martedì 31 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 65 - "Datti una regolata"

"Un pensiero al giorno"

65 - "Datti una regolata"

Molte delle cose che scrivo hanno un sottofondo comune. Sia volontariamente, sia talvolta su un piano inconscio, nelle mie parole si celano spesso piccoli inni al "non misurabile".

Questa nostra epoca, "misurante" per eccellenza, sembra scordare sempre più un aspetto essenziale della realtà: una volta misurate le cose, siamo soltanto a metà della nostra naturale propensione a entrare in sintonia con esse.

Gli aspetti "non quantificabili" hanno una parte immensa nel determinare senso all'esistenza, eppure la tendenza generale va tutta nel senso del misurare come unica dimensione di riferimento.

Nella nostra giornata, abbiamo bisogno dei frutti della precisione misuratrice, ci servono strumenti, attrezzi, automobili, l'idea di denaro (e anche un po' del medesimo, spicciolo, nelle tasche) treni, case, edifici vari e così via. Ma poi queste cose diventano quasi un dettaglio, se magari soffriamo o gioiamo per amore, se gli altri ci deludono o ci gratificano, se il nostro animo si sente calato nella bellezza di una giornata di sole o anche di pioggia, a seconda dei gusti.

Il più gran promemoria della natura dell'uomo, inquantificabile fino in fondo, è dato dal linguaggio. Nel tempo, è stato tentato più volte e in diverse forme di rendere il linguaggio uno "strumento di precisione". Ad esempio, si è provato con la sua riduzione a strumento logico puro, ipotizzando un uso della lingua matematicizzato e del tutto privo di "scarti di senso". Per quanto queste ricerche abbiano fatto fare progressi fondamentali al pensiero, non sono tuttavia mai riuscite a domare il linguaggio fin nel suo intimo, laddove la sua natura fondamentale di forgiatore continuo di "significazione residuale" finisce sempre per emergere. In altre parole, la sua parte non misurabile.

Leggevo su un bel libro di Umberto Galimberti, "Il gioco delle opinioni", tante cose interessanti connesse a simili riflessioni. In particolare, lo studio del linguaggio da parte di Martin Heidegger (ermeneutica) e mi scuso se semplifico molto per ragioni di spazio.

Vari esempi interessanti, nell'etimo delle parole. "Concetto" come derivato di "cum capere", ossia "prendere", "afferrare", la dice lunga sulle modalità del pensiero occidentale inteso come appropriazione delle cose pensate. Dove invece Heidegger suggerisce una forma "meno possessiva" di pensiero, un suo maggior "lasciar essere", rinvenibile nella duplice accezione del termine tedesco corrispettivo, "denken" ("pensiero"), imparentato molto da vicino con il suo consimile "danken", che significa ringraziamento. Pensare come ringraziare, dunque, in un atteggiamento che risalta "l'ascolto dell'essere" e non l'appropriazione concettuale pura, come di fronte a una conquista da fare.

Ma poi, altri esempi belli, tipo "entusiasmo", con le sue basi nel greco "en-theos", indicante la divinità ("theos") che ci abita nei momenti (sommamente inquantificabili) del trasporto entusiastico. Oppure ancora, quando diciamo "magari", a corredo di un nostro desiderio, e non facciamo caso che anche qui c'è di mezzo la lontana radice greca, col termine "makaria", ossia "gioia", "felicità".

Insomma, non so più cosa volevo dire, eppure son contento di avervelo detto lo stesso, in un qualche modo. Chiudo riportando solo un altro simpatico esempio, seppur privo di fondamento etimologico, ma nondimeno ricco di poetica sfumatura.

Ho scoperto l'esistenza di un uccellino meraviglioso. La cosa buffa è che si chiama come lo strumento di misurazione per eccellenza, ma la sua bellezza sta tutta nel regno della non quantificabilità pura.

Si chiama regolo. Pare sia il pennuto più piccino d'Europa. Misura due piume e uno sputo, è una palletta di simpatia, e ha sulla minuscola capoccetta uno sbuffo di piume gialle così simile a una corona, da fargli guadagnare il suo nome, che sta infatti per "piccolo re" ("regulus").

Le immagini ovviamente non sono mie, ma se un giorno riuscirò mai a vederlo dal vero e magari (makaria) a fotografarlo, il mio entusiasmo (en-theos) non avrà paragoni. Nel frattempo, mi limito a pensare (denken) questo minuscolo "non misuratore", e lo ringrazio (danken) idealmente fin da ora per la sua incommensurabile poesia.



lunedì 30 maggio 2016

“Wasting time” - 5

“Wasting time” - 5

Pioggia di maggio 
fa grasso il foraggio.
Marcita di cuori
compostaggio d'amori.
Siamo dentro la ruota,
ma è saperlo che svuota.
Lasciare, correre, rotolare
non rincorrere
non frenare.
Semplicemente
vibrare.
Come l'ape,
misurare cosa vali
fra gli istanti esagonali.
Nulla è di scarto
per dar frutti nell'orto
e persino la noia
è concime di gioia.


domenica 29 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 64 - "Escape from Algattaz"

"Un pensiero al giorno"

64 - "Escape from Algattaz"

Nei posti in cui vado, se ho la possibilità di fare osservazioni feline, sono già contento. Dove c'è un micio da contemplare, la delizia degli occhi e dello spirito è garantita.

Un mio amico ha compiuto gli anni e ci ha chiamato per una festina. A felinizzare l'atmosfera ci ha pensato il miciotto di casa, un certosino grassottino il giusto nel fisico e felpatissimo nell'animo.

In ogni micio si nasconde un serioso buffoncello. La festa si è svolta nell'accezione più placida: gambe sotto al tavolo e chiacchierata mangereccia. A fare da morbido contorno impellicciato, le mini prodezze del micio. Per modo di dire: ogni gatto, per mostrarsi eccezionale, non deve far altro che essere normale, svolgere con scrupolo il suo mestiere di gatto come se nulla fosse, e niente altro.

In paese, di solito un gatto ha libera uscita, è molto difficile tenerlo sempre dentro. In un caso o nell'altro, bisogna fare una scelta. O custodirlo attentamente nella sicurezza, ma anche col sacrificio di libertà che comporta, o rischiare, assecondando il suo spirito girovago naturale.

Il micio del mio amico vive l'inusuale condizione di campagnolo a domesticità coatta. Per lui hanno deciso così, non entro nel merito della scelta. Di fatto però si vede che la casa gli va un po' stretta, come una prigione dorata. La situazione si riflette sul suo carattere, un po' da birbante psico-irrequieto.

In quella casa è trattato da pascià, ma la mente gattesca macchina ogni minuto rocamboleschi piani di evasioni celebri. Essendo una casa di stampo tradizionale, molto ben curata ma già coi suoi annetti sulle tegole, l'ingresso principale e quello sul retro sono muniti di antiporta. Il piccolo spazio di interregno tra dentro e fuori è l'habitat naturale di questo perenne aspirante fuggitivo conte di Montemicio.

La situazione dà adito a piccoli buffi interludi, velati da un sottofondo di malinconia, perché a vederlo, si tifa con moto spontaneo per la sua eventuale libertà finalmente conquistata, ma al tempo stesso si sa che per lui è meglio così.

Per sfoderare la prima clamorosa strategia di fuga, ha dato subito il meglio del suo virtuosismo attoriale: a pancia all'aria, con i cosciotti certosini spalancati, si è prodotto in una delle pose più plastiche che mai fantasia felina abbia escogitato. Sicuramente pensando: "...Se non si inteneriscono così...e quando mai mi faranno uscire, se no?...".

La tecnica, chissà quante volte messa in atto, non dà nessun frutto, ma lui non demorde mai dall'applicarla. Poi, forse per distrarsi e scordare per qualche attimo le ossessioni evasive, si è avventurato in mini incursioni fra le gambe dei convitati. Molto piacevole, ogni tanto, veder spuntare da sotto la tovaglia una codina scura e ritta di vispezza, come la simpatica pinna di uno squaletto peloso a caccia di carezze dalle tante mani che non potevano resistere dall'elargirle.

E poi via di nuovo a pattugliare l'antiporta, ispezionando l'andirivieni degli ospiti, ma non riuscendo mai a infilare uno spiraglio utile che sia uno ("...proprio in una casa in cui s'ignora il concetto di "porta aperta" dovevo capitare?!?!?!...").

Intanto a tavola l'attenzione si sposta sulle chiacchiere e sui deliziosi dolcetti e salatini assortiti. Ma un certosino in fuga non è il tipo da abbandonare il palcoscenico troppo in fretta. E infatti poco dopo, dalla mia postazione con perfetta visuale sulla porta, gli ho visto fare più volte uno dei gesti gattevoli più disperatamente teneri e simpatici di sempre. Impennato sul "retromicio" come avesse conquistato la posizione eretta da micio sapiens, con le zampette davanti assestava eloquenti pedalate contro lo stipite, imbastendo un misto tra un velleitario tentativo di perforare il legno e una iper-energetica posa in preghiera dinamica: "...vi prego, vi prego, vi prego, là fuori ci sono mille uccellini, topi, anfratti fra i muri da esplorare, prati, tronchi per farsi le unghie, rami da scalare!!!...".

La nuova mossa non otteneva altro che delicati rimproveri da parte dei padroni di casa, fino al rinnovarsi di un altro momentaneo occultamente del nostro eroe, aspirante fuggitivo. Per un po' non si hanno sue notizie, a tavola si è troppo impegnati a darci giù di ganasce per lasciarsi distrarre, ma passa poco tempo che dallo spazio fra porta e "anti", proviene un giocoso tramestio "cartonato". Ovviamente era sempre lui, l'amichetto Gattilion, che si sfogava almeno un po' con una scatola, assumendola quasi a emblema della sua prigionia di bambagia.

Ma prima che la festa finisse, e lui venisse invitato a "confinarsi" nei suoi appartamenti notturni per il meritato sonno, almeno una piccola soddisfazione de-coubertiniana il caro certosino l'ha avuta.

Slalomeggiando fra il filosofico e il fisiologico, s'è cavato il gusto di praticare una raffinata vendetta platonica, a risarcimento dell'incomprensibile suo stato di recluso a cinque stelle: una bella pisciata su una carta caduta a terra e che aveva avvolto chissà quale delle leccornie che stavamo gustando: "...eccheccasp!!!...se proprio devo stare ai domiciliari, voglio anche l'obbligo della firma!!!...".


sabato 28 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 63 - "Letterina a Babbo Banale"

"Un pensiero al giorno"

63 - "Letterina a Babbo Banale"

Se avessi la bacchetta magica, darei un colpetto in aria e subito dopo, in tutto il mondo, la gente saprebbe il senso di ogni cosa che fa. O meglio, non proprio di tutto "tutto".

Però di certo saprebbe perché fa il mestiere che fa, e lo scopo di quel mestiere. Saprebbe che se sposta un mattone, martella un chiodo, scrive una lettera, parla a un uditorio di ragazzi, ciascuno di questi gesti è essenziale, significativo, indispensabile, e avrà conseguenze buone sulla vita degli altri.
Saprebbe quando è il caso di fare una cosa, e quando il caso di non farla.

Saprebbe come scegliere di fronte a diverse alternative, valutando una strada e l'altra. Saprebbe insomma orientarsi bene in tutte le questioni, più o meno grandi, legate all'esistenza spicciola, alla pura economia del vivere. Lo saprebbe e farebbe naturalmente le cose nel verso giusto, perché tutto funzioni bene.

In questo modo, rimarrebbero spazi immensi per tutto il resto che è meglio rimanga non saputo. Perché ci si innamora di quella donna o di quell'uomo: questo continueremmo a non volerlo sapere. Se e forse, o perché, la vita ha un senso: per questo ci sarebbe un referendum, ma credo che vincerebbe il voto di chi vuol continuare a non saperlo proprio con chiarezza assoluta.

Perché ci piacciono i gatti oppure i cani, o tutti e due: anche questo preferiremmo rimanesse vago e poetico, per non perdere la magia di carezzarli o ammirarli con tanto gusto e rapimento dell'animo.
Perché ci sono più sfumature di cielo nel profumo della nuca della proprio amata, che parole in un'intera enciclopedia: questo sarebbe persino vietato dalla legge anche solo pensare di volerlo eventualmente sapere.

La gente, dopo il mio colpo di bacchetta insomma, saprebbe il senso di ciò che è noioso, per poter avere a disposizione poi il resto di sé, da dedicare alle cose aperte in una prospettiva artistica sul mondo.

Allora gli uomini sarebbero liberi e la poesia diverrebbe la loro lingua universale e nessuno si stupirebbe se, incontrando per caso sotto casa uno sconosciuto, questi gli chiedesse: "...Azeburgiasti il conformamento plastico nella simulata fienagione mistica?...".
Con la massima coerenza, non gli resterebbe altro che rispondere, : "...Sevviola!...".


venerdì 27 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 62 - "Se manca il contatto"

"Un pensiero al giorno"

62 - "Se manca il contatto"

Dentro ciascuno c'è l'infinito, ma non sempre trova la strada per uscire allo scoperto e divenire visibile. Tanti sono gli artisti che hanno visto riconosciuti i loro meriti solamente in tarda età, oppure addirittura quando non c'erano più.

Ma chissà quante persone hanno dentro di sé potenziali di bellezza sconfinati, eppure non riusciranno mai a portarli fuori, a trovare il mezzo giusto per renderli condivisibili con gli altri.

Vedevo alla tele un documentario sulla vita di René Magritte. Pare che da ragazzo avesse un carattere irrequieto, per un certo periodo capeggiava persino una piccola banda di teppistelli di quartiere. Sempre nell'adolescenza, dovette vivere il dramma del suicidio della madre.

Una vita inaugurata da un simile incipit poteva andare a parare dappertutto. Invece ha incontrato la pittura e in essa ha potuto convogliare tutto il tesoro interiore accumulato. Ha trovata la chiave espressiva per distillare dolore, inquietudini, mistero dell'esistenza, insieme a un'insaziabile fantasia (Magritte amava tantissimo il cinema e il multiforme protagonista dei romanzi di Fantomâs), rielaborando tutto ciò in un passe-partout poetico in grado di accedere alle menti e ai cuori degli uomini.

Considerazioni simili si potrebbero fare riguardo a qualsiasi artista, immagino. Ma nel caso di Magritte, mi sembrano ancor più significative, proprio per come la sua poetica è poi maturata.

Insieme a De Chirico, Dalì, Edward Hopper, e prima ancora a El Greco, a Parmigianino, a Cosmè Tura, Magritte ci ha raccontato il mistero nell'evidenza delle cose.

Loro hanno trovato un punto di contatto fra l'infinito interiore e l'infinito del mondo, sviluppando una grande maestria espressiva, però ci hanno dimostrato che l'infinito è accessibile a chiunque, sta dappertutto, in una noce o in un battito di ciglia.

Ma soprattutto, intorno a questi piccoli infiniti familiari, ciascuno può dire qualcosa, e attraverso essi, sintonizzandosi armonicamente con loro, può sentirsi più vicino anche alle altre persone. Perché un mistero condiviso, pur rimanendo tale, affratella gli sguardi di chi lo contempla.


giovedì 26 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 61 - "Le nutrie, se possono appena, scrivono"

"Un pensiero al giorno"

61 - "Le nutrie, se possono appena, scrivono"

Non avendo stavolta una storiella particolare da raccontare, scrivo un po' a riguardo dello scrivere.
Scrivere è un'attività che ti svuota e ti colma al tempo stesso. Puoi scrivere con un certo grado di qualità, solo una quantità limitata di righe al giorno. Oltre quel limite, diventa forzatura, sofferenza, della quale risente poi anche il lettore.

Devi scavare dentro te stesso, quando scrivi. Devi sacrificare un po' del tuo intimo, portarlo alla luce. Questo può essere faticoso e liberatorio ad un tempo. Ma come dicevo, va fatto per gradi, perché anche la più ricca miniera può dare solo poco materiale pregiato al giorno e il resto sono scorie di terreno da setacciare e lasciare in disparte.

Ho l'impressione di avere questa particolare passione per lo scrivere, perché il parlare, un po' mi è sempre riuscito male, un po' lo trovo insoddisfacente.

Il parlare, per quanto ricco di un suo fascino imprescindibile, sembra sempre a un passo dallo scopo, sempre in affanno per raggiungerlo. Lo scrivere ha invece il tempismo misurato del gatto: sa quando si deve scattare o stare fermi sulla soglia, stiracchiarsi o dormire. Come un gatto, lo scrivere riesce a dire anche mentre è intento a dormire.

Scrivo di preferenza, ma se proprio devo parlare, mi piacciono di più i dialoghi, gli scambi verbali a due, che sono come un modo di scrivere a voce. La scrittura stessa è un dialogo dello scrivente con un se stesso ideale assunto come interlocutore.

Scrivo dunque perché poi immagino il mio testo arrivare a ciascun lettore come un potenziale dialogo riservato, e non importa se saranno dieci o due o nessuno: con ognuno di loro avrò dialogato in separata sede, con i modi dettati dalle differenti sensibilità di reagire. E tutto questo è una piccola magia.

Scrivo perché non sempre ho la forza di stare vicino agli altri, anche se ne sento fortemente il bisogno. Scrivere è un potente modo di stare vicini, mantenendosi a distanza. Scrivo perché adoro dire cose agli altri, ma adoro altrettanto stare in silenzio: scrivendo, parli e taci insieme, e anche questo lo trovo fantastico.

Scrivo perché credo che regali sensazioni mille volte più forti di qualsiasi droga (anche se, in fatto di ebbrezza, se la gioca alla pari con un bel giro in sella a un trattorino tosaerba...).


mercoledì 25 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 60 - "Je suis monsieur merlot"

"Un pensiero al giorno"

60 - "Je suis monsieur merlot"

Al mio piccolo repertorio da bird-watcher di uccellini proletari, si aggiunge un nuovo simpatico amico: il merlo.

Era un po' che cercavo di cogliere in foto questo nero zompettatore. Non che mi siano riusciti scatti da National Geographic, ma per le mie pretese modeste, sono soddisfatto.

Come tanti uccellini, il merlo non è un soggetto semplice. È molto scattoso e sospettoso, fa corsette, giravolte, piccoli voli improvvisi, saltella a destra e a manca, dove ha visto un vermetto su cui piombare. È un canterino come pochi, gioviale e festaiolo, a dispetto della giacchetta scura che indossa sempre.

Sono contento in particolare di uno di questi fotogrammi, in cui si vede bene l'elegante coda dell'amico merlo in bella mostra, nella sua "maggiordomica" e binata terminazione. Ecco, se dovessimo trovare un'immagine corrispettiva nel mondo degli umani, potremmo proprio dire che il merlo è il maggiordomo fra gli uccellini.

Ma del domestico di gran casato ha solo l'aspetto e il modo di "vestire", perché in fatto di vivacità e frizzantezza non ha da invidiare nulla a nessun pennuto.

La simpatia e popolarità del merlo si misurano anche per quanto è penetrato nel linguaggio. Merli sono detti gli elementi architettonici posti a guarnire le sommità delle mura dei castelli. Il merletto è invece una particolare lavorazione di filati per ottenere una trama di tessuto molto elaborata nel disegno.

Pensavo che i merli dei castelli fossero detti così per somiglianza con la coda del nostro, ma ho letto poi che la parola viene anche seguita dalla specificazione "a coda di rondine". A questo punto, mi arrendo al garbuglio etimo-ornitologico e prendo per buono il fatto che, ogni volta che si chiama in causa la parola merlo, si parla di qualcosa di aggraziato e bello.

Mi sono guardato anche come si dice nelle altre lingue. In inglese lo so, perché è il titolo di una bellissima canzone dei Beatles: "Blackbird", "Uccello nero", molto semplice, ma non priva di fascino come parola.

Facendo un po' di fanta-vocabolarismo goliardico, mi sarei aspettato poi che in francese si dicesse "Merlot". Ma quello è il vino (sempre buono in ogni caso), mentre l'uccellino nero d'oltralpe si chiama Crèneau. In tedesco si dice Amsel, invece in spagnolo Mirlo.

Una piega alquanto ingenerosa del linguaggio in cui il merlo è incappato, si ha laddove col suo nome si vuole indicare una persona un po' credulona e sprovveduta. Questo uso della parola non lo accetto molto, perché non rende giustizia alla sveltezza e alla vivacità del caro amico piuma nera. Al limite, mi sento di concedere dignità solo alla versione del termine nel mio dialetto: quando ti senti dare del "mèrul", puoi quasi andare fiero della tua gonza condizione.

Infine, mi permetto di concludere con una nota dalle sfumature rozze e popolaresche. Tra le mille varianti appellative ornitologiche con le quali è stato allegorizzato nei secoli il membro virile, mi sento di poter dire che la più pittoresca e gradevole e proprio quella che individua la suddetta parte anatomica col nome di merlo. Ogni maschio dovrebbe provare un senso di fiera allegria, al pensiero di avere un merlo fra le gambe.

Tante sfumature linguistiche, insomma, per un solo, spiumettevole amico dalla inconfondibile simpatia: il merlo.




martedì 24 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 59 - "Piccoli bibliomorfismi comodi"

"Un pensiero al giorno"

59 - "Piccoli bibliomorfismi comodi"

L'omino dei due comodini abitava da solo, in fondo a Viale dei Pini. A suo tempo aveva vissuto anche piccoli amori sopraffini, ma adesso gli erano rimasti solo due comodini.

Ci dormiva nel mezzo e senza spostarsi, a distanza di un braccio, poteva afferrare di qua o di là un bel libraccio.

Sui comodini in alte pile lievitavano libri, che aiutavano l'omino a preparare lunghi sonni di bellezza ebbri.

Parevano alberi, quelle pile, che al posto di foglie cacciassero fuori fogli, pagine invece di pigne, fruscii per frutti, e copertine dove son di cortecce coperti.

Certe sere ne leggeva uno dietro l'altro, l'omino, e gli pareva allora che una linfa unica scorresse lungo i tronchi di pagine e poi dai libri a tutto il suo corpo di omino.

Le dita stesse si facevano fogli e sui rami delle braccia, idee sbocciavano in mille germogli. Vegetare non era mai stato gesto tanto nobiliare.

Fino al giorno in cui l'omino stesso si mutò in una pianta di libri. Una pianta coricata, fra le due piante sui comodini. Degli amici, passando per caso da lui in visita di cortesia, trovarono l'omino tutt'intriso di nuova e smagliante arboricola poesia.

Insieme scoprirono che anche così l'omino si poteva alzare, il suo inedito stato di albero libresco non gli impediva di muoversi com'era uso fare.

Solo che adesso, per sapere una sua opinione, bisognava sfogliare una pagina a caso dei libri di cui era formato, e leggere tutto d'un fiato.

Cambiarono anche i posti frequentati dagli amici in compagnia: per bere una cosa ora si andava in libreria.

Ma potevano divertirsi ancora in discoteca, perché l'omino "librefatto" danzava con una grazia mai vista e affascinava tutte le ragazze solamente aprendosi su una sua pagina di particolare profondità e lasciandosi leggere in tutta serenità.

Dell'omino s'innamorò Bellatrice, prorompente libresca sua ammiratrice, tette sode, chiappa verace, sorriso arcobaleno e grande lettrice.

L'omino ardì d'invitarla a casa sua, a legger due pagine di fino, e insieme finirono distesi fra l'un e l'altro comodino.

Lo spazio era stretto, giusto giusto per uno, ma mai Bellatrice sentì così intensa la mancanza di nessuno. Sfogliava in lungo e in largo il caro suo omino, ne leggeva ogni pagina, lo annusava in ogni prologo persino.

Dal canto suo, si lasciava leggere di gran gusto lo sfogliabile omino e gioiva di dentro, fra le sue copertine. Che dove pensava ormai esserci posto soltanto per uno, là in fondo alla strada di Viale dei Pini, era sbocciata una Bellatrice, proprio fra i comodini.


lunedì 23 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 58 - "Grippaggi narrativi"

"Un pensiero al giorno"

58 - "Grippaggi narrativi"

La narratologia è un'interessante disciplina che si occupa di approfondire il perché e il percome si raccontano storie. Per dirla in modo più ortodosso: studia le strutture della narrazione.

Quando leggiamo un romanzo o un racconto, non ci riflettiamo molto, anzi, forse non ci riflettiamo affatto, ma c'è sempre un "punto di osservazione" a partire dal quale la voce narrante ci espone la sua sequela dei fatti raccontati.

Nella maggior parte dei casi si tratta di un "narratore omnisciente". Chi racconta sa tutto delle vicende in questione, a nostro beneficio. Sa cosa pensano i personaggi, sa ogni cosa del loro passato, sa cose dell'uno non note all'altro e viceversa, sa delle loro emozioni e sensazioni reciproche, anche quando tali dinamiche si dipanano all'insaputa vicendevole dei protagonisti stessi.

Si tratta di una posizione alquanto irrealistica e in un certo senso "superumana", al di là delle possibilità di una persona comune, ma la accettiamo come ingrediente indispensabile e corroborante dell'efficacia narrativa.

Riguardo a tale questione, mi sono accorto che "mutazioni genetiche" molto bizzarre sono state introdotte dai modi di raccontare connessi grosso modo ai cosiddetti "reality show".

Il programma tv a cui mi riferisco tratta di restauri di vecchie automobili. Da spettatore, l'ho sempre recepito con lo "spirito del resoconto di cronaca", nel senso che tutti i protagonisti coinvolti li intendevo come consapevoli del fatto di essere filmati e a conoscenza di tutto ciò che accade e di ogni cosa filmata. E invece, la cosa si è stranamente "sparigliata" in un recente episodio che ho visto.

Ci sono due personaggi principali, che si procurano l'auto da rimettere a nuovo e rivendere alla fine, e dirigono i lavori. Poi c'è una serie di meccanici e tecnici collaboratori. In una scena, sono presenti in officina solo uno dei due capi (quello più burbero) e la squadra di meccanici. Questi fanno un guaio cercando di avviare il motore, che scoppietta, sputa fumo biancastro e poi si spegne malamente. Il capo presente va su tutte le furie, offende il meccanico più esperto del gruppo, che per tutta risposta abbandona l'officina, giurando di non volerne più sapere.

Nel continuo del racconto, torna in scena l'altro capo (più ragionevole e diplomatico). Ha già saputo l'accaduto dai meccanici e si fa spiegare poi dall'irascibile cosa sia successo. Quest'ultimo (l'incazzoso) dà una versione un po' parziale dei fatti, al che l'altro (il mite) commenta: "...non so, io non c'ero e non posso sapere come sono andate le cose..." e aggiunge poi possibili soluzioni per rappacificare gli animi e uscire dall'impasse.

È a questo punto che ho sentito risuonare la stonatura narratologica.

Ma come? Non sai con sono andati i fatti? Ma se è tutto filmato e documentato da due o tre telecamere? Non potevi riguardarti le riprese per sapere per filo e per segno ogni screzio, sbraitata e reazione sguaiata?

Come spettatore mi sono sentito un po' spiazzato. Cosa devo fare, adesso, per le prossime puntate? Devo dare per assunto che i protagonisti sanno solo ciò che accade loro in prima persona, e "devono" ignorare il resto delle vicende, seppur filmate? Ma in questo modo, la cosa non risulta un po' controproducente ai fini dello scopo del programma, ossia lavorare tutti al meglio per rivendere alla fine l'auto restaurata? Non introduce un "aggravio" di ridicolo, tutto ciò?

Devo quindi concludere che in questo modo siamo passati dal narratore onnisciente, allo spettatore onni-coglionato?


domenica 22 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 57 - "Son non-poeta"

"Un pensiero al giorno"

57 - "Son non-poeta"

Che emozione che è andare a
capo.
Scriver forbito, far rima
con dito, giocare, allitterare,
su un prato di dittonghi
serpenteggiare.

Non la puoi tenere,
se ti scappa di poetare.
Io poeto, tu poeti,
egli, un po', eta?
Noi poeti amo, 
voi poeti ate?

Scrivere su un muro
"uno stormo di culi
in volo all'ombra di tre soli" e
avere ragione.

Nel recinto dei muli
t'ho donato quattro mele.
T'innamorasti del mio pollice
e con lui fuggisti a Cadice.

Con l'autostop ti avrei
inseguito
ma era con te il mio miglior
dito.
Provai allora col medio,
non fu un colpo di genio.
Un camionista con cento tic
m'avrebbe usato come crick.

E poi dire "salsa di salsedine su
simulazione di salsicce soffritte
sopra sassaiole di assessori" e
avere ancora ragione.

Se io ho ragione, è 
perché tu non hai torto:
mangiamo insieme una
fetta di torta?

L'ha preparata nonna Pera Pà
ma l'ha fatta con le mele là,
sempre quelle quattro.
Un'occhiata corre all'orizzonte
lo stormo di culi ancora di fronte.

Vibra il monopattino
alle nostre spinte bipedi.
...Spint'erogene...
...
Pacciamatura!


sabato 21 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 56 - "La forma fra le forme"

"Un pensiero al giorno"

56 - "La forma fra le forme"

Raccontavo qualche tempo fa dell'emozione nello scattare una foto. Quel piccolo "fremito epifanico" da cui si viene colti, quando una sagoma significativa si isola nel fuoco della nostra attenzione e si sente il conseguente desiderio di fermare quasi la sensazione stessa in un fotogramma. Una cosa simile può succedere anche con le forme tangibili, non solo con quelle visibili.

Quando tali forme poi sono donate da un'entità che è stata viva e in qualche modo continuerà a vivere attraverso la nostra scoperta, il senso del meraviglioso si moltiplica.

Così è stato coi resti del glorioso ciliegione. Nello sminuzzare, "segheggiare" e compattare la mole dei rami che ne sono derivati, stavo attaccando con la lama del seghetto l'ennesimo ceppo, quando, reggendolo in mano per alcuni secondi e rigirandolo con diverse angolazioni, la forma in esso già contenuta mi ha praticamente urlato di voler essere estratta.

Era una sorta di forcella a sezioni variabili, ma al mio occhio rapito è subito apparsa come la "promessa" di un martelletto pittoresco, una clava primordiale, la scure di un qualche nobile guerriero vegetale.

Io non ho dovuto fare altro che tagliare nei punti giusti, rispettando le adatte misure del "manico" e della "testa", e l'oggetto si è lasciato liberare in tutto il suo fulgore suggestivo.

Per il momento ho solo parzialmente modellato questo legnetto, ancora fradicio di linfa. Il "proseguimento interpretativo" dipenderà molto anche da come si asciugherà. Ma già la soddisfazione estetica è notevole. Quasi superfluo specificare infatti che rimarrà un oggetto assolutamente "non utile", di pura contemplazione.

La contemplazione formale sarà l'unico scopo a cui verrà adibito. A seconda del gradimento dell'osservatore, potrà essere anche un buffo cornetto da richiamo col suo strano apposito manico; uno strumento musicale a fiato di nuova concezione, il ciliegiofono.

Oppure, accompagnerà l'immaginazione sulle ali della fantasia filmica, evocando le scene iniziali del 2001 kubrickiano, come fosse una fra le possibile sagome osseo-lignee con le quali gli scimmioni antenati si presero a mazzate di santa ragione.

Ora, spero solo che asciugando non crepi o non secchi eccessivamente. Perché ci sarà da divertirsi con lima e carta vetrata a inseguire ancora un po' i suggerimenti morfologici che avrà da regalarmi.




venerdì 20 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 55 - "Grati di respirare gratis"

"Un pensiero al giorno"

55 - "Grati di respirare gratis"

Sarò invecchiato io, a scoprire adesso certe fonti di acqua calda, non discuto. Ma si ha sempre più l'impressione che tutto venga misurato in senso esclusivo col metro del denaro. Niente sembra sfuggire alla quantificazione pecuniaria.

Per fortuna non è proprio del tutto così, ma un'impressione spesso opprime tanto quanto il fatto reale, se non di più.

Non si sa mai bene quando un'epoca ha inizio. Nella mia percezione credo che le cose siano precipitate quando le elementari non si sono più chiamate così, e nemmeno le medie o le superiori, ma erano diventate scuola primaria, secondaria, ecc. Stava arrivando la "scuola-azienda", succursale di un auspicato "stato-azienda", a sua volta lanciato a sottintendere il futuribile avvento prossimo di una globale "realtà-azienda".

L'uomo-azienda ambirà a contrarre un matrimonio-azienda con una mogliettina-azienda. Dopo qualche sollazzo-azienda assaporato a copulare in svariate posizioni-aziendali, ne conseguirà una gravidanza-azienda, con la lieta nascita di un frugoletto-azienda, già bell'e pronto per fare fin da subito la sua parte di efficiente mini-consumatore e produttore di laute cacche-azienda dentro al suo pannolino-azienda di marca.

In questo panorama-azienda, una delle ultime cose gratuite rimaste, sembra essere il respiro. Assediati di continuo da gente che ti vuole vendere qualcosa a tutti i costi, ci si salva solo rifugiandosi in qualche attimo di sano respiro.

Respirare è una facoltà troppo trascurata. Con la scusa che funziona in automatico, non ci facciamo molto caso e la diamo per scontata. Ma mettersi lì qualche momento e respirare, facendo attenzione alla cosa, dando il benvenuto all'aria in noi e salutandola con gratitudine quando si congeda carezzandoci i peletti del naso, è un'esperienza degna di nota.

Non mi voglio atteggiare a esperto di yoga o pratiche meditative orientali. So pochissimo di queste cose, purtroppo. Parlo molto semplicemente da appassionato del respiro, impegnato nel suo tentativo di difendersi dal fiato-azienda sul collo.

Il respiro è la vita che scorre in noi, una dimostrazione del fatto che non possediamo nulla per davvero, ma siamo solamente un tramite del Tutto. Respirando accogliamo il mondo per un attimo in noi, poi lo reimmettiamo fuori subito dopo, e così via, in un continuo fare all'amore con la realtà.

Nella saggezza antica, il concetto di respiro è fondamentale, considerato sia in senso individuale (inspirazione) dia in senso cosmico (espirazione). Nel duplice moto respiratorio, l'uomo si "individua" e si "disindividua" in continuazione. La stessa parola "psiche", per i greci, era in origine connessa all'atto di respirare, ancor prima di assumere il significato di "anima" (concetto del tutto ignoto ad esempio ai più arcaici eroi di Omero).

Non c'è forse gesto più intimo fra due amanti che lo scambio dei propri respiri, componente irrinunciabile dei baci. Il respiro reca poi spesso con sé il dono aggiuntivo di profumi e odori, motivo in più a renderlo attività nobile e appassionante.

Il respiro è più bello se ci fai caso. Non per niente, lo raccomandano anche gli stessi praticanti yoga: ascoltare, fare attenzione al respiro. D'altra parte è una cosa che si capisce senza tante spiegazioni. Se respiri consapevole del fatto che lo stai facendo, è molto più bello. In una mia piccola aggiunta personale, ho scoperto che intensifica la bellezza, tenere le narici dolcemente dilatate. L'aria entra e esce più piena, saporosa, totalizzante.

Insomma, fino a che ce lo lasciano fare gratis, approfittiamone, amici: continuiamo a respirare e a raccontarci quanto sia bello sentire il cosmo farsi fiato.

In futuro, ci sarà sempre tempo per altri tipi di fiati, ben più grevi. Ma di questo riparleremo solo dopo la venuta dell'era della scoreggia-azienda.


giovedì 19 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 54 - "Nel sedere delle case"

"Un pensiero al giorno"

54 - "Nel sedere delle case"

Pochi luoghi al mondo, per me, sono metafisici come i "retro-casa". Quasi mistici, direi. Il "retro-casa" altro non è che il sedere degli edifici. Ognuno ha un sedere, è una parte del corpo a suo modo densa di fascino, mistero e contraddizione.

Il sedere "si siede", ci sagoma ed è componente formale dinamica molto importante delle nostre movenze. Oltre a ciò, il sedere svolge incarichi fisici di bassa lega (non c'è bisogno che ve li enumeri, il sedere stesso ci fa da promemoria quotidiano al proposito), eppure reca con sé anche una notevole carica erotica. Il sedere è allo stesso tempo estremamente fisico e filosofico, ci tiene in continua connessione con la nostra essenza terragna.

In sostanza, il sedere ce l'ha persino chi non lo vuole. Anche chi preferirebbe non venire chiamato in causa da una certa corporalità grezza (ma che grezza non è, se vista coi giusti occhi) si deve rassegnare: proprio in fondo alla schiena, appena sopra le cosce, ha il sedere.

Allo stesso modo, le case non possono fare a meno di un loro sedere. Immaginiamo un edificio cubico, con tutte le facce perfettamente identiche fra loro. Si potrebbe esser tentati di dire che una simile costruzione non abbia un sedere. Invece no, anche quella ne ha uno.

Ogni casa è inserita nel gioco ambientale dell'alternanza giorno-notte, in primo luogo, e nella danza stagionale poi, in senso più ampio. Per cui, anche volendosi mostrare rigorosamente soltanto di faccia, diventa inevitabile (per mantenersi fedeli alla metafora) che le si scopra alla fine anche il culo, che poi è la sua parte rivolta verso la "notte", verso settentrione.

Dato che gli edifici ordinari (magari anche gradevoli e del tutto dignitosi, ma pur sempre concepiti con criteri alquanto codificati) presentano un davanti e un didietro, il "retro-casa" col quale abbiamo più familiarità sta di solito piazzato a nord anche nel disegno del manufatto.

Per questo il "retro-casa" è sempre un po' umidiccio, muscoso, umbratile (da qui in avanti, la metafora va preterintenzionalmente oltre i suoi scopi allegorici, ma noi prendiamo sempre per buona ogni significanza ulteriore che ci vorrà regalare).

Il "retro-casa" non si vede dalla strada principale, di solito. Per cui, può anche capitare che si passi davanti a una casa per anni, e poi un bel giorno, per un fortuito motivo, si abbia occasione di osservare il suo lato più interno, nascosto e mai visto prima. Poter accedere a questo "enigma alla luce del sole", rappresentato da un "retro-casa", è sempre una rivelazione, una piccola folgorazione epifanica.

Detesto ripetermi e reiterare il presunto versante rozzo della mia metafora, ma anche qui (mio malgrado) l'immagine calza a pennello. A tutti sarà successo di vedere il culo nudo di una persona conosciuta che nella propria "rappresentazione" era stata sino a quel momento soltanto un soldato semplice dell'esercito dei "vestiti". Il medesimo tipo di stupore, la stessa abbacinante "agnizione", la si sperimenta quando si viene immersi nell'incanto umile di un "retro-casa".

La stessa cosa che ci dice un "retro-casa", a mio avviso, si è sforzato di raccontarla per un'intera vita artistica il grande pittore americano Edward Hopper.

Il "retro-casa" è un "indicibile" che ci si sorprende di saper perfettamente pronunciare. È la rivincita dell'eccezionalità del banale. Il "retro-casa" si affaccia spesso sull'infinito agricolo di campi circostanti, è foriero di siepi e aiole, canne dell'acqua, rubinetti metallici affioranti dal limitar di un marciapiede, ferraglia lasciata lì, rastrello e forcone, accenni d'orto in riverbero con echi provenienti da una vaga estetica diffusamente "anni cinquanteggiante".

Ci sono certi "retri-casa" di condomini cittadini, ad esempio, che pur misurando pochi metri di fatto e confinando direttamente con un muro o poco più, contengono tuttavia estensioni dell'animo sconfinate.

Il "retro-casa" è la giarrettiera che si scopre, l'ascella pezzata di sudore che non sminuisce il fascino dell'elegante signora. Il "retro-casa" è il nostro sguardo risucchiato nel vortice inspiegabile di un dimensionale buco nero (...oh benedetta metafora!).


mercoledì 18 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 53 - "Sitte per sitte, asino in braghitte"

"Un pensiero al giorno"

53 - "Sitte per sitte, asino in braghitte"

Aiuto!!! Sono afflitto dalla SITTE!!! E queste righe le scrivo per mettervi in guardia. Guardatevi bene dal cadere nel gorgo di questa terribile dipendenza. Catalogata e riconosciuta ormai dai principali studioso delle varie forme di DGM (Disturbi del Giardino Mentale), la particolare monomania celata dietro il sibilante acronimo è niente meno che la "Sindrome Iper-tosante da Trattorino TosaErba".

Che non vi venga mai l'avventata idea di posare le terga sul comodo sedile di uno di questi moderni marchingegni. Sarete colti da desiderio irrefrenabile e compulsivo di voler tosare tutto il mondo.

Mi sono accorto di essere caduto ormai nel gorgo della SITTE, durante una recente scorribanda in sella al trattorino. Ho lanciato il quadri-rotante spelacchiatore di prati in un tratto di giardino bello lungo, libero da ostacoli. E canticchiando fra me e me "Creep" dei Radiohead, nel rombo tonante sotto cui l'erbetta s'andava docilmente a far pettinare, ho provato impareggiabili momenti di puro rapimento interiore. "...I'm a creep, I'm a weirdo...Sono sgradevole, sono strano...ma adesso fammi pista e dammi ancora metri quadri di prato...".

Ecco dove troverebbe ispirazione per scolpire, un Gian Lorenzo Bernini dei giorni nostri. Fra i suoi soggetti preferiti, non mancherebbe di certo l'estasi del trattorinista tosaerba.

Non ne avete mai abbastanza, una volta iniziato. Vorreste che il prato non finisse più. Vorreste tosare ogni stelo del pianeta, livellare tutti i praticelli, fare un universale taglio a spazzola al Tutto Pilifero Vegetante immaginabile e inimmaginabile.

Sospettavo da tempo di avere affinità elettive con la nutria. E questa è una conferma in grande stile: il mio elemento è l'erba, ma diversamente dai più, non la voglio fumare. Io la voglio tosare.

Tuttavia, uno dei fattori del fenomeno che maggiormente rincuora gli studiosi è che l'estasi da trattorino tosaerba viene nascosta al mondo dalle oscure forze celate dietro interessi economici colossali. Un'epidemia della SITTE sembra molto improbabile. Se in tanti sapessero dello sballo in sella al trattorino, si verificherebbe infatti un crollo degli affari sul mercato della cocaina e delle più diffuse droghe. La dipendenza da trattorino dilagherebbe: "...a me presto un'altra dose di prato..io, io: un'aiuola da filare in derapata...".

Trattorino tosaerba, allora: il vizio estremo del novello sibarita postmoderno.


martedì 17 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 52 - "Nutria casa"

"Un pensiero al giorno"

52 - "Nutria casa"

Nuvoloni di panna. Pannoloni di nube. Oggi tempo venezuelano, dolce illusione patria per le nutrie. L'erba lussureggia, intrisa dell'umido piovuto, steli ghiotti di raggi fanno l'amore fotosintetico col cielo. Il vecchio ciliegione si è congedato. Ha donato tanto, per anni, grosse stille amaranto succose di zucchero melassato e sanguigno. I suoi piccoli, sferoidi, cuori-sedere ora ha cessato di foggiare. Tutto nel gioco della ruota della natura. Il tronco scavato alla base da torme di formiche cieche, se non del loro angusto orizzonte di divoramento. Un esserino minuscolo ha rosicchiato i piedi al gigante. Almeno la vecchia pianta ha avuto l'onore delle armi: tagliata a mano, dove si poteva. Come saluto, ha voluto dare ancora un po' di ciliegioni. Non proprio maturi, ma sempre buoni, nel modo consueto, in questa valle di nutrie.


lunedì 16 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 51 - "Questo è un lavoro per le nutrie"

"Un pensiero al giorno"

51 - "Questo è un lavoro per le nutrie"

I supereroi. Ne vogliamo parlare? D'accordo, si potrebbe anche farne a meno, ma se ne vogliamo parlare, è inevitabile una sconsolante constatazione. Da quando hanno fatto la loro comparsa, forse che il mondo è migliorato di una virgola? A me non pare. Anzi, sembra proprio che più ne inventano di sofisticati e dotati di super-poteri sempre più sbalorditivi, più il mondo va in malora.

Dove stiamo sbagliando dunque nel disbrigo della "pratica" supereroi? Come accade in tanti casi, per trarre d'impiccio i maldestri umani, ci devono pensare le nutrie.

Se non siamo in grado di reclutare un supereroe che combini qualcosa di buono, ce ne prestano uno le nostre amiche naviga-fossi. Il suo nome è Nutrippo Enterprise Joint-venture Monodialogo "Forsyte Secondo" Ma il Responso È Tre. "Ma il Responso È Tre" è il cognome. Per comodità, le nutrie tutte lo chiamano Nutrippo.

Perché non hanno funzionato finora i supereroi di derivazione umanoide? Un tratto che li accomuna è il voler cambiare le cose. Le nutrie, che osservano e sono astute, hanno invece capito che il loro supereroe dev'essere un vero campione dell'entrare in sintonia con le cose. È un eroe molto zen, Nutrippo. Lui asseconda l'Essere: al grido di "weltanschauung", sfreccia nei cieli e sparge su tutto il paesaggio perle di profondità. Non si serve di super-ragnatele, razzi fotonici, vista ai raggi X, frantumazione molecolare, invisibilità o nichilismo cosmico. Nutrippo usa direttamente il Tao Te Ching.

Vi potrebbe capitare di scorgere Nutrippo svolazzare sulle vostre teste, e sentirlo proclamare: "...il pesante è la radice del leggero, la quiete è signora dell'agitazione...". Altre volte, vi arriverà alle spalle sorprendendovi con un: "...conosci il tuo maschile, ma attieniti al tuo femminile e diventa il torrente del mondo...".

Ma tutte queste sono solo manovre di riscaldamento, preparatorie alla gran dimostrazione che Nutrippo conta di fare, quando sentirà che è ormai maturato il momento fatidico. Allora si leverà dalla testa il suo tipico cilindro di vellutino, e rivelerà la frase più sconvolgente di tutte: "...rinuncia all'ingegno, elimina il profitto, e ladri e banditi non esisteranno più...mostra semplicità, abbraccia il legno grezzo, riduci gli interessi personali, diminuisci i desideri...".
Nutrippo: un supereroe troppo orientale e troppo avanti. Così avanti che forse non lo raggiungeremo mai...

(tutte le frasi di Nutrippo sono tratte da "TAO TE CHING" - attribuito a Lao Tzu, IV - III sec. a.C. - Ed. Feltrinelli - 2009).


domenica 15 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 50 - "Non è una piccola muffa"

"Un pensiero al giorno"

50 - "Non è una piccola muffa"

Oggi non avevo un pensiero degno di nota da raccontarvi. Scrivo allora solo una cosa semplice, riguardo a una parola che per me ha un suono adorabile: muffola. Mi mette allegria e fa tenerezza nello stesso tempo: muffola, muffola, e poi muffola!

L'oggetto stesso che nomina mi sta simpatico. Ho sempre preferito la muffola al guanto tradizionale, sia per comodità, ma anche perché ti fa un po' le mani da cartone animato.

È divertente anche la sua etimologia, benché non certa al cento per cento. Uno dei suoi antenati linguistici pare sia "moffula", che era un manicotto di pelliccia in cui infilare le mani (siamo "dalle parti" del medioevo, Carlo Magno e compagnia). Ha parenti linguistici anche in Germania, "muftel", e in Olanda, "moffel". Il gran nonno etimologico potrebbe però essere il latino "manupola" (o "manipola") che sta grosso modo per "coprimani".

Ho poi scoperto, anche se il collegamento credo sia solo sonoro, che in siciliano esiste la parola "muffoletta" o "muffuletta", a indicare un tipo di pagnotta tonda e soffice.

Allora muffola. E moffula, moffel, muftel, muffoletta: sono tutte parole dense di una sonorità molto delicata, morbida, pellicciosa.

A mio avviso, vezzeggiativi ideali da spendere nei momenti di intimità e affetto condivisi con la propria amata.

"...muffoletta adorata!...moffel del mio cuore!...sei la mia muffola bella!..."
"...sì, sì, sì...sono la tua moffula, dimmelo ancora...".

Insomma, "l'appellar muffoleggiando" è una tecnica che consiglio a tutti gli aspiranti "latin lover". A occhio e croce, dovrebbe funzionare. Salvo alcuni casi critici, che vi devono subito mettere in allerta. Ad esempio, se in risposta lei vi dovesse chiamare "muflone"...che non è precisamente una muffola al maschile...


sabato 14 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 49 - "Il consesso dei sociologi gentili"

"Un pensiero al giorno"

49 - "Il consesso dei sociologi gentili"

Ci sono poche cose più fastidiose dei discorsi da bar. Forse giusto la sabbia negli slip sulla spiaggia con quaranta all'ombra. Forse chiudere la finestra la sera, prima di dormire, in maggio, e sentire una zanzara nella stanza. Forse, addirittura, una zanzara negli slip...

Ma come ogni cosa regolamentata dal suo mito, anche il discorso da bar presenta felici eccezioni. Una delle più belle mi è capitata di recente. Il bar in questione è una mezza baracchetta non molto lontano dal fiume. Ritrovo placido di vecchi ex pescatori, di neo anziani giocatori di briscola, e naturalmente di spericolati affabulatori, grandi acrobati del luogo comune.

Il "luogo-comunista" classico, se preso a piccole dosi, è anche apprezzabile. Naturalmente sempre considerato nell'ottica della spettacolarità delle fregnacce che spara. A volte si affonda proprio nel meta-stupore più puro, all'udire certi spropositi sesquipedali che riesce a sfornare. Ma dopo cinque minuti diventa un pizza inascoltabile, che gli pagheresti persino un fiasco di barbera purché la piantasse di cianciar vaccate.

Di tutt'altro tono invece ciò che mi è successo ultimamente. Ero immerso coi miei amici giusto nella fluviale baracchetta pseudo-osteria, a raccontarci come al solito facezie estemporanee, tra giochi di parole, battute surreali e commenti variopinti alle cose della vita. Nel tavolino di fianco, c'erano tre ometti.

Badate, uso la parola "ometto" nel suo senso più nobile, che pure le compete. Per me un "ometto" è un tipo pacato che aderisce alla vita cercando di smussarne gli spigoli più ficcanti. 
Un "ometto" si sagoma sugli eventi, plasmando se stesso un po' ai contorni dell'ineluttabile e un po' a quelli del meraviglioso che può venire.

Questi erano tre ometti attempati, parlavano con tono moderato, un volume di voce molto saggio. Intervallavano qualche frase in italiano ai generali discorsi in dialetto. Ma c'è un modo di parlare in dialetto, e a volte mi capita di sentirlo, che a ragione si può definire come espressione di cultura e profondità. I tre ometti parlavano un dialetto molto colto e meditativo.

Gli argomenti delle loro chiacchiere erano densi d'importanza, ma velavano ogni scambio di opinione con sorrisi di sapiente misura, forse per adeguarli al gusto che stavano assaporando di varie fette di salume e goccetti di rosso d'accompagnamento (sintomo fondamentale: l'ometto da bar beve rosso, l'ordinario "luogo-comunista" si ottunde l'opinione di bianchetti).

Pur continuando a dire la mia nella chiacchierata "a fin di vuoto" in corso coi miei amici, sbocconcellavo lacerti di frasi provenienti dal tavolino degli ometti, e mi son sentito risucchiare nel fascino delle loro meditazioni.

Non ascoltavo per "ficcanasesimo" puro, ma per rispetto reverenziale alla bellezza dei discorsi dei tre ometti. Con estrema naturalezza, pronunciavano punti di vista anche di una certa complessità, da non stupirsi a ritrovarli magari su un saggio di sociologia o di analisi politica. Eppure lo facevano senza infrangere la levità dell'atmosfera di sospensione spazio-temporale tipica del bar.

Dicevano ad esempio che l'automazione del lavoro aumenta di certo l'efficienza, ma fa calare il volume dei contributi pensionistici versati, con conseguente grippaggio del meccanismo. Dicevano che il capitalismo è un'organizzazione molto efficace nel creare ricchezza, ma altrettanto fallace sul piano della sua redistribuzione. A un certo punto, fra un fraseggio dialettale e l'altro, s'è insinuata persino l'altisonante spessore libresco della parola "plusvalore".

Naturalmente mi son limitato all'ascolto, ma avrei voluto chieder loro se potevo prendere appunti, o se mi firmavano un autografo col tubetto della maionese su una fetta di salame. Alla fine quella piccola commissione di saggi si è sciolta con la stessa fluidità calma dei loro discorsi, e osservandoli andarsene sui loro saggi passi di ometti di valore, li ho ringraziati tacitamente nel mio intimo, per quei preziosi attimi di semplice bellezza dialettica che mi avevano regalato.


venerdì 13 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 48 - "Parlare sulla carta, scrivere col fiato"

"Un pensiero al giorno"

48 - "Parlare sulla carta, scrivere col fiato"

Quando scrivo, spesso mi rendo conto di usare un linguaggio "a parte". Forse non ci si fa molto caso, tanto si è abituati a mutare visione a seconda dell'ambito, ma ci esprimiamo a voce molto diversamente da come lo facciamo per iscritto.

Ecco, quale miglior esempio? Solo due frasi, e ci sono cascato subito: quando mai, esprimendomi a voce, mi verrebbe naturale usare l'espressione "per iscritto"?

E ne usiamo in continuazione. Chi si ricorda l'ultima volta che ha pronunciato, in una conversazione, le parole "egli", "essa", "taluni", "tuttavia", "assai", "cotale", "costoro"? Invece quando scriviamo non ci sembrano termini tanto fuori luogo.

Sembra dunque che l'italiano viva una sua più o meno consapevole forma di doppia identità. Pierpaolo Pasolini aveva molto a cuore questa tematica e l'ha trattata in diverse sue analisi linguistiche molto raffinate (ad esempio in articoli raccolti nel suo "Empirismo eretico" - Garzanti - 1972). Giustamente, possiamo aggiungere, perché la lingua che usiamo ha un ruolo fondamentale nel definire la nostra identità.

Il fenomeno dell'italiano a "scorrimento binario" potrebbe sulle prime far pensare a una sorta di negativa doppiezza, a un'ambiguità che non fa tanto onore al nostro idioma nazionale. Pasolini, osservando la realtà, come spesso era solito fare, attraverso le lenti dell'ottica analitica marxiana, vedeva in questo fatto un sintomo della particolare suddivisione in classi, che storicamente si è imposta nella nostra società. Per semplificare al massimo: da una parte, una lingua delle classi alte, abbienti, egemoni (coi mezzi per accedere agli strumenti culturali e educativi), e dall'altra quella dei meno agiati, più diretta e popolare, spesso confinante col dialetto.

La questione è ovviamente troppo complessa per venire esaurita in queste poche righe. Ma facendo salvo l'interesse per le tesi di Pasolini (da approfondire, per chi volesse; e preciso: le mie riflessioni in confronto sono solo umili banalità) si può aggiungere una piccola considerazione, alla luce di tanti nuovi e più recenti fenomeni.

Siamo proprio sicuri che la "duplicità" dell'italiano sia davvero una sua caratteristica così poco lusinghiera? Le nuove modalità di comunicazione hanno causato una riscoperta notevole della parola scritta, tanto da far calare in modo sensibile l'utilizzo della telefonata classica, dello scambio comunicativo a voce. Si preferisce parlarsi con parole scritte perché è più economico, pratico, ecc. Ma anche perché si entra in un'altra dimensione, a mio parere (e non solo mio). Scrivere è più intimo, porta più in profondità, ci concede di dire cose dicibili solo in quella forma.

Ecco dunque che noi italiani, al di là di come la cosa si è formata nei secoli, abbiamo a disposizione già una duplice dimensione linguistica (meno accentuata per altri popoli). Il bello è che possiamo rendere questo fatto un punto di forza.

La preziosità evocata dalla lingua scritta ci introduce già in uno spazio speciale. E c'è di più. Il rischio sempre in agguato col nostro tipo di lingua scritta è l'eccesso di pomposità, di ricercatezza fine a se stessa e tutto sommato al limite del ridicolo. Con la lingua colloquiale, c'è il rischio opposto della sciatteria. Poi ci sono tanti altri semi-linguaggi o sotto-stili che rappresentano altrettanti pericoli di bruttura: il bimbo-minkiese, il giornalistese, il "sempreverde" politichese, l'esse-emme-essismo, l'esterofilese azzerbinato, il tecnocratichese, e così via.

Ecco allora che scrivere in italiano può diventare un ottimo esercizio di ricerca d'equilibrio.

Uno "scrivente" italiano ha davanti a sé, nello stesso tempo, un'opportunità e un fardello notevoli. Può servirsi degli stessi "strumenti" nobilitati a suo tempo dal genio di grandi come Dante, Manzoni, D'Annunzio, Svevo, Pirandello. Ma deve maneggiare questi gioielli con saggezza. Deve trovare la propria dimensione di modellatore di parole odierno. Deve sapersi accoccolare con grazia e misura sulle spalle dei giganti che gli offrono tuttora un appoggio. Possibilmente senza sentirli protestare che gli abbiamo pestato un orecchio o dato un calcio sulla nuca.


giovedì 12 maggio 2016

“Wasting time” - 4

“Wasting time” - 4

Segreto liquore da
polla oculare
in procinto di stillare
secreti del cuore.

Riecheggia la stanza
nostalgie di distanza 
dentro
aliti d'aurore
fiuti densi di ore.

Acuità di visione
nucleo intenso,
irradiazione,
illusione di sapore nella
lealtà di un fievole umidore.

Orgoglio in rigoglio
germogliava nella maglia.
Era un prato, era fieno, era paglia,
era gusto di voglia.


mercoledì 11 maggio 2016

"Un pensiero al giorno" 47 - "Come ti sgeriello il magico trufo del linguaggio"

"Un pensiero al giorno"

47 - "Come ti sgeriello il magico trufo del linguaggio"

<<...Un piccolo trufo si era infilato in un geriello e non ce la faceva più a uscire. S'era proprio inselimato fino ai gibelli. Passarono di lì, nell'ordine, un gergopigneco, un saffiolo, una merchignappa e alcuni stravagnoli, ma nessuno si degnò di aiutare il povero trufo.

Alla fine, passò anche uno sprimaccione, di ritorno dal suo turno alla fabbrica di cuscini Ronfodür. Tra trufo e sprimaccione non era mai corso buon fiame. Ma nessuno dei due sapeva come mai. Contrariamente a quanto avrebbe fatto seguendo il suo gongifonio istintuale, lo sprimaccione si fermò a zevignare col trufo.

Sbingognarono con gran cordialità, quasi senza accorgersi che in quel buon tempo trascorso insieme in piena sviribitudine, pian piano il trufo si stava sbericollando dal geriello.

Sprimaccione e trufo rimasero molto biliformi per questo fatto. Tutto si era svolto come una cosa magdiforme e ai due non restò altro che prenderne atto, e andare insieme alla speppoteca, a bersi un buon grummine di fiolosàt in compagnia...>>.

Mi piace ogni tanto creare queste storielle infarcite di parole inventate di sana pianta. Al di là del divertimento immediato, queste piccole fole surreali hanno anche un loro fascino linguistico.

Una regoletta che mi impongo nel gioco è quella di inventare le varie parole prive di senso, senza pensarci su troppo, affidandomi a una certa immediatezza istintiva. Se una parola richiede troppa elaborazione, la scarto e attendo che "me ne venga" un'altra.

In questo modo, ho quasi l'impressione di addentrarmi in un mistero del linguaggio. Le parole non sono semplici suoni appiccicati sopra alle cose o ai concetti. Le sequenze di lettere usate, coi rispettivi suoni, intessono invece in qualche modo un legame magico-fisico-poetico con le cose che nominano e con chi le nomina.

Ovviamente è una cosa che non si può dimostrare sul piano razionale e tanto meno scientifico. Si tratta di una sorta di intuizione che può trovare una qualche forma di conferma solo nell'affettività di cui sentiamo permeato l'uso della lingua. Attraverso la lingua, il mondo entra in noi, e noi nel mondo. E' nella dimensione di questa duplice osmosi che forse, come in nessun altro ambito, possiamo sentire più forte quella prerogativa tutta umana riassumibile nella locuzione "desiderio di infinito".

Il mondo è infinito (o perlomeno così lo percepiamo), mentre il linguaggio è finito (o perlomeno così percepiamo anch'esso). Ma quando l'uomo, nell'alba dei suoi tempi, iniziò a sperimentare il potere di riuscire a trasportare le cose del mondo, prima nel suo pensiero e poi nell'animo dei suoi simili, servendosi di semplici segni, prima sonori e poi sempre "più fisici", questo potere gli sarà sembrato un potere immenso.

Il linguaggio nasce dunque se non infinito, perlomeno colmo di infinita carica di mistero. Prima di diventare veicolo di trasmissione di contenuti circoscritti in un preciso codice fra umani, il linguaggio ha vestito le forme del mito. Ci sarà stata una fase (probabilmente lunghissima) in cui i suoni "si staccavano" dalle cose per passare alle bocche, alle lingue, alle gole, fase vissuta nel pieno di una misterica apertura degli uomini verso l'ignoto, l'inspiegabile, l'inaudito.

Una traccia di tutto ciò, molto evidente seppur posta in sottofondo, rimane tuttora nella lingua. Anche dopo essere diventata lo strumento principe della nostra razionalità. Per questo, l'invenzione estemporanea di "parole istintive" non è soltanto un esercizio ozioso di superficiale infantilismo. A suo modo, ha invece a che fare con l'essenza più velata del linguaggio. Col suo significato più remoto e inafferrabile.