inserisco in coda, come mia consuetudine. Stavolta una vaga attinenza con l'argomento di oggi c'è, anche se forse sta tutta nella mia mente. Non so come mai, infatti, le immagini di questo video, forse per una certa loro "morbosità", le ho sempre associate proprio al quadro “Ofelia” di Millais.

E adesso andiamo a scoprire quali magie modiaole ci ha riservato Kika sul suo blog, ispirandosi al dipinto di Millais, con particolare riguardo alla presenza dei due arcobaleni.

venerdì 11 luglio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Jules-Joseph Lefebvre (1836–1912)


Si torna in Francia, con questa puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Kika ci propone stavolta un “gran accademico” fra i pittori transalpini, Jules-Joseph Lefebvre (Tournan, 1836 – Parigi, 1912), prendendo in esame in particolare, per le sue escursioni artistico-modaiole, una luminosa opera intitolata “Graziella”, olio su tela del 1878, conservato al Metropolitan Museum of Art di New York.

Oggi, l'ispirazione ed il tempo sono alquanto risicati, per cui mi limito ad un piccolo “discorso iconografico”, per congedarmi poi coi risultati della mia indagine fisiognomica per questa occasione. Ho parlato varie volte di artisti “precursori” e di artisti “testimoni”. I primi sanno osservare la realtà “problematizzandola”, ossia filtrandola in senso critico, per trarne, attraverso il linguaggio della pittura, significati nuovi, “verità” filosofiche ed esistenziali non ancora portate alla luce. I “testimoni” invece si pongono nella scia della tradizione, accettano il “linguaggio corrente” dell'arte, e con questo continuano ad impostare il proprio discorso.

Così accade nel caso evidentissimo di  Jules-Joseph Lefebvre, il quale fu appunto in sommo grado pittore degli “ambienti ufficiali”. E' interessante fare una rapida comparazione parallela, fra quello che andava producendo nei medesimi anni uno dei più intensi “rivoluzionari” in pittura, Paul Cézanne  (1839-1906), e le opere di  Lefebvre stesso.

I due artisti furono quasi coetanei, condivisero di fatto la medesima epoca, ma mentre Lefebvre dipingeva questo:
"Odalisca" - Jules-Joseph Lefebvre (1874)

Ecco  invece Cézanne impegnato a “sfornare” questo:
"Una moderna Olympia" - Paul Cézanne 1873-1874

Ancora:  trascorre grosso modo un anno, e Lefebvre ci propone questo:
"Chloè" - Jules-Joseph Lefebvre (1875)

Mentre Cézanne controbatte con questo:
"Autoritratto con cappello morbido" - Paul Cézanne 1875

La parola ritorna a  Lefebvre, che intorno al 1884 si esprimeva così:
"Ritratto di Edna Brger" - Jules-Joseph Lefebvre (1884)

ma nel frattempo, con un anno solo di distacco, ecco Cézanne rispondere di nuovo per le rime:
"Bagnante" - Paul Cézanne 1885

Qualche anno dopo,  Lefebvre va di nuovo “alla carica” con un classicone accademico:
"Ofelia" - Jules-Joseph Lefebvre (1890)

Al quale Cézanne "oppone" uno dei suoi capolavori assoluti:
"Fumatore di pipa" - Paul Cézanne 1891

Chiudo la piccola carrellata comparativa, con un ultima stoccata stridente. Mentre Cézanne inaugura il '900 trascinandosi dietro tutta la sua carica di modernità che influenzerà il modo di intendere l'arte da allora in avanti, realizzando questo:
"Bagnanti" - Paul Cézanne 1899-1900

Ecco come Lefebvre saluta invece il secolo entrante:
"Yvonne" - Jules-Joseph Lefebvre (1901)

Ovviamente, il “botta e risposta” raccontato non è mai  avvenuto nella realtà e consiste solo in una mia suggestione creata ad hoc. Per una volta ho voluto lasciare interamente la parola alle immagini, che ci hanno spiegato meglio di ogni discorso cosa significa ragionare artisticamente in termini di “ricerca problematica” (Cèzanne), oppure in termini di “testimonianza accademica” (Lefebvre). Negli stessi anni in cui Lefebvre continuava a vedere il mondo attraverso la sua lente fissata staticamente nel tempo, Cézanne assumeva su di sé tutta la problematicità del reale, scomponendone gli elementi, schiantando la prospettiva, smontando i "dispositivi spaziali" e ricostruendoli sulla tela secondo il filtro di una sensibilità del tutto nuova, che individuava nell'immagine dipinta la linea di confine critico, il crinale di confronto, fra coscienza e realtà.

Detto questo, ci tengo anche ad aggiungere che ho apprezzato molto le opere di Jules-Joseph Lefebvre. Pur comprendendone tutti i limiti sopra esposti nell'ottica della sua importanza rispetto al grande discorso della storia dell'arte, sono innegabili la padronanza tecnica e la capacità di trasmettere emozione con le immagini, di questo pittore.
Non a caso, la ricerca di una somiglianza per il volto di “Graziella” si è rivelata particolarmente interessante. Pur potendolo osservare solo di profilo, questo viso ci trasmette una carica notevole di mistero fisiognomico. Concentrandomi su di esso per evocare una qualche similitudine con volti famosi della nostra contemporaneità, sono stato colto da ondate di suggestione molto intense e contraddittorie. Sono questi i casi d'indagine più stimolanti, ma anche leggermente “frustranti”: il volto suggerisce tratti che sembrano porsi sempre, di un “quid”, oltre la raggiungibilità piena (non so spiegare meglio il fenomeno). 

Alla fine, per trovare un minimo di soddisfazione e costruire una mezza somiglianza, ho dovuto andare a scovare non uno, ma due volti famosi. Immaginate dunque una sorta sommatoria di questi due volti di attrici, per riuscire ad equiparare l'enigma di quello della “Graziella” di Lafebvre (dato questo, che ci spiega ancor meglio come ci troviamo di fronte ad un pittore tutt'altro che banale, nonostante il discorso fatto riguardo al suo scarso rilievo come “innovatore”).

Ecco la prima somiglianza:

Naturalmente, si tratta di Monica Bellucci e a tal proposito, fra parentesi, vi faccio anche un po' ridere. Monica Bellucci, come tipo di bellezza femminea, non mi è mai piaciuta. Vi lascio immaginare, quando lo dico ai miei amici, le prese per il culo come si sprecano.

Fatto sta che è così. 

Ora, per ottenere la somiglianza che ho in mente con  la “Graziella” di Lafebvre, immaginate di sommare a certi tratti della Bellucci, alcuni altri di questa seconda bravissima attrice:

Questa è Sonia Bergamasco, che personalmente ricordo nell'interpretazione molto intensa del personaggio di una terrorista, nel film “La meglio gioventù” (2003) di Marco Tullio Giordana.

Prima di chiudere, completo il ragionamento di prima, riguardo al mio gradimento di grazie muliebri di carattere superiore. In una “inverosimilissima” ipotesi in stile film di fantascienza dal titolo “Gillipixel e le modelle”, accetterei molto più volentieri un invito a cena da parte di Sonia Bergamasco, che non da Monica Bellucci.

E detta anche questa ultima frescaccia, per oggi vi saluto. Non prima però di avervi invitato a passare dal blog di Kika, per dare un'occhiata alle magie modaiole che avrà saputo scovar fuori dal dipinto di Lefebvre.

martedì 8 luglio 2014

Buon quel momento lì!

«...Penso a chi ha imparato ormai
che le cose iniziano dalla “bi”.
Perché puoi anche inseguire la “a”,
ma solo la “bi” sei sicuro 
di trovarla sempre “lì”...».
Così mi disse, un bel giorno, 
sotto sera, Topesio...

*******

I saluti che ci scambiamo lungo l'arco delle ore quotidiane, vengono tutti più o meno espressi con formule di micro-augurio: buon giorno, buon pomeriggio, buona mattinata, buonasera, buonanotte. 

Consistono in piccoli auspici di trascorrere bene una certa parte del giorno. Sembra un fatto scontato, ma a ben guardare non lo è più di tanto, perché non in tutti i modi di salutare sono costruiti su una  “espressione di speranza”. Se si pensa al più classico dei classici dei saluti italiani, il “ciao”, si vede infatti che non contiene un augurio, ma, con ogni probabilità, una forma di ossequio. L'etimo della paroluzza è molto incerto, ma (ormai anche i sassi e i granelli di sabbia lo sanno) pare che derivi da una contrazione del termine veneziano “sciào”, ossia “schiavo”. Dicendo “ciao” a qualcuno, ci si pone dunque in atteggiamento di deferenza, come a dire “sono servo tuo”.

Pur non essendo un esperto di espressioni d'incontro o di commiato internazionali, mi azzardo a dire che forse il “ciao” è uno dei più bei saluti del mondo. E' quasi giusto che il suo senso si sia perso lungo i miliardi di passaggi intercorsi di bocca in bocca, fra salutanti, attraversando il cammino del tempo. Perché al di là di cosa veramente significhino, questo tipo di saluti fanno leva principalmente sulla sonorità repentina, sul guizzo sillabico puro. Basta pensare al modo inglese di salutarsi in confidenza con un “bye-bye” (“bài-bài”), che può diventare un semplice “bye” o, ancor più ridotto, un “hi” (“hài”) d'estrema familiarità. 

Chissà quanti altri tipi di questi “mini-salutignoli” esistono in moltissime altre lingue, o dialetti, o parlate varie, in tutto il mondo. Mi limito a citare i pochi che conosco, arcinoti, ipotizzando anche “associazioni caratteriali” relative, forse più frutto di suggestioni culturali annesse, che altro. Nella bellissima lingua sarda, c'è il simpatico “ahió” (o “ajó”, a seconda delle trascrizioni), che equivale ad un “ciao”, però con molta più decisione sonora (data soprattutto dalla “ó” chiusa e accentata sul finale), quasi a riflettere l'indole determinata che siamo soliti associare al fiero popolo di Sardegna. Nei paesi di lingua spagnola e affini (portoghese, brasiliano, e così via), usa invece il delizioso “hola” (o “olà”), che già di per sé suggerisce calore umano ed allegria. Gentilezza e disponibilità sono contenute poi nel cinese “ni hào”. 

In generale, e non ci vuole un'aquila per accorgersene, tutti questi saluti di grado intimo, si basano sulla brevità e sulla prevalenza vocalica. Il suono delle vocali è dolce, lungo, avvolgente, quasi sospeso, sensorialmente affine ad atteggiamenti fisici quali abbracci, carezze, blandizie tattili varie. Molto improbabile sarebbe infatti rivolgersi ad un amico con una chilometrica formula di saluto zeppa di consonanti. Per quanto, potrebbe essere un esperimento interessante da farsi. La prossima volta che incontrate un caro conoscente, invece del solito “ciao”, provate a spiattellargli in faccia un originalissimo “sbrgnzofrrlmdürt” (e mi raccomando la “ü” dura)...così, per vedere un po' iannaccianamente l'effetto che fa. 

Tra l'altro, quando si è convinti di aver detto la stravaganza più inverosimile, è proprio la volta buona che ci si accorge di come la realtà superi sempre puntualmente la fantasia. Curiosando in rete ho scoperto infatti l'esistenza di una curiosa forma di “ciao” in uso fra gli olandesi, che si salutano con un ben grattugiato “gegroet”, contravvenendo in modo abbastanza evidente alla regoletta enunciata poco fa. Per non parlare poi dei bulgari, che fra amici si dicono vicendevolmente  “sdravisvanje”. E poi dicono che son strano io...

Che si scelga insomma di utilizzare un più ufficiale augurio condensato (tipo buongiorno), oppure una minuscola parola dall'onomatopeica valenza amicale, l'atto del salutare non è mai qualcosa di così banale come potrebbe apparire. Proseguendo di questo passo, di riflessione oziosa in considerazione flanellosa, si potrebbero fare tante altre elucubrazioni.

Ad esempio: il salutante che opta per il mini-augurio concentrato, si espone al rischio di una certa ambiguità di contenuti. Potrà sembrare roba da gran campioni della suscettibilità, ma dicendo “buon giorno” o “buonasera”, ci si assume un certo qual impegno piuttosto serio. Questo tipo di saluto, presuppone che tutto il “giorno”, o tutta la “sera” siano “buoni”. Ma si sa: quando mai capita che ogni istante, ogni singolo attimo di una giornata, o di una serata, di un pomeriggio, di un mattino, siano interamente ed esclusivamente buoni, in tutto e per tutto? Ecco allora che il salutato in siffatta forma, dovrebbe sentirsi già in partenza come se fosse stato chiamato a stipulare un contratto fallace, manchevole e pieno di magagne. La delusione sarà infatti sempre in agguato, con inesorabilità pressoché matematica. Lungo le ore del pomeriggio, o di altra porzione di giornata augurata “buona”, capiterà senz'altro un inghippo, una sensazione spiacevole, un contrattempo sgradito, un sentore, seppur molto vago e fuggevole, d'amaro in bocca, che impediranno di poter dichiarare positivo nella sua interezza quel lasso di tempo. 

Per prevenire questo inconveniente di fondo dell'attesa frustrata, suggerirei allora ai salutanti di adottare una modalità di saluto più realistica e rispettosa nei confronti dei salutati. Invece di allargarsi in irrealizzabili pronostici di positività intera da trascorrere nell'imminente periodo di tempo indicato, si dimostrerà forse molta più onestà intellettuale e franchezza d'animo, salutando il conoscente con riferimento ad una ben più circoscritta porzione di tempo. Invece di “buon pomeriggio”, allora, si potrà ad esempio dire: “buone ore 16 e 42 minuti!”. In questo modo, il proprio augural-saluto suonerà meno pretenzioso, e circoscrivendo ad un preciso orario la previsione di alcuni scampoli di tempo davvero sereno o gioioso, si avvicinerà di più alla realtà. Oppure si potrà variare sul tema: invece di “buona serata”, si dirà magari “buoni venti minuti fra le dieci e le undici”. Essere contenti comporta anche un certo impegno: con simili saluti, il salutato saprà di doversi avvicinare allo stato d'animo opportuno, in sintonia col momento augurato, e la cosa risulterà tutta più armoniosa. D'altra parte, quando ci si sentisse salutare con un ancor più circostanziato “buone 10 e 53 e 34 secondi!”, il messaggio sottinteso potrebbe suonare anche del tipo: “...Non so dirti quale, ma che almeno un momento della mattinata sia per te buono...”, oppure: “...Scegli tu il momento buono, ma che uno davvero buono, ci sia...”. Cosa che, a mio parere, autorizza molto più gradevolmente ad essere riconoscenti verso il salutante.

Altre considerazioni sul fil di lana del nulla, possono nascere inoltre considerando ancora l'altra tipologia di saluti, quella fulminea confidenzial-vocalizzante. Abbiamo detto che più bello del nostro “ciao”, in questo ambito forse non c'è niente. Ma se si volesse rendere questo saluto ancor più intimo, privato, riservato ad una stretta cerchia di amici più cari, se non addirittura ad una persona speciale, se ne potrebbero coniare di nuovi, inventati ad hoc, proprio in forma di preciso  suggello da apporre ad una relazione veramente originale fra salutante e salutato. Le regole, l'abbiamo detto, sono due, e semplicissime, più una piccola postilla: lunghezza ridotta della parola e uso preponderante di vocali, con licenza d'introdurre consonanti dal suono più delicato. Ecco allora che potrebbero nascere nuovi saluti, tipo “uiae”, “sfea”, “loesi”, “misibici”, “sesiśi” (con la seconda “s” come nella parola “rosa”), e così via.

In una contrattazione linguistica intima siffatta, si rafforzerebbe così il senso d'intesa fra salutante e salutato, tanto che l'uno finirebbe per confondersi nell'altro, e viceversa: non si capirebbe più bene dove inizia il ruolo di chi saluta e dove quello di chi è salutato, col felice esito di una fusione completa d'identità salutanti.

Ad ogni modo, cari amici viandanti per pensieri, quelle proposte oggi, sono elucubrazioni veramente utopiche. Prendetele un po' così, con le pinze dell'animo, come puri fraseggi sul nulla poetico. Visti i tempi che corrono, infatti, va ancora bene se al giorno d'oggi ci si sforza di non mandarsi al diavolo a vicenda, quando non addirittura in “località augurali” persino più amene e pittoresche.

domenica 6 luglio 2014

L'oltre-senso sale in cattedra

Il dormiveglia mattutino è uno dei passaggi della giornata mentalmente più fecondi. Quei momenti di languore pre-veglia, durante i quali si indugia ad altalenare da una suggestione sognata all'altra, rappresentano una fase fondamentale della nostra “operatività esistenziale”, erroneamente scambiata per un periodo inutile, insensato,vacuo. Al contrario, il dormiveglia mattutino dovrebbe essere elevato al rango di materia scolastica fondamentale. Bisognerebbe insegnare, cominciando fin dai bambini, a vivere al meglio quelle fasi del giorno così ricche di attività interiore.
Purtroppo, al dormiveglia mattutino sono associati due ostacoli molto forti: uno è dato dalla indecifrabilità che accompagna la materia mentale associata (che ne è anche il pregio, si badi bene); l'altro viene dall'estrema difficoltà di fissare nella memoria la ricchezza incredibile di quei contenuti. Si sente spesso parlare dell'inaudita entità dell'energia che potrebbe essere estratta dalla forza dei fulmini, se solo si riuscisse in qualche modo ad incanalarne l'immane possanza. Un discorso analogo potrebbe valere anche per l'inestimabile patrimonio di bellezza onirica che ogni mattina in fiore, va irrimediabilmente perduto nei milioni di letti di milioni d'individui dormiveglianti.
Spesso ho pensato di adottare una qualche strategia sistematica per riuscire a condurre in porto alcuni ricordi validi, traendoli superstiti da quella lussureggiante marea di stimoli dalla natura così variegata e plurivoca. Ma la cosa ha sempre finito per apparirmi alquanto stridente, rispetto al compito. Come sarebbe possibile infatti pensare d'imbrigliare la libertà assoluta? O cercare di dare un qualche ordine logico alla fantasmagoria dell'illogicità pura? Un qualsiasi tipo di “misurazione”, che si pretendesse d'introdurre, in virtù della propria stessa natura “ordinatrice”, finirebbe per guastare sul nascere il felice spirito “anarchizzante” insito nell'oggetto “di studio” in questione.
Mi sono sempre accontentato allora (forse sbagliando) di lasciare che il caso facesse il suo corso. Ritenendomi soddisfatto, le poche volte che un briciolo di quel preziosissimo materiale riesce ad affiorare alla superficie della vita conscia. Com'è successo qualche mattina fa, con l'alba ancora  in fasce, quando fra un'immagine di sogno e l'altra, sono riuscito a cogliere alcuni scampoli di una specie di lallazione interiore semi-poetica, ed ho trovato la forza di liberarmi dalle inesorabili blandizie delle alitose sirene del sonno, scendere dal letto ed andarli ad annotare con la matita su un pezzetto di carta.

A giornata inoltrata, ho poi riletto quelle righe che, pur avendo smarrito buona parte dell'energia onirica originale, si conservavano ancora dense di caro e familiare mistero. Dicevano così:

Che oggi le cose,
bene o male,
un sorriso,
le cose te lo rendono...

venerdì 4 luglio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Frank Otis Small (1860-1915)


Da qualche parte ci dev’essere un santo protettore dei detective fisiognomici, perché quando Kika mi ha comunicato l’autore e l’opera di questa settimana per la nostra rubrichetta incrociata, sono stato fortemente in dubbio se optare per una clamorosa dichiarazione di resa incondizionata, oppure chiedere temporanea ospitalità a “La lente appannata”, l'istituto per investigatori di volti in pensione.

Oltre al danno, rischiava di aggiungersi anche la beffa. Va bene infatti che siamo abituati agli autori minori, ma stavolta ci troviamo di fronte ad un artista proprio piccolo, tanto che si chiama addirittura Frank Small (186-1915). E' americano, in rete non c'è modo di saperne molto su di lui, e persino l'opera scelta da Kika, “The welcoming smile” (“Il sorriso di benvenuto”, un olio su tela degli inizi del '900, custodito  nel “Masteworks Museum of Bermuda Arts”) si trova solo in formato digitale minuscolo (d'altra parte, nemmeno le dimensioni reali sono sconfinate: solo 22 x 16 pollici, un 50 x 30 cm. circa). 

Ma come dicevo, un nume tutelare degli indagatori di volti ancora una volta ci ha messo lo zampino. Dopo aver quasi disperato definitivamente (complici anche i risicati pixel di questa immagine), il viso famoso mi è piovuto quasi dal cielo, puff, calandomi nella mente proveniente da chissà dove, da qualche lontanissimo meandro della mia riserva iconografica inconscia.

Non avendo allora nulla da raccontarvi sul quadro e sull'autore in sé (se non che mi sembra di poterlo annoverare nella schiera dei realisti americani alla Winslow Homer, nostra cara conoscenza di qualche puntata fa), prima di passare a rivelarvi l'esito delle mie indagini, meno appunto un po' il cane per l'aia proprio riguardo a questo fenomeno dell'apparizione sbalorditiva di volti.

Avevo letto tempo fa che la questione di come il cervello riesca a richiamare alla luce gli elementi custoditi nel deposito della memoria, è tuttora dibattuta dagli studiosi di psicologia (e son sicuro di aver detto già questa cosa, altre volte). Un conto è poi se si tratta di parole, un altro se intervengono le immagini. Ma chissà se questa non è solamente una nostra apparente classificazione operata a livello conscio. Forse, veramente, a livello di meccanismi non consapevolmente gestiti, esiste un sistema in grado di discernere stimoli di varia natura, trattandoli come fossero una “materia” omogenea. Di qui ad andare a parare intorno alla questione se il nostro pensiero operi più per parole o più per immagini, il passo è breve, ma ci porterebbe troppo lontano.

Sta di fatto che queste tematiche sono molto affascinanti, a ben considerarle. E il pieno di questo fascino lo si può assaporare solo vivendo in prima persona le relative esperienze connesse all'entrata in gioco di simili dispositivi psichici. Li possiamo considerare come dei fantasmini che agiscono nell'oscurità della nostra mente. 

Quando sentiamo un odore, sappiamo che il responsabile è il naso; per un sapore, la bocca; per una frase pronunciata o per un'operazione matematica, è il raziocino ad intervenire, il pensiero consapevole; e così via. Quando invece ricordiamo qualcosa, soprattutto se dopo un notevole sforzo, è come se non sapessimo di preciso a chi dare la “colpa”. Dall'inizio di questa collaborazione con Kika, ho avuto modo diverse volte di constatarlo con gran stupore su me stesso. Il “rinvenimento mnemonico” di una parola non è in grado di suscitare quel grado di meraviglia così intenso che sanno evocare le immagini. E dire che non sono mai stato tanto portato per le fisionomie: mi è capitato spesso di conoscere persone, e poi fare figuracce notevoli, passato un po' di tempo, incontrandole di nuovo e mancando clamorosamente di salutarle, perché nel frattempo il loro viso era passato nel dimenticatoio più assoluto.

Incrocio queste riflessioni con alcune cose lette su un interessante libricino trovato nei giorni scorsi in edicola, “L'equazione dell'anima” (2009) di Arthur I. Miller, uscito per la serie dei testi proposti dal “Corriere della sera” sulla storia della matematica. In particolare, qui si parla del geniale fisico Wolfgang Pauli e di uno dei padri della psicologia, Carl Gustav Jung. 

Accennavo al fatto che non sono un gran fisionomista, ma un introverso sì. Jung suddivide i caratteri psichici in quattro “tipi funzionali”, a loro volta raggruppati a coppie nei due “modi di essere” fondamentali. In un cerchio immaginario, i poli opposti nord e sud sono occupati da “pensiero” e “sentimento”, mentre agli altri due poli est e ovest stanno “sensazione” e “intuizione”. “Intuizione” e “sensazione” sono i due estremi che, in prevalenza dell'uno o dell'altro, decretano se in una persona s'impone il “modo di essere” “introverso” (diretto al proprio interno), oppure “estroverso” (diretto al proprio esterno), termini coniati da Jung stesso. Riporto lo schemino relativo, per maggiore chiarezza.
Interessante poi quello che scrive Miller, sulle caratteristiche della “intuizione”: «...[l'intuizione] è in qualche modo affine alla sensazione senza però causa esterna [i sensi] a orientare l'attenzione. Nel suo caso si parlerà quindi di istinto, ispirazione e suggerimenti di origine, per così dire, viscerale. Le conclusioni raggiunte per via intuitiva non sono neanche il frutto di ragionamenti, tanto è vero che  sembrano provenire dal nulla, come quando la soluzione di un problema si palesa all'improvviso mentre la nostra coscienza si sta occupando di altro...».

Quest'ultimo passaggio, ricorda fin troppo da vicino un celerrimo verso di John Lennon: «...life is what appens to you while you're busy making other plans...» («...la vita è ciò che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti...»), contenuto nella delicatissima “Beatiful boy” (1980). 

Alla fine della chiacchierata, dove min...dove diavolo volevo andare a parare, insomma? Volevo forse solo dire che a mio avviso, questa caratteristica intima or ora sottolineata riguardo al “funzionamento” proprio della “intuizione” (ossia il fatto di scaturire all'improvviso da chissà dove, quasi inattesa, recando con sé la sua origine piacevolmente misteriosa) sta alla base di tutti i fenomeni della vita che in qualche modo hanno qualche parentela con la gioia, e a tratti, persino con piccoli, fugaci, evanescenti sprazzi di felicità. 

Se fate mente locale, per ogni volta che avete provato sensazioni di gioia, se non addirittura assaporato millesimate pagliuzze di finissima felicità, calate per alcuni istanti rapidissimi sul fondo del vostro animo, è successo sempre per caso, come il frutto di un'intuizione esistenziale subitanea e sbucata fuori da chissà dove, dal nulla.

Ne consegue allora che pure scovare un sosia della nostra contemporaneità, da abbinare ai personaggi dei dipinti proposti da Kika, comporta piccoli attimi di gioia? Certo, credo di poter dire che ne consegua anche questo...
Ed ora, dopo aver “tuttologizzato” a tutto spiano anche per oggi come si deve, passo direttamente al cuore della questione, tra l'altro or ora già per bene questionata. Trattandosi in nella fattispecie del viso di una ragazza di colore, non volevo scovare una sosia di colore. Ma non mi veniva in mente un bel nulla. Poi la micro-illuminazione è arrivata, e con essa il fuggevole bagliore di gioia.

La piccolezza della foto non rende molto giustizia, e forse mi espone ancor più gravemente ai rischi di johnny-stecchinizzamento o di sergio-de-vastanizzazione. Storcerete fieramente il naso, ma cosa volete che vi dica...io in questo volto, ci ho visto questa famosa attrice di un famosissimo telefilm di parecchi anni fa, ormai:


E' proprio lei, Erin Moran, ma è preferibile se vi dico Joanie Cunningham, o ancora meglio “Sottiletta”, la sorella di Richie, il miglior amico di Fonzie (il titolo del telefilm non ve lo sto nemmeno a dire...).

E adesso tutti sul blog di Kika, a scoprire le sorprese modaiole che ci ha riservato in tema di ambientazioni stile isole Bermuda ed affini.