venerdì 31 luglio 2015

Le muse di Kika van per pensieri: Henry Tonks (1862-1937) e il volto come fulcro del mondo

“Donna che cammina sulla sabbia” (1910) - Henry Tonks

Le muse di Kika si congedano per le vacanze agostane, dandovi appuntamento a settembre: di conseguenza, anche la mia rubrichetta abbinata, “Le muse di Kika van per pensieri”, vi saluta prima della pausa estiva. Sarà una puntata molto anomala: parlerò di arte in modo tangenziale, ma in qualche modo ne parlerò. 

Il quadro scelto stavolta da Kika presenta infatti difficoltà insormontabili anche per il più scafato fra i detective fisiognomici. Si tratta infatti di “Donna che cammina sulla sabbia”, dipinto nel 1910 dal pittore inglese Henry Tonks (Solihull, 9 aprile 1862 – Chelsea, Londra, 8 gennaio 1937). Come si può vedere, la signora ritratta ha il volto praticamente indefinito, per cui non c’è margine per il mio consueto gioco di ricerca delle sosia. Da buon viandante per pensieri tuttavia, ho colto mentalmente al balzo questo fatto, per alcune riflessioni di circostanza. Più che del quadro e del suo autore, mi piacerebbe dunque discettare intorno a queste idee vaganti, incentrate soprattutto sul volto umano e sui suoi significati, e nate per contrasto, proprio dal fatto che nella presente opera una vera fisonomia non è descritta. 

Osservando quadri di tutti i generi e di tutte le epoche, in modo particolare nelle occasioni di visita a mostre o musei vari, mi sono sempre auto-stupito con una considerazione un po’ stupida: il 90% dei quadri (la sparo così, tanto per indicare un’alta percentuale) è sempre incentrato sulla figura umana e in particolare sui volti. Lo so, constatazione più faloppa forse non si potrebbe fare, ma se ci pensate un attimo, essa non è priva di implicazioni interessanti. 

E’ naturale e spontaneo che all’uomo interessi prima di tutto l’uomo, come soggetto-oggetto di ricerca, ma non dimentichiamo che nel mondo (anzi, nell’universo) sono presenti migliaia di altri soggetti all’apparenza potenzialmente molto più ricchi di intensità figurativa e adatti ad essere sviluppati in immagine. Come si spiega dunque questa “ossessione” ripetitiva ad occuparsi di corpi, ma soprattutto di volti, da parte degli artisti di tutte le epoche? Come mai certi autori devono la loro immensa fama al fatto di aver dipinto sempre lo stesso “oggetto”, fatto di pochissimi elementi, una bocca, due occhi, un naso, ecc.? 

Basta pensare ad alcuni fatti. Il quadro forse più famoso al mondo ha il suo centro compositivo in un volto, quello della “Gioconda”. Giovanni Bellini, Antonello da Messina, Jean-Auguste Dominique Ingres, Amedeo Modigliani: li ricordiamo soprattutto per la loro maestria nel realizzare ritratti. Vincent Van Gogh ci ha lasciato un considerevole numero di autoritratti, molto tormentati, come da sua indole artistica, quasi che non fossero sufficienti tutti i paesaggi urbani e rurali (che pur ebbe modo di dipingere), per riuscire ad afferrare la complessità e l’infinita variabilità delle sfumature del mondo, tanto da sentire l’impellenza di andarle a indagare ulteriormente nella propria stessa figura e fisionomia.

A mio parere, una parziale spiegazione al fenomeno è la seguente: nonostante tutto quello che l’uomo ha scoperto nei secoli, con tutta la sua filosofia, la scienza e con ogni mezzo culturale possibile, il volto umano, da un punto di vista iconografico, rimane sempre l’elemento del reale in grado di esprimere il più grande mistero dell’universo. E l’arte si nutre di mistero, che è la sua vera e propria linfa vitale. 

A livello di indecifrabilità, di indicibilità, di inafferrabilità, di fuggevolezza e sospensione significativa, non esiste nulla di più potente del volto umano. Per quanto un volto possa essere considerato anche dal punto di vista quantitativo e “normativo” della scienza e della ragione, esso riserverà sempre quello scarto, quel “quid” in grado di relegarci sempre un passo indietro rispetto ad una sua soddisfacente codificazione. 

Consideriamo anche la letteratura, e come le più grandi opere di tutti i tempi diano ampio credito alla “valenza conoscitiva” dei volti. Un piccolo “esperimento” personale, mi ha confermato in pieno questo fatto. Ho provato a prestare attenzione, nel romanzo che attualmente sto leggendo, a questo particolare aspetto, ossia a come la “forza indagante” dei volti ricorra spesso nel corso della narrazione. Si dà il “caso” che il libro in questione sia anche un impareggiabile tomo, “L’uomo senza qualità” di Robert Musil, (Klagenfurt, 1880 - Ginevra, 1940), pubblicato, inconcluso e in parte anche postumo, tra il 1930 e il 1943.

A farci caso, è sorprendente notare le volte che i visi dei personaggi raccontanti, vengano chiamati in causa in virtù delle loro “proprietà indagatrici interiori”. Si tratta in certi casi solo di piccoli guizzi metaforici, in altri sono più profonde analisi, ma ogni volta si coglie il tentativo dello scrittore di afferrare l’indicibilità di certi stati interiori, attraverso l’energia espressiva dei visi. Riporto solo alcuni esempi.

Del personaggio Paul Arnheim, un industriale di mezza età con altissime velleità culturali, scrive Musil: «…la sua faccia certi giorni era giallo-grigia, floscia, stanca, vi si guardava dentro come in una camera dove il letto a mezzogiorno non è ancora stato rifatto…». 

Oppure, cogliendo l’espressione di un altro carattere, in questo caso femminile, del romanzo, Agathe, lo scrittore sorprende quest’ultima intenta a sostenere un dialogo, con il volto dipinto da «…un sorriso acerbo come un buon vino secco…».

O ancora: il protagonista principale, Ulrich, ricorda un lontano aneddoto della sua adolescenza, quando su un tram venne folgorato dalla visione di una ragazzina che lo lasciò stupefatto per il grande senso di bellezza provato: «…Notai che i lineamenti della sua faccia seria erano più avanti degli anni e sembravano da grande; eppure non era il volto di una donna piccina bensì, senza alcun dubbio, quello di una bimba. E tuttavia la faccia infantile non era per nulla la prefigurazione immatura di una persona adulta. Pare che qualche volta a dodici anni il viso femminile sia già compiuto, formato anche spiritualmente di primo getto come i capolavori, cosicché ogni ritocco guasta soltanto l’originale…».

Di un altro personaggio dal carattere alquanto tetragono, abitudinario e formale, scrupoloso professore di una scuola media, Musil dice che «…incoraggiamento e allegria irradiavano dalla sua fronte sull’edificio scolastico a lui sottoposto…». Si potrebbero trovare ancora tanti esempi del genere, riguardanti l’«energia somatica» sprigionata dai visti, nel corso del romanzo. E questo “esperimento” potrebbe essere ripetuto anche su tanti altri romanzi: di sicuro se ne trarrebbero molti risultati interessanti.

In un altro episodio, sempre il personaggio di Agathe, dopo aver girovagato per le campagne intorno a Vienna in preda allo sconforto, s’imbatte in uno sconosciuto. Ecco come Musil ce lo presenta, in un continuo andirivieni descrittivo fra tratti somatici e tratti interiori: «…una corta barba bianca gli copriva il mento e le guance. Al di sotto dei baffi si potevano scorgere le labbra morbide, un po’ arrovesciate, in giovanile contrasto con i capelli già misti di grigio, come se il tempo le avesse dimenticate. Non era un volto facile da decifrare. […] la severità di quel viso non era intagliata in un legno duro, pareva piuttosto qualcosa di tenero che si fosse indurito a opera di piccole angustie quotidiane…». 

Se dovessimo paragonare tutto l’insieme reale delle cose osservabili a un’immensa distesa di forze “iconografiche” distribuite con un loro diverso potenziale di “carica visiva”, potremmo annoverare le zone in cui compare un volto, come i punti più intensi del campo di forze in questione. Sarà forse per questo, che ogni volta che mi reco in un museo o a vedere una mostra d’arte, una volta scemato l’entusiasmo della curiosità iniziale, dopo la prima oretta di visita, il mio sguardo finisce immancabilmente per vagare alla ricerca dei visi degli altri visitatori, divenuti a quel punto molto più stimolanti e calamitanti interesse, che non le stesse opere esposte.

Ho parlato più di letteratura, invece che di pittura, andando così forse un po’ fuori dal seminato. Ma i moventi che spingono ad occuparsi di volti, non sono dissimili in entrambe le forme artistiche. In tutti e due i casi, c’è dietro la volontà di aprire una finestra sull’«infinito» rappresentato dalle profondità dell’interiorità umana. Perché per quanto si potrà mai esplorare la realtà, fino agli estremi lontanissimi degli spazi galattici più inoltrati, oppure, nel verso opposto, fino ai sempre più ristretti confini dell’infinitamente piccolo, non si riuscirà mai a trovare una dimensione più sconfinata, illimitata e complessa di quella offerta dall’intimo più profondo dell’animo umano. Del quale il volto rappresenta la via d’accesso privilegiata.

Si chiude qui anche questa puntata oltremodo anomala della nostra rubrichetta. Ora Kika ci aspetta sul suo blog, per mostrarci le sorprese modaiole create per l’occasione. Con questo per oggi è tutto: ci si ritrova settembre per altri appuntamenti con la moda, l’arte e le giocolerie fisiognomiche. Ciao, belle gioie!!!


domenica 19 luglio 2015

Le muse di Kika van per pensieri: Frederick Carl Frieseke (1874-1939)

“The garden parasol” (“Il parasole da giardino” – 1910 circa) - Frederick Carl Frieseke
  
Puntata “express” e un po’ diversa, della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Per motivi organizzativi, non sono riuscito stavolta a pubblicare il mio intervento in sincrono con quello di Kika. Approfitto così di questa modalità degli eventi, per scrivere una cosa particolare. Voglio infatti commentare oggi direttamente la magia modiaola che ci ha riservato Kika per l’occasione, perché l’ho trovata molto felice e ricca di fantasia. 

Ma andiamo per ordine. Il quadro scelto da Kika in questo caso è opera di un pittore americano, epigono dell’impressionismo: parliamo di Frederick Carl Frieseke (Owosso, Michigan, 1874 – Le Mesnil-sur-Blangy, Normandia, 1939) e del suo dipinto “The garden parasol” (“Il parasole da giardino” – 1910 circa).

Se ho deciso di parlare del modo in cui Kika ha ripensato l’abbigliamento della donzella ritratta, non è certo per piaggeria, né per vestire a mia volta i panni del “laudatore ufficiale” d’occasione. Kika non ha certo bisogno delle mie lodi, la sua bravura s’impone già da sé come dato di fatto. Quello che mi interessa invece sottolineare è un altro aspetto, sempre presente nelle operazioni di arte e moda kikeske, che in questo caso mi è parso particolarmente calzante ed efficace.

In che maniera si può guardare un’opera d’arte? Probabilmente non esiste una modalità univoca: le sfumature sono sempre tantissime, così come sono molto diverse le sensibilità e gli approcci personali possibili. Ma se c’è una sorta di regola comune, in qualche modo capace di indicarci una via abbastanza universale, nell’atteggiamento da tenere di fronte all’opera, ecco, secondo me, il modus operandi di Kika, ce la illustra bene.

E cos’è che ci spiega più o meno direttamente Kika, ogni volta che riveste uno dei soggetti femminei presi in esame? Ci spiega che un quadro è un’entità viva, la quale è in grado (sempre che ci sia la rispettiva e medesima volontà da parte nostra) di entrare in risonanza dinamica con quanto di vivo alberga dentro di noi.

Forse si potrà capire meglio cosa intendo, osservando, come dicevo, proprio l’operazione artistico-modaiola, realizzata da Kika col quadro di Frederick Carl Frieseke. Questo quadro, come ogni quadro, è un “dispositivo di forze visive”. Prese di per se stesse, queste forze hanno una loro logica interna, ma è quando si mettono a vibrare con quanto la nostra sensibilità è in grado di far entrare in gioco, che ne derivano “conseguenze significanti” praticamente illimitate. Un dipinto è come l’innesco di una valanga: tutto il resto lo fanno la nostra ricchezza culturale, la nostra capacità di costruire un dialogo estetico a partire da quegli stimoli iniziali, la nostra dimestichezza con il linguaggio dell’arte, il nostro talento (che è frutto anche di pratica e d’esercizio) nel saperci esprimere lungo sentieri efficaci della fantasia e dell’immaginazione.

Collage delle interpretazioni di Kika

Per dire l’esempio più eclatante: l’idea di “condensare” l’oggetto, insolito protagonista del dipinto, ossia l’ombrellone (o parasole che dir si voglia), in un ampio copricapo a larghe tese, denota da parte di Kika proprio quello che sto cercando spiegare. I quadri non si pongono come una storia costituita da elementi narrativi fissati una volta per sempre. Sono invece strumenti di stimolo che invitano a costruirci, in modo che definirei “chagaliano”, il nostro personale racconto.

Le “forze” messe in moto dal dipinto, mutano, si trasformano, evolvono, si complicano e si riordinano nella nostra sensibilità. Per quanto si possa poi giungere a sfiorare dimensioni di suggestione anche molto impalpabili e spirituali, questo circolo di sensazioni viene sempre avviato da un dato sensibile: le pennellate di righe e colori sulla tela. E’ inevitabile dunque che i due registri, quello più direttamente fisico, e quello “sublimante” verso direzioni di maggior rarefazione concettuale, si contaminino e si richiamino continuamente fra di loro, nel corso della nostra considerazione visiva dell’opera. 

Tornando all’esempio dell’ombrellone “sintetizzato” in cappello, da Kika: possiamo vedere questa operazione come implicante numerosi risvolti di tipo suggestivo, magari anche inconsci. All’ombrellone potremmo allora magari associare un senso di socialità più accentutata, perché il riparo che procura è condivisibile con altre persone, mentre il cappello si prefigura come oggetto che “privatizza” quello scopo. Lo stesso cappello, potrebbe dare il via ad un’altra traccia di percorsi tra il sensibile e il mentale, pensando ad esempio al velo di sudore che si ferma sul nastrino interno, che solitamente nei copricapi è messo a circondare il punto di contatto con la pelle della fronte e tutto il resto del “circolo dei capelli”. A seconda della predilezione dell’osservatore di turno, per una maggiore dimensione sociale, oppure per una più personale e riflessiva, rispetto all’opera s’innescheranno una serie differente di “reazioni sensibili”.

Ecco allora che certi elementi verranno visti con favore o con fastidio, nei diversi casi: per qualcuno anche la sensazione di leggero sudore potrà associarsi alle piacevolezze della conquista di un proprio spazio di meditazione personale; per altri, l’ariosità e la spaziosità saranno invece condizioni irrinunciabili. E così via, incamminandosi mentalmente ed emotivamente, ciascuno verso il sentiero che gli è più consono in base alla propria sensibilità.

Gli esempi che ho fatto sono forse un po’ banali, ma non è assolutamente banale quello che le operazioni di moda di Kika ci mostrano: ossia che un quadro è una sorta di dispositivo “multipotenziale”, atto a innescare in noi un percorso di indagine interiore e di confronto con se stessi. Ciascuno può proseguire nella verifica di questo fatto, osservando anche gli altri accessori di abbigliamento proposti per reinterpretare il look della signora ritratta. 

La calura ispirata dall’ombra luminosa sotto la quale la donna è seduta, può evocare addirittura interrogativi riguardo a cosa possa indossare sotto al vestito, soprattutto se si attualizza la scena in una prospettiva più moderna (come quasi istintivamente siamo portati a fare, osservando opere di qualsiasi epoca). In altre parole: ad un osservatore moderno, è molto facile che non sfugga l’associazione con il possibile desiderio della suddetta dama, di mettersi in bikini per una sessione di tintarella con tutti i crismi. Nessun tipo di pensiero o potenzialità suggestiva è mai escluso quando si osserva un quadro; nemmeno il più lontano o all’apparenza casuale, se non persino ozioso: tutto contribuisce a fare la nostra idea di quell’opera, perché i pensieri associativi si affacciano alla mente anche se non lo vogliamo, quasi s’impongono per “volontà propria”. 

Risulta molto bella allora la scelta di Kika di introdurre anche il “discorso bikini”, soprattutto se arricchito ancor più di sfumature di confronto col quadro: nella fattispecie, un gioco cromatico tra le tinte e il disegno del costume, e lo sfondo dato dalla cortina vegetale, la quale tra l’altro svolge a sua volta una funzione di filtro luminoso, con conseguenti implicazioni suggestive connesse al senso di calore dell’aria, contaminabili a loro volta con l’ulteriore idea del calore del corpo, e così via zompettando felicemente di suggestione in suggestione.

Insomma, è questo che fa ogni volta Kika, col suo gioco di arte e moda: ci spiega, in chiave divertente, che ogni quadro è un piccolo mondo, nel quale ciascuno può scovare la propria collocazione, il proprio luogo di “residenza sensibile”.

L’indagine fisiognomica di oggi, lo dico subito, non ha dato esiti molto lusinghieri. Ho scovato solo due volti: uno già usato in altra occasione; l’altro, di un personaggio non troppo lusinghiero (per usare un eufemismo). Ma questo è quello che passa oggi il convento fisiognomico.

Ecco il primo personaggio:



Lo so, questo volto l’ho "usato" già ed è sempre la nostra brava attrice italiana di teatro e cinema Ottavia Piccolo, ma per stavolta è andata così.

Il secondo volto vi stupirà, se non altro per il “calibro” del personaggio (e neanche a farlo apposta, l'ho beccata proprio in una foto con ombrellino):


Si tratta della famigerata Imelda Marcos, vedova dell’ex dittatore filippino Ferdinand Marcos. A tal proposito, ci tengo a fare una doverosa precisazione: spero che la bizzarra scelta fisiognomica non urti e non offenda la sensibilità di nessuno, e soprattutto non interferisca negativamente con l’immagine del nostro pittore odierno. La mia scelta è nata ovviamente da una pura associazione fisiognomica e tutto il discorso dev’essere inteso come rigorosamente finito lì.

Finisce qui anche questa puntata “speciale” della nostra rubrichetta. Ora non mi resta altro che invitarvi a verificare ancor più puntualmente, quanto vi ho raccontato riguardo alle funzioni “artistico-pedagogiche” del gioco di arte e moda di Kika: naturalmente, come sempre sul blog “Le muse di Kika”.

mercoledì 15 luglio 2015

Tetta pura senza paura


Ho avuto un segno. L’inequivocabile messaggio formale mi si è appalesato senza tema di smentita. Il Gran Regno della Tettatura Sissocratica è vicino. L’incontrastata Senografia Globale si sta disegnando. Verrà l’Assoluto Regal Globulo Rosa, portando morbidezza fra le genti, rotondità di rapporti e acutezza puntuale, a ciascuno per la propria areola di esistenza.

Ancor non mi ero sciolto dall’ultimo abbraccio di Morfeo e mi apprestavo, per prudenza, ad aprire con cautela una singola palpebra; quand’ecco che la coda dell’occhio mi viene carezzata dalla simbolica visione. Il lembo angolare del cuscino, con plastica sapienza “mammellomorfica”, mi si era “minnaturizzato” sotto il momentaneo ciclopico sguardo.
E subito ho pensato come sarebbe bello se le sorti del mondo fossero rette da una Tetta. O meglio: dalla filosofia della Tetta.

Come primo risultato, cesserebbe ogni guerra. Avete mai visto voi una Tetta agguerrita? Io no. Il massimo che le si potrà mai veder sparare, sono candidi fiotti di generosità. Preciso stesso motivo per il quale, sotto il Regno della Gande Mammella, non ci saranno più problemi di nutrimento per nessuno. L’espressione “lacrime e sangue” cadrà placidamente nel dimenticatoio, sostituita per sempre da “latte e miele”.

E rimanessero poi ancora dei dubbi riguardo all’assoluto pacifismo della Tetta, basti pensare che l’unica arma di cui dispone si limita a “zzolo” un “cape”. E nelle occasioni in cui lo punta contro, lo sa sempre, e “zzolo”, per ricevere o offrire piacere al fortunato preso di mira. 

Avremo così un “zzolo cape” del governo, con sede a Palazzo Chiodi. Lo zizzamento riunito a Montessissorio promulgherà provvedimenti di legge dalla prima alla sesta misura, e oltre, nei casi di maggior fabbisogno di felicità. 

In base all’assunto universale del supremo principio dell’OnniTettonismo (il quale recita: “…Non esiste una Tetta brutta, esistono solo occhi che non la sanno guardare…”), sparirà di conseguenza dal mondo ogni forma di razzismo e discriminazione. “…Ogni Tetta è bella, purché sia saggia la man che le carezze modella…”: così sarà scritto su tutte le monete e banconote del Regno di Tettolandia. E ognuno vivrà “senifico” e poppante.

lunedì 13 luglio 2015

Un silenzio sbadilante


La comunicazione di massa, e internet in particolare, avranno tanti meriti. Hanno migliorato la diffusione della conoscenza; hanno aperto gli orizzonti mentali; hanno incentivato i contatti fra le persone. Però hanno comportato anche distorsioni non proprio lusinghiere. Fra queste, l’impoverimento del linguaggio in prima battuta, e come conseguenza ulteriore, un fenomeno che chiamerei “usura espressiva”.

Il punto sta proprio negli scopi e nel concetto stesso di comunicazione. Comunicazione vuol dire far giungere ad altri un contenuto con la maggiore efficacia possibile. Anche la letteratura, la poesia, l’arte e altri ambiti del sapere, si preoccupano di questo obiettivo. Ma in essi non è preponderante come nella comunicazione. Anzi, per quelle altre forme di “umano interscambio”, spesso assumono un ‘importanza fondamentale certi scarti di senso, certe deviazioni accessorie dal sentiero principale della significazione, che sanno dare al “materiale concettuale” trasmesso, una maggior carica di fecondità e di potenzialità significante.

La comunicazione deve invece andare dritto al bersaglio. Per questo predilige l’appiattimento del linguaggio sul piano di una “media statistica espressiva”, mediamente “digeribile” da tutti. Ci vuole poco a capire come tutto ciò diventi facilmente il “terreno di coltura” per una standardizzazione espressiva diffusa e incentivata. La cosa più sorprendente, tuttavia, è che questo meccanismo livellante si rivela capace di svuotare di dignità anche certe espressioni, originariamente nate con le migliori intenzioni di eleganza e plasticità verbale. In quei casi, ne derivano situazioni di odiosità linguistica al limite della persecuzione molesta.

Non si possono davvero più sentire, certi modi di dire dalla fibra espressiva ormai irreparabilmente frustata e snervata come un rametto di salice passato sotto il peso di una schiacciasassi. Si fa pressante, in quelle occasioni, l’urgenza di porre mano a un auspicato e solido badile, col quale poter esprimere il proprio grado di soddisfazione linguistica direttamente sul muso dell’infausto comunicatore.

Uno dei casi più eclatanti del fenomeno, lo possiamo riscontrare nell’utilizzo di un ossimoro, che magari in origine recava in sé anche una certa quale virtù nobilitante. Ma una volta passato nel tritacarne ossessivamente reiterante del mastodontico “trangugia e divora” linguistico (rappresentato dal gran meccanismo comunicativo), esso si è degradato a modo di dire vile e oltremisura fastidioso. Mi riferisco al sintagma “un silenzio assordante”. Questa espressione è divenuta ormai completamente inascoltabile e inservibile, per chi intenda mantenere un minimo di rettitudine, non solo verbale, ma anche morale in senso più ampio.

Il suo uso, che pur non accenna a diminuire, nel vasto rimbombo del riverbero comunicativo globale, dovrebbe avere come migliore risultato, un incremento delle vendite di badili. E invece purtroppo no. Di badili se ne vende sempre uguale, se non meno. Mentre l’infelice binomio continua a passare di bocca in bocca, del tutto insapore e indurito come un chewing-gum sclerotizzato dall’eccesso di biascicamento compulsivo. 


venerdì 10 luglio 2015

Tutto il mare in bocca



Mi sono messo lì. 

Che subito viene da dire: lì dove? Era un “lì” il più possibile adimensionale: a-spaziale, a-temporale. Ho provato a fermare i pensieri. Come succede alla materia, quando viene raffreddata. Le particelle di cui è composta, piano piano rallentano. 

Acciuffare una sorta di fermo-immagine dei pensieri. Poterli contemplare così, in statica distesa. Accorgersi della via sbagliata che una sensazione sta imboccando. Fare caso al passo falso che un’intuizione sta azzardando. Avere tutto il tempo di cogliere, nel panorama spalancato in sinottica estensione, potenzialità e falle di tutta la costruzione concettuale-emotiva.

Mi sentivo come in quella fiaba del ragazzo capace di inghiottire tutta l’acqua del mare. Un amico, avido e superficiale, gli chiese di farlo per lui, in modo d’avere agio di raccogliere sommersi tesori preziosi e meraviglie dei fondali. Va bene, gli disse il ragazzo, a patto che tu torni a riva subito, non appena ti farò cenno. L’altro lo rassicura che ubbidirà con prontezza.

Il ragazzo inghiotte il mare e l’amico s’inoltra estasiato fra pesci di colori mai visti e ogni altra sorta di preziosità marina. Perde tempo ad ammirare sciocchezze, si riempie le tasche di cianfrusaglie, trascurando i veri oggetti di valore.

Lo stesso succedeva a me, scorrazzando nella distesa dei miei pensieri fermi. Mi soffermavo troppo sullo sfavillio di un concetto da nulla. Rimpinzavo il retino di emozioni effimere, per portarne a casa il più possibile. 

Intanto però il ragazzo, sulla riva, iniziava a non poterne più. Il mare in bocca gli pesava tremendamente. Si sbraccia in direzione dell’amico: che rientri al più presto, ciò ch’è raccolto è raccolto. Ma quello non ne vuole sapere. Intontito dalla meraviglia in cui incappa ad ogni passo, ha completamente perso il senno. Addirittura risponde con boccacce e sberleffi ai richiami ormai disperati.

Il ragazzo non regge oltre la pesantezza del mare e la rigurgita per intero nel suo letto naturale, travolgendo l’amico incauto e tutti i tesori dei quali non potrà godere. 

Così si sono riattivati in un istante tutti i miei pensieri, che solo per poco tempo si erano fermati. Il loro calore si è auto-rigurgitato fuori. Non c’è stato tempo di portare a casa nulla, gli aggiustamenti d’idee e le rappezzature concettuali si sono rivelate minime.
Soltanto dopo, mettendo una mano in tasca, mi sono ritrovato fra le dita una conchiglia. Era bellissima, dalla forma incredibile. Ma perfettamente inutile. E intanto fuori, le cicale avevano ripreso a frinire. 


venerdì 3 luglio 2015

Le muse di Kika van per pensieri: Felice Carena (1879-1966)

"L'estate" ("L'amaca") (1933) - Felice Carena

L’afa incalza, ma l’arte non sobbalza. Per la nostra rubrichetta artistico-modiaola incrociata, Kika ha scelto oggi un pittore italiano, Felice Carena (Torino, 1879 - Venezia, 1966). In particolare, ci occuperemo dell’opera intitolata “L’estate” (1933).

Confesso che, come spesso capita ad ogni nuova puntata, non avevo mai sentito parlare di questo artista. Da una rapida ricerchina, ho scoperto che Felice Carena ha rappresentato una voce autorevole nel dibattito artistico italiano della prima metà del ‘900. Non mi avventuro in particolari dissertazioni critiche, visto il poco materiale documentativo a disposizione. Mi limito invece a qualche ragionamento personale, seguendo la guida di alcune opere di Felice Carena.

Osservando come si è evoluta la poetica di questo artista, mi sono venute in mente due modeste considerazioni possibili. La prima, riguarda il vasto “orizzonte formale” in cui si è mossa l’attività creativa di Carena. Nelle sue opere possiamo cogliere una personale rielaborazione di alcune fonti autorevolissime. A partire dal dipinto stesso oggetto della nostra puntata: è innegabile la parentela espressiva che possiamo riscontrare tra “L’estate” di Carena e le opere di un grande della pittura francese, Paul Gauguin. Addirittura, ovviamente con tutte le distinzioni del caso, “L’estate” sembra quasi un esplicito omaggio ad un celeberrimo dipinto gauguiniano, “Te tamari no atua” (La nascita di Cristo figlio di Dio) 1869.

Ma non è tutto: il lettore dall’occhio artistico più smaliziato avrà notato che nel dipinto “L’estate”, quella di Gauguin non è l’unica influenza ravvisabile. Se si fa un po’ mente locale al panorama della storia dell’arte tra fine ‘800 e inizio ‘900, si coglie una cosa alquanto curiosa: la signorina sull’amaca di Carena, con rispettivo scenario circostante, evocano una singolare fusione fra l’espressività di Gauguin e quella di Paul Cézanne. In particolare, di quest’ultimo grande maestro, Carena coglie la tendenza a geometrizzare i volumi (come possiamo intravedere nel modo di rendere le braccia e il capo del soggetto ritratto, oppure il boschetto cilindrico dal quale è circondata). D’altra parte, la passione cézanniana di Carena è riscontrabile anche in altre sue opere, come ad esempio in questo “Mosè salvato dalla acque”, del 1930, che può essere anche visto come un tributo a “Le grandi bagnanti” (1906). 
"Te tamari no atua" ("La nascita di Cristo figlio di Dio") (1869) - Paul Gauguin
"Mosè salvato dalle acque" (1930) - Felice Carena
"Le grandi bagnanti" (1906) - Paul Cézanne

Sarebbe tuttavia molto limitativo, circoscrivere il discorso su Carena a questa semplice analisi. Si tratta appunto di un’osservazione circoscritta o poco più, dettata dalla mia scarsa conoscenza dell’opera dell’artista. 

L’altra riflessione che volevo proporre in merito a Felice Carena, riguarda un fenomeno spesso presente nello “sviluppo espressivo” di tanti autori. Riassumerei questo fenomeno con una definizione un po’ “fatta in casa”, ma che spero renda l’idea (almeno quando ve l’avrò spiegata): la chiamerei “tendenza al dissolvimento estatico”. Il primo artista nel quale notai una simile tendenza, è niente meno che Donatello (1386-1466): se si confrontano le sue opere giovanili più celebri, come il San Giorgio (1408-1409) o anche lo stesso David (1440), con quel capolavoro “espressionistico” della maturità che è la Maddalena penitente (1455), si avrà una certa idea di cosa intendo dire. La certezze cristalline del giovane artista, cedono il passo al dubbio, alla riflessività, alla plurivocità dei significati potenziali. Tutto questo passa attraverso una destrutturazione della forma e all’affidarsi ad una visione materica molto più magmatica e inconclusa. 
"San Giorgio" (1408-1409) - Donatello
"David" (1440) - Donatello
"Maddalena penitente" (1455) - Donatello

Il discorso, trasportato sul caso di Felice Carena, si coglie benissimo in alcune sue opere della maturità, come “Giacobbe lotta con l'angelo” (1939), “Fuga in Egitto” (1940), “Carnevale in montagna” (1947), e anche nella “Deposizione” del 1938-39, qui con altre declinazioni, che richiamano in questo caso la poetica di El Greco (1541-1614) e certe sfumature del Manierismo italiano. In questi esempi si vede come le forme vengano frantumate, dilavate, distorte, piegate alla volontà espressiva dell’artista, sottoposte all’egida della sua interiorità.
 "Fuga in Egitto" (1940) - Felice Carena
"Giacobbe lotta con l'angelo" (1939) - Felice Carena
"Carnevale in montagna" (1947) - Felice Carena
"Deposizione" (1938-39) - Felice Carena
"Lacoonte" (1610-14) - El Greco

Questo è quanto mi sentivo di dire riguardo all’opera di Felice Carena. Passo dunque agli esiti della mia indagine fisiognomica di oggi. Metto subito le mani avanti e mi scuso col gentile pubblico, avvertendo che i risultati non sono stati molto lusinghieri. Più che altro, sono andato a finire su volti già utilizzati in passato, per altre indagini, a parte forse qualcuno. Sapete com’è, il caldo influisce anche sull’acume fisiognomico. Ad ogni modo, vi propongo i quattro volti scovati, più una postilla faceta finale.

Vai con il primo volto:


Questa è l’attrice italiana Lucrezia Lante Della Rovere: d’accordo, ci azzecca molto poco, ma qualche ombra di tratto comune mi è parso di coglierla.

Passiamo al secondo personaggio:


E’ ancora una volta la cantante canadese Alanis Morrisette: non so cosa farci se il suo volto capita spesso così abbastanza a fagiolo.

Terzo volto famoso:


Qui abbiamo un’altra cantante americana, Carly Simon, divenuta stra-famosa soprattutto per una sua bella canzone del 1988: “You’re so vain”.

A seguire, l’ultimo risultato “ufficiale” di oggi:



Questa è la presentatrice televisiva Caterina Balivo, nota soprattutto per la sua conduzione dei programmi di Rai2 “Detto fatto” e “Pomeriggio sul due”.

Chiudo con la somiglianza faceta:



La facezia sta nel fatto che si tratta di un uomo, come avrete arguito: è niente meno che il regista e attore Ron Howard, qui ritratto ancora ai tempi delle “felici giornate” trascorse nei panni di Richie Cunningham.

Si chiude così anche questa puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Ora, se volete scoprire le magie modaiole che Kika ci ha riservato, ispirandosi alla signorina sull’amaca di Felicen Carena, non dovete far altro che sintonizzarvi sul suo blog, “Le muse di Kika”.