venerdì 30 luglio 2010

Fendenti di luce sfarfallante


Son stati giorni di frescure quasi montane nella Bassa, una goduria agli occhi dei viventi. Il languido bisogno di un lenzuolino tirato sulle spalle durante la pennichella pomeridiana, a fine luglio, è un fenomeno che non si ricordava a memoria d’uomo.
Cacciando qualche amichevole accidente alla volta di Emilio Fede che, per rincuorare il turista condannato ai consumi forzati, lo rassicura circa il pronto ed imminente ritorno dell’anticiclone delle Azzorre col suo simpaticissimo e molto trendy caldo boia, mi sono per il momento assaporato tale incanto meteorologico.

In particolare, alcuni attimi preserali hanno fatto il loro potente ingresso in giardino baciati da una luce preziosa, complice il cielo terso in maniera inusuale per Gillipixiland e circondario. In diverse occasioni, profonde stoccate di fotoni quasi parallele al suolo hanno carezzato l’erbetta del prato alcuni momenti prima di “aranciarsi” nelle sfumature del tramonto, quasi che la palla solare si fosse degnata di posare i suoi ribollenti piedoni in qualche lontano campo di grano, dietro l’argine.

Tutto questo mi ha offerto l’occasione per rinverdire i fasti recenti di cacce grosse fotografiche e lunghi palmi di naso patiti da sgangherato fotoreporter del nulla quale io sono.
Della vecchia Ghiandy Dick, il bell’esemplare di ghiandaia che mi zonzava nel giardino alcuni mesi or sono, ancora nessuna nuova.
Chissà se la puzzettevole piumacea si trova ancora nei paraggi, fatto sta che è passato un bel po’ di tempo da quando l’avvistai l’ultima volta. Sempre restando fermo il proposito di fissarla un giorno o l’altro sui pixel della mia fotocamera, mi sono per il momento accontentato di una preda più modesta ma non per questo meno bizzosa: una leggiadra, seppur piuttosto comune, farfallina multicromatica.

Stavolta il bottino è stato ben più pingue, rispetto alla magra esperienza fatta con Ghiandy. Al termine della sessione di riprese mi sono ritrovato nel “fotiere” diverse e discrete immagini, ma…con questi graziosi animaletti da servizio fotografico ci son sempre dei “ma”: sono più capricciosi di un divo del cinema, più volubili di una stella del rock, e se alla fine la molteplicità di colori della livrea della farfallina ve la posso raccontare solo a parole, è proprio esattamente per via di quel suo svolazzare in perfetta sintonia con gli imperativi dello “star system”.

Aveva il dorso delle belle ali macchiettato di armoniosi disegni, tra l’arancio ed un nero vellutato di sfumature bluastre, ma vigliacca se ogni volta che si posava a favore di obiettivo, si è mai preoccupata di tenerle aperte!
Più incontentabile di Madonna che pretende 10 casse di acqua minerale Bertiè (…la più gasata del mondo!), pronta a 15,4 gradi centigradi esatti in ogni stanza d’albergo di ogni tappa di un suo tour di concerti.
Non c’è dubbio, doveva essere farfalla femmina, non poteva essere farfallo. Forse una top model del mondo farfallaceo: si esibiva infatti in svolazzanti ed elegantissime sfilate, in aggraziate orbite ellittiche pitturate nell’aria con tutti i colori di cui era capace, ma una volta posate le zampette sul primo piedistallo vegetale che le capitava a tiro, si mutava in un battibaleno nel monumento faunistico alla morigeratezza di costumi, serrando inesorabilmente la morsa variopinta delle sue ali.

Qui di seguito la potete ammirare mentre posa con disinvoltura su di un sontuoso tappeto di foglia di zucca (il famoso “zuck-carpet”…minchia che stron...facezia...):


Eccola invece in questo scatto, gareggiare con la leggiadria di alcuni fiorellini:


«…Non mi scomodo nemmeno ad aprire la ali…» sembra dire con sufficienza ai primi cugini della famiglia floracea, «…vi do un “due a zero” anche da chiusa…».
Notare l’aggraziata pelliccetta sfoggiata con somma eleganza a render tutta la panzetta peluriosa, sintomo preclaro anche questo di nobili e capricciose abitudini.

Alla fine, per quanto mi sforzassi di coglierla nell’attimo preciso in cui si posava, quando rimaneva ancora dispiegata per una frazione di secondo, non mi è riuscito di riprenderla nel pieno suo fulgore, e mi sono dovuto accontentare del pur pregevole sfarfallio snobistico concesso.

Si sa tuttavia che nella vita vige una legge non scritta ma assai vera, il cui primo articolo recita più o meno così: «…ad inseguir troppo belle farfalle, ci si ritrova con un pugno di mosche e gonfie molto le palle…».
Fortunatamente con gli anni, si acquista poi consapevolezza dei successivi emendamenti di tal legislazione, in particolare il quinto, che in siffatta guisa sentenzia: «…chi si addentra tra farfalle un po’ più bruttine, si ritrova a goder d’intimità sopraffine…».

E puntualmente la legge ha fatto il suo corso anche nella mia metaforica e piccola preserale avventura esistenzial-fotografica-floro-faunistica.
Quando ho tirato su la tapparella per fare entrare nella camera un po’ di brezzolina rinfrescante, chi non ti ho ritrovato infatti posata sulla tenda? La cara e vecchia falena, ruspante e disponibile nei suoi amorevoli colori smorti, sì, ma pieni di sincera e spalancata affabilità.



giovedì 29 luglio 2010

L’ignoranza fa buon sangue


A volte mi compiaccio di quanto sono ignorante e retrogrado.
Pur rendendomi conto che è del tutto sbagliato, non ci posso fare niente, non riesco a fare a meno di bearmi della mia grettezza culturale scaturita da gravi grumi di considerazioni, e grevi.

Leggevo stamattina un articolo sul Corriere della sera, versione cartacea, a pag. 24: «Il re dei brevetti inventa il pc super veloce». Il re in questione è un ricercatore italo-americano in forza ad una delle potenze mondiali dell’informatica, la Intel, si chiama Mario J. Paniccia, e negli Stati Uniti sta facendo furore con le sue scoperte di avveniristici materiali conduttori in grado di convogliare masse spropositate di “informazione elettronica” in tempi ultra veloci.

In pratica, mi sono divertito ad auto-osservarmi nei vari “stati d’animo” che mi hanno accompagnato lungo la lettura dell’articolo.
Si parte con l’orgoglio nazionale.
Paniccia è figlio di emigrati italiani, mamma e papà non erano andati oltre la quinta elementare, mentre lui ha raggiunto questi grandi successi e giuro che per tutto ciò la mia ammirazione nei suoi confronti è incondizionata e sincera.
Poi si passa ai meriti scientifici: Paniccia può vantare al proprio attivo ben 67 brevetti già depositati in pochi anni (e tenete conto che all’anagrafe lui ne fa solo 44), mentre nel 2008 è stato votato scienziato dell’anno da un’importante rivista del settore. E anche fino a questo passaggio, il mio “mood” di lettore si manteneva su livelli di gratificazione seriosa notevoli.

Ma è stato da qui in avanti che, del tutto inopinatamente, la mia “retrogradazione” ignorantesca si è messa a remare contro. Avete presente quelle volte in cui vi trovate in situazioni che non si può ridere, e tuttavia vi scappa da ridere da matti?
E’ stata una sensazione del genere, quella che mi ha preso all’improvviso.

Giuro che non intendevo sminuire nemmeno di un grammo tutta la più ampia stima nutrita per Paniccia (che ovviamente rimane tale tuttora), però ad un certo punto, addentrandomi nella enumerazione delle meraviglie informatiche escogitate dal nostro connazionale (anche con citazioni dirette delle sue parole, inserite dal giornalista), lo scienziato mi è di colpo apparso come uno di quegli amici caciaroni (tecnicamente: "cazzari"), quelli che “loro le hanno chiavate tutte”, quelli che “loro sono stati in tutti i posti del mondo”, quelli che “loro hanno sempre l’ultimissima curiosità più costosa e all’ultima moda”, che loro di su, che loro di giù.

Con questi nuovi materiali, mi veniva raccontato, si potrà scaricare un hard disk in un secondo, un film full HD in molto meno: «…il laboratorio di ricerca californiano sulla fotonica…» cito testualmente, «…ha messo a punto un chip in silicio in grado di portare la fibra ottica fin dentro al computer. Il prototipo che oggi viaggia a 50 gigabit al secondo, potrebbe nel giro di qualche anno arrivare a un terabit: mille gigabit al secondo…».

E poi giù ancora, l’articolo seguitava su un simile tono, “stecnologicazzando” di questo passo a suon di “fotonica del silicio”, “laser ibrido”, “fosfuro di indio”, “rilevatori al germanio”, ecc.
Più mi addentravo nella lettura, più si andava insinuando tra me e me il piccolo diavoletto insidioso dell’ironia più crassa, quel mio difettaccio inguaribile (frutto puro di quella porzione di me prettamente retrograda ed ignorante, lo ammetto) che mi spinge sempre a vedere il ridicolo dove magari non ci sarebbe nemmeno bisogno.

Sempre con un occhio che scorreva sull’articolo, l’altro intanto immaginava la bellezza dei nostri orizzonti informatici futuri, guardando con speme incrollabile al giorno in cui potremo finalmente scaricare in qualche millisecondo tutta la filmografia di Boldi e De Sica (Chistian, purtroppo), al momento in cui potremo stipare nel tempo di un battito di ciglia, milioni di sonerie per il cellulare dentro il nostro pc, oppure tutte le edizioni di “Studio aperto” fin da quando lo dirigeva Emilio Fede, o ancora miliardi di fotografie di vacanze che ricordiamo così eccitanti soprattutto per quell’ultimo, magico giorno in cui sono finalmente terminate, e così via disinformatizzando in cuor mio.

Ed è stato lì che il “maligno satirico” ad un certo passo dell’articolo ha colpito inesorabile, con una stoccata irresistibile, sfoderando la più bizzarra delle nemesi linguistiche, alla lettura della quale non sono riuscito più a sopprimere il ghigno soggiacente che mi urgeva ormai dentro: «…In una notte, e senza nemmeno un errore…» proseguiva fieramente Paniccia, «…abbiamo trasmesso un petabyte di dati…».

UN PETABYTE!!!

Fantastico!!! Vi rendete conto, amici viandanti per pensieri? Un petabyte, un mega-scoreggione di inutilità informatica sfiatato via con non-chalance, e per di più, chissà perché, per sommo di ignorante mia ironia, esattamente nel giro di una notte, perché si sa, certi flatulenti fenomeni nottetempo sono agevolati dall’oscurità e dai misterici ritmi dettati dal ritmo circadiano delle cose.

Sapevo che era tutto più che corretto, giornalisticamente ineccepibile, che il discorso era serio e scientificamente rigoroso, sapevo che si tratta di scoperte importantissime, di cui un giorno senz’altro potrò godere pure io gli indubbi vantaggi, ma arrivato al “petabyte” non ho potuto fare a meno di sghignazzare, mi sono abbandonato con un moto liberatorio fra le braccia accoglienti della mia ignoranza e me la sono gustata tutta.

Ma ve l'ho detto, oltre che ignorante sono anche retrogrado e passatista quando mi ci metto, e allora sul finire dell'articolo, il ghigno si è spento in una riflessione un po' dubbiosa, sul futuro che ci possiamo attendere con tali premesse, un avvenire di molte anime gradualmente sempre più svuotate, ma di persone così zeppe d'aria informatica, che l'informazione, con rispetto parlando, quasi uscirà loro dal b... del c...



mercoledì 28 luglio 2010

Vecchie panzane e nuovi parapanze


Oggi inizio rettificando una bella vaccatina che scrissi una quindicina di giorni fa (precisamente il 10 luglio): naturalmente la città di Immanuel Kant non era, e non è, Heidelberg, ma Könisberg.
Capita anche ai migliori di dire stron…inesattezze.
Figuriamoci a me.

Fra campagnolismo duro e puro, e camionate di cultura, mi sto facendo alcuni giorni di ferie.
Avevo in programma un bel viaggio di 15 giorni con previsione di svariate tappe in diverse località mondiali, ma poi, al momento di recarmi in agenzia, ho sentito un tizio alla tele che raccomandava di viaggiare per incentivare la tendenza al rialzo dei consumi, così ho deciso che avrei convertito il mio budget turistico in libri, dvd e birre al bar.
Non è vero niente, è solo e sempre la mia pigrizia onnipotente che mi impera e mi divide fra letture, ronfate e sacrosante mangiate.

Come mio solito, è un po’ una scorpacciata gnoseologica scomposta e priva di programma quella che mi sto gustando. La lettura di «Vino e pane» di Ignazio Silone, mi ha riportato alle atmosfere delle pause estive del liceo, quelle dei mitici “libri da leggere per le vacanze”.
So che magari in tanti a tempo debito li maledissero.
Io no, o perlomeno non eccessivamente.
Non che mi ci ammazzassi dall’impegno, ma se oggi la mia passione per la lettura e la mia curiosità per tutti i temi dello scibile umano (sempre nel limite concesso dal mio comprendonio circoscritto…) sono divenute quello che sono, lo debbo anche a quelle care e vecchie letture estive.
Ricordo sempre con un sorriso un aneddoto citato spesso da mio fratello. Un suon compagno di classe non propriamente dotato della fama di gran studioso, al ritorno dalle vacanze soleva giustificare la sua mancata presentazione di eventuali relazioni o resoconti sulle letture effettuate, accampando, con fare fantascientifico, il fatto che il libro da lui scelto per le vacanze era «Guerra e pace».
Naturalmente, ad ogni nuovo settembre, la titanica lettura era ancora da terminare, e non so se lo stratagemma funzionasse veramente, ma di certo era ammirevole quella reiterata tattica di pokerismo studentesco, che cercava di nascondere il proprio “poltronismo” intellettuale sotto il tappeto di un rilanciato e supremo sacrificio di lettore.

In parallelo a Silone, sto traendo notevole giovamento spiritual-culturale anche dalla biografia di Albert Einstein (Walter Isaacson - Mondatori), che si legge con la piacevolezza di un bel romanzo mixata alla stuzzichevole malia di un saggio scientifico (in realtà, e giustamente, abbastanza all’acqua di rose, giusto per esperti di scienza qual io sono).
Ne ho ricavato pure una epifania del lettore in tema con quanto detto nel mio scribacchiamento scorso, ossia la ricerca di una dimensione “inutile-consolatoria” che solo le vette più elevate e rarefatte del sapere sono in grado di garantire.

«…La capacità della scienza di servire come rifugio dalle emozioni dolorose fu uno dei temi di una conferenza che Einstein tenne per la celebrazione del sessantesimo compleanno di Max Planck. Apparentemente riferite a Planck, le sue parole parvero rivelare piuttosto qualcosa di lui stesso.
“Una delle ragioni che spingono gli uomini all’arte e alla scienza è il desiderio di sfuggire alla desolata tristezza e alle sofferenze della vita quotidiana” disse Einstein.
Simili uomini fanno di questo cosmo e della sua intima struttura il "perno della propria vita emotiva, alla ricerca di quel genere di sicurezza e di pace che non è possibile trovare nell’angusto vortice dell’esperienza personale"…».

«Einstein – La sua vita, il suo universo»
Walter Isaacson - 2007

Sul fronte della campagnolità più spinta, mantenuta sempre ben amalgamata all’intellettualismo più turbinante, munito di zappa e rastrello, mi sono prodotto stamane in una atletica raspata di uno stradellino ghiaiato bisognoso di tonsura erbosa.
La parte culturale dell’operazione l’ho affidata all’ascolto tramite ipod di alcune bellissime puntate della vecchia trasmissione di Radiodue «Alle otto della sera». Nella fattispecie, era la serie intitolata “Vite da logico”, curata dal professor Piergiorgio Odifreddi.

Non vi dico, cari amici viandanti per pensieri, la goduria che è stato razzolare gioviale e canottierato fra erbacce e simpatici sassolini, mentre nelle orecchie mi passava la storia della logica, del tentativo lungo secoli di piegare il linguaggio ad essere strumento di comprensione fedele e perfettamente manovrabile della realtà, forzando parole e numeri a doversi ritrovare fra loro cugini.
Da Parmenide a Pitagora, da Zenone ad Euclide, passando per Platone, Aristotele, San Tommaso, Abelardo, Guglielmo da Occam, per arrivare a Newton, Kant, Leibniz, Russel, Gödel, Hilbert: tutta la bellezza del pensare occidentale condensata in stupende citazioni, rimandi logici e fondamentali percorsi di tutto quel pensiero che è “nostro”.
Avreste dovuto esserci…tanto una zappa e un rastrellino ve li trovavo fuori anche per voi.

Dovevate esserci, cari amici viandanti per pensieri, quando Odifreddi si è messo ad enumerare il sacro mantra del «Tractatus Logico Philosophicus» di Ludwig Wittgestein:

1. Il mondo è tutto ciò che accade.
2. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.
3. L'immagine logica dei fatti è il pensiero.
4. Il pensiero è la proposizione munita di senso.
5. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari.
6. La forma generale della funzione di verità è: [Р, ξ, N (ξ)]. Questa è la forma generale della proposizione.
7. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.

E mi rivolgo a tutti coloro che ci capiscono solo il 3% (a parte il punto 6: capito allo 0% netto, ovviamente), proprio come è capitato a me: non vi sembra una cosa meravigliosa?

sabato 24 luglio 2010

Sometimes I use to be useless

Nella foto:
Triplo salto carpiato da fermo fra natura viva di pomodori -
Esegue: il mio sasso perfetto al 100%.


*******

Cosa c’è di più bello, in occasione di taluni arbitrari e del tutto casuali lassi di nostra vita, del lasciarsi andare ad un perfetto ed irreparabile senso di inutilità?
Parlo di quella vaga consapevolezza per cui ad un certo punto e per un dato intervallo del tuo tempo, ti senti di contare esattamente una beata fava per tutto l’universo mondo.

Recentemente, una mia amica mi ha detto che sono malato.
E di una malattia che ha a che fare con la psiche, per la precisione.
Certo, la frase è venuta fuori in un contesto di discussione semischerzosa, ma dell’ambizione di un piccolo fondamento di verità, quell’affermazione non era del tutto priva. Quello che mi veniva blandamente e amichevolmente rinfacciato non aveva nulla a che fare con patologie serie, beninteso, non c’entravano schizofrenia, propensioni paranoiche, meteorismi o priapismi di sorta.
La mia malattia sarebbe invece consistita nell’acquisto compulsivo di libri.

Lì per lì non ho saputo bene cosa ribattere. Di solito, non ho mai la battuta pronta io, e difatti sono proprio un conversatore sgangherato. Le cose che avrei voluto risponderle, è andata a finire che non gliele ho risposte. Ho ciancicato qualcosa di banalissimo, tipo vaghi accenni al piacere del cominciare spesso un nuovo libro, ma quello che avrei voluto risponderle, sempre in virtù della scarsa mia prontezza dialettica, mi è venuto in mente dopo.
C’è da aggiungere che, anche mi fosse venuto in mente per tempo, alla fine non l’avrei detto, perché in quel modo l’idea di strana creatura che la mia amica si è ormai fatta nei miei riguardi, si sarebbe aggravata in modo deciso.

Sia come sia, avrei voluto spiegarle che sono così morbosamente attaccato ai libri, perché i libri sono fra i migliori veicoli a me noti, per riuscire a trascorrere momenti di perfetta, adamantina ed imperturbabile inutilità. Leggo molto, mi circondo di libri, sono drogato di pagine scritte, perché esse mi fanno sentire felicemente ed estaticamente inutile.
Non è per far sfoggio di erudizione, che leggo. Ve l’ho detto: sono un parlatore così scipito ed incolore, che nemmeno studiarmi a memoria l’intera enciclopedia britannica, farebbe variare di un grammo la mia “monofasica” arte oratoriale.
Nemmeno leggo per poi saper scrivere meglio. Forse questo è un effetto collaterale involontario, ma perfettamente bilanciato dal fatto che scrivo sempre per il medesimo motivo: per sentirmi inutile, del tutto privo di scopi.
Non leggo per accrescere la mia conoscenza, non per possedere chissà quali nuove nozioni che mi siano d’aiuto nel districarmi fra i problemi della vita.
Leggo (e poi scrivo anche) perché mi fa sentire sommamente inutile.

“Inutile” in quale senso preciso, tuttavia?
“Inutile” nel senso che comunemente viene assegnato a questo termine, con la postilla di un’accezione più rugiadosa, che seduta stante mi permetto di aggiungervi io: “inutile” anche nel più sfumato significato di “fuori dal tempo”.

Il tempo è un ambiguo personaggio, un “gentiluomo-buffone” bifrontale, abbigliato di un mutevole vestito dalla duplice facciata: nella parte anteriore, è un distinto signore in frac, elegante e di gran classe, che ci blandisce con lusinghevoli inviti a farci suoi seguaci. Cammina a ritroso il tempo, di modo da mostrarci sempre la sua faccia migliore e più accattivante. E noi giù a seguirlo, indaffarati e sfiatati per riuscire a tenerne il passo spedito, per non prendere distanza da quella sirena sempre in cammino, sempre un passo avanti alle possibilità delle nostre gambe.
Ma quando meno te lo aspetti, quando l’affanno di stare dietro al passare dei minuti, delle ore, dei giorni, si fa più intenso e spasmodico, ecco il tempo che fa una giravolta, e rivela l’altra metà del suo abito, insieme all’altra facciata del suo essere: la beffarda multicolore casacca del giullare, le ridicole scarpette a punta coi sonagli, la calzamaglia attillata coronata dal più classico “sbuffo” pagliaccesco sui fianchi.
Tanto più intensa si era fatta l’illusione di essere ormai giunti a carpire i segreti del tempo, quanto più sbalorditivo è lo sconcerto provato al suo repentino dietro front: l’elegante signore in frac, ci dà ora le spalle calando con un lazzo le sue brache di rozzo menestrello, spiattellandoci in faccia con sommo scherno il suo grosso culo peloso d’irrisione.

In altre parole, se non stai attento, il tempo fa presto a fregarti con illusioni sempre più vertiginose di utilità e di efficienza, con pretese di essere riempito sempre più di attimi mai gratuiti, mai fini a se stessi, ma sempre schiavi di scopi e di traguardi.
Salvo poi sbeffeggiarti in “deretanico” spregio, calandoti in faccia la villosa verità.
Il tempo è fatto così. Più ti affanni per riempirlo, più lui suona fesso e vuoto. Più ti armi delle migliori intenzioni per affrontarlo con serietà, faccia a faccia, più lui ti mostra il culo.

Come difendersi allora?
Gli ingredienti sono pochi e semplicissimi. Tre, per essere precisi: è sufficiente tener sempre a portata di mano un buon libro, un letto e una scopa.
Quando il tempo esegue il suo voltagabbanesco rivoltarsi, calandosi i pantaloni per farvi vedere che la sua glabra faccia di sopra non è poi così dissimile da quella irsuta di sotto, afferrate la scopa, infilate il manico dove sapete, poi vi coricate con calma sul letto, e vi mettete a leggere.
E buona inutilità.



sabato 17 luglio 2010

Notte senz’ossa


Se siete ancora convinti che lo scorrere della vita possegga una certa logica e sia sostenuto da una propria coerenza interna, è solo perché non avete mai trascorso una notte di “guerriglia rurale” contro le zanzare della Bassa.
Nonostante gli anni d’esperienza e i galloni conquistati sul lenzuolo in strenue battaglie a suon di schiaffi a me stesso, canottiere spiattellate sul muro ed eroiche sventagliate di mutande inferte all’aria buia e ronzante, stanotte sono ricaduto nell’imboscata di quelle impunite ululanti alla vigliacca.

Succede anche ai più esperti. Basta la distrazione portata da una serata un po’ più bollente del solito, con un tasso d’umidità pari a quello del concetto di “bagna cauda”, che sbagliando una banale mossa di strategia applicata, ti ritrovi la stanza presa d’assedio dal nemico.
Sono sufficienti due file di buchi di tapparella lasciate alzate di troppo, il “fornelletto del Vape” acceso troppo tardi oppure in posizione insufficiente per coprire il raggio d’azione degli stormi di pattuglia, ed è battaglia dichiarata.
Quando te ne accorgi è troppo tardi: gli ululati zanzareschi ti stanno già lavorando i timpani ai fianchi. In natura, un suono più fastidioso di quello non saprei dove poterlo trovare.

Qualche tempo fa, avevo sentito dire che ai test d’ammissione per entrare alla facoltà di medicina di una qualche città, non ricordo quale, i ragazzi aspiranti segaossa fecero una magra figura, in particolare sui quesiti di anatomia.
Le zanzare della Bassa quell’esame d’ammissione l’avrebbero superato brillantemente.
Loro “sanno” dove hai le orecchie.
Questo per me rimarrà per sempre un mistero: come possa un esserino dalle fattezze di un micro-salsicciotto posato sui suoi instabili trampoli, attaccato a delle ali di cartavelina e con indosso costantemente certi occhialini alla Bonovox, saper localizzare, su di un coso bianchiccio di peli e cute alto cento volte di più, il punto esatto in cui andare a riversare le proprie urla.

Che anche lì ci sarebbe tutto un mondo dietro da sapere e da illustrare.
Prima dell’avvicinamento all’orecchio, possono passare attimi fatali di illusione. Capita che non senti nessun ronzio, né noti manovre sospette vicino a braccia e gambe, e te ne stai rilassato continuando a gustarti il tuo film alla tele; ma nella pausa pipì, ti alzi, abbassi il volume, accendi magari un secondo la luce, e ti rendi conto che l’irreparabile è ormai compiuto: le pareti nereggiano già di flottiglie pronte a calare inesorabili sulle tue carni appetite.
Altre volte l’attacco è fulmineo, si passa da zero a cento decibel in 2 secondi netti: il nemico mugghia già furibondo insistendo sull’hinterland dei tuoi padiglioni, facendoti supporre uno sbarco di truppe di portata epocale. Allora, preso dal panico, accendi ancora la luce, disposto alla mattanza senza quartiere, solo per constatare che si trattava di due zanzare due, di numero, che si erano spartite i tuoi timpani a “bim bum bam”, ed ora se li stavano gustando.
“Zanzara tigre” l’hanno chiamata questa qua d’importazione, che si è fatta viva alcuni anni fa. “Gattino spelacchiato” andrebbe chiamata, in confronto alla zanzara della Bassa. Quella là si fa vedere solo di giorno e poi non ronza nemmeno.
Zanzara tigre…sì…dev’essere stata una trovata di Dolce & Gabbana.

La zanzara della Bassa è un guerrigliero di rango, è una Zanz-cong tremenda, non scherza mica. Stanotte mi sono accorto tardi di avere la stanza già infestata da postazioni di Charlie, e proprio come gli americani impotenti e sbigottiti di fronte all’offensiva del Tet, ho optato per mezzi pesanti e sconsiderati tanto quanto napalm e defogliante.
Ho sparato nella stanza il Vape a manetta, porta e finestra chiuse. Mi ero ripromesso di spegnerlo appena avessi sentito cessare ogni ronzio, ma poi stremato dalla battaglia, mi sono addormentato.
Stamattina mi son ridestato con gli occhi gonfi di Vape, rintronato mica poco, col dubbio se avessi vinto la guerra o se me la fossi solamente data a gambe aggrappandomi ai pattini di un elicottero in decollo dal tetto della mia ambasciata.

La zanzara l’ho sempre sentita chiamare «sansòs», nel mio dialetto. Non mi sono mai chiesto il perché di quel nomignolo, né come mai fosse così distante dal suo omologo termine in italiano, col quale condivide così poco, se non vaghissime somiglianze sillabiche. Come nel caso di tante altre parole, anche questa per me ha avuto prima la sua dignità dialettale, passando solo dopo ad assumere quella italiana, col tempo della scuola e dei libri.

Le parole del mio dialetto le ho mangiate e bevute fin da piccolissimo, insieme a cotechino e lambrusco che mi propinavano per mancanza di soldi da andare a comprare gli omogeneizzati. Non ti domandi il perché del cotechino e del lambrusco: te li gusti e basta.

Ci sarebbe voluta la lettura, tanti anni dopo, di questo piccolo brano di uno degli autori che più di tutti mi “parlano dentro”, per assaporare la poesia etimologica che ci stava dietro.
Il mio dialetto riporta ancora fedelmente le influenze assorbite nei secoli dalle frequentazioni francesi, più o meno possessive, in queste terre. «Sansòs» risulterebbe in questo senso una parolina composta da “sans” (“senza”) e da “os” (“ossa”).
Ecco dunque che, nella magia vernacolare, la zanzara divenne familiarmente a tutti nota come la “senza ossa”.

«…[…Don Camillo…] Sospirò, richiuse la finestra e riaccese la luce.
Nonostante il buio, qualche stramaledetto senzosso era entrato nel tinello. Gli venne in mente suo padre, quando, prima di d’andare a letto, nelle sere d’estate, ispezionava il muro sbiancato a calce nella stanza dei ragazzini: centimetro per centimetro, alla luce della candela.
Il senzosso è infernale e stupido nello stesso tempo: non riuscirete mai a catturarlo usando la maniera forte, e se, dopo esservi schiaffeggiati la fronte o le guance o il collo duemila volte, riuscirete ad azzeccare un senzosso, bisogna pensare ad un miracolo.
Il senzosso va preso di spalle. Quando si posa sul muro, vi avvicinate cautamente in modo da portargli la fiammella dietro la schiena: non appena il senzosso avverte il calore, fa un balzo indietro e finisce bruciato.
La cosa funziona come se il senzosso fosse risucchiato dalla fiamma: forse succede perché, per una questione tecnica, può eseguire soltanto un determinato tipo di decollaggio. Il fatto è che, se uno lo coglie giusto di spalle, il senzosso ci casca…».

Notte di giugno” da “L’anno di Don Camillo
Giovannino Guareschi - 1960



giovedì 15 luglio 2010

Sulle strade che solo loro sanno fare


Certe volte verso sera, davanti a casa, vedo passare due donne.
Non ci sarebbe nulla di eccezionale in questo. Se non forse il dettaglio che passano sempre a piedi, e so per certo che il loro tragitto non è limitato a pochi metri, ma sicuramente si dilunga di parecchio prima che la meta venga raggiunta.

Ormai nelle nostre campagne chi si sposta per necessità e lo fa con mezzi umili (la bici o anche solo semplicemente sui propri piedi), è quasi sicuramente uno straniero. Altro conto sono i cicloamatori, i pedalanti della domenica (come me…) o i podisti ipercalorici che devono smaltire la tara accumulata ingozzandosi dallo stress di non riuscire ad arrivare alla fine del mese.
Gli stranieri si spostano invece perché ne hanno bisogno e per loro, vista l’indisponibilità di mezzi, le strade misurano ancora come nell’Ottocento, o tutt’al più come ai primi del Novecento.

Sono due donne che vedo passare, più precisamente una vecchia e una ragazzina. Immagino siano nonna e nipote. Un dettaglio s’impone subito: sono molto belle. Non belle nel modo superficiale col quale usate dire “voi, gente di oggi”(*). Ho detto dettaglio non per caso, infatti. Posseggono una bellezza talmente armoniosa e modellata sui loro corpi, che risulta eccezionale e scontata ad un tempo, talmente è naturale.
Son belle per davvero, insomma. Sono donne.
E sono indiane, ciascuna una sorta di personificazione archetipica dell’età di donna che stanno attraversando.
La vecchia (potrei dire “anziana”, se non fosse sempre roba da lasciare alla “gente di oggi”) avanza in una melodia di gesti che è eleganza pura. Indossa un abito tipico indiano. Non propriamente un “sari”. Qualcosa di simile, meno vistoso, ma pur sempre puntualmente evocatore delle atmosfere della sua remotissima ed immensa terra.
Potrebbe tuttavia vestire anche una pelliccia, un tailleur, un barracano, jeans e maglietta, o essere addirittura nuda: nessuna specificazione esteriore sarebbe in grado di distogliere l’attenzione dalla classe, dalla grazia, che dalla sua persona si diffondono.
Il viso è plasmato di “terra non cotta”, la chioma fluisce abbondante di grigi argentei e cupi, in un piacevole bisticcio fra le pretese accampate dalla senescenza e le rivendicazioni mai smesse di una gioventù che ancora seguita ad albeggiare, se mi si passa la sub-continentale suggestione un po’ facile, fra i meandri frondosi del suo animo ancora in verde ed oscuro rigoglio.

Un gioco molto simile fra le età, rifulge anche nel sembiante d’ebano e avorio della nipotina. Laddove la nonna dichiarava la propria fanciullezza mai sopita, qui è invece una maturità di portamento e movenze ad imporsi nella sua semplicità più compiuta.
E’ la pigmentazione scura ovviamente ad imporsi anche su di lei, in tutte le sue declinazioni cutanee e corporali. Ma per la magia nascosta nella profondità più densa di tutto il mistero in cui si cala questa femminea accoppiata, sono certo che nemmeno dal viso della più candida e graziosa fanciulla svedese potrebbe scaturire una simile radiosa luminosità.

Non vi so spiegare bene come, ma dal modo in cui la ragazzina si muove si vede che vuole bene alla nonna. Sembra di vederla intenta a prendere lezioni di cammino. La nonna fende l'aria con la propria eleganza, lasciandosi dietro una duplice ondata di avvenenza senza tempo, e la nipotina pare annusare quell’aroma motorio infondendolo direttamente nei gesti del suo muoversi.

In un attacco di egocentrismo leggermente irrispettoso, mi ritrovo a pensare che doveva venire la globalizzazione per far sì che un pigro stanziale, inchiodato alla sua terra piccola come una cozza al suo scoglio, potesse sapere direttamente qualcosa delle genti del mondo.

Non sono certo famoso per il mio spiccato fiuto da segugio della “realpolitik”, ma anche ad un pensatore bizzarro e stralunato quale io sono non sfugge la complessità del tema dei migranti planetari. E’ forse la questione più grande, complessa e cruciale che il “secolo breve” abbia lasciato in eredità a questo secolo ancora molto bambino.

Però per quei pochi attimi leggiadri di passaggio delle mie due piccole, personali, dee indiane, non ci voglio pensare. Lascio ai miei pensieri solo immagini belle, come l’idea che una nonna e una nipotina si vogliono bene al mondo tutte allo stesso modo, e che un grande fiume è pur sempre un grande fiume, nella lontana ed esoterica India così come nella sudaticcia Bassa padana.
E in tutti i posti del mondo si ritorna a casa, alla fine della giornata, sia che lo si faccia su quattro ruote veloci, sia su quattro piedi che posandosi per terra parlano parole di poesia e speranza.

*******

(*) = trattasi di espressione generica, di un "voi ipotetico", ovviamente non rivolto ai cari amici viandanti per pensieri, ma largamente spalmato sulla massa eterogenea ed informe di coloro che non sanno "pensare con l'anima".



martedì 13 luglio 2010

Breakfast in Gillipixisoul


Canticchiavo pocanzi una familiare melodia del "Vagabondo Supremo", quando mi son ritrovato a pensare quel che segue: «...la vita è tutta una gran colazione...».
Portate pazienza, cari amici viandanti per pensieri, il caldo batte duro anche da queste parti, diritto e ben mirato fra atlante ed epistrofeo, e in queste condizioni non ci si può aspettare che poi uno sforni sempre metafore lucide e fresche come le rose.

La vita è una colazione, sì.
E della colazione ha gli aspetti belli e quelli tristi.
Quante tavole ben imbandite di promesse freschissime ci si parano innanzi durante tutte le fasi della vita. Quanti commensali interessanti, lungo il cammino, siedono di volta in volta al nostro fianco, forieri di approfondimento umano, di fusione amicale, di immedesimazione amorosa, di identificazione affettiva.
Ma poi non c'è mai tempo sufficiente. Hai addentato poco più di un paio di bocconi di brioche, che è già il momento di avviarsi: il lavoro chiama, l'asilo assilla, la scuola, il treno parte, la gita, l'ufficio delle imposte dirette esistenziali che reclama la nostra presenza, sempre altrove, sempre di là.

Vorresti rimanere lì seduto senza limiti all'orizzonte, col caro amico, con la dolce presenza femminea, davanti a spremute di ragionamenti freschi, bricchi di caffelatte dialogato, panini imburrati di scherzose schermaglie e marmellate di ascolto vicendevole, di bonario desiderio di comprendersi, intingendosi nel tè dei pensieri regalati l'un l'altro.

Però l'attimo di raccogliere le briciole e rassettare la tovaglia arriva sempre troppo alla svelta. Ci si saluta, ci si dà appuntamento alla prossima colazione, pur sapendo che anch'essa non sarà mai sufficiente, ed andrà a mettersi in fila, dietro a tutte le colazioni passate e a precedere quelle future: tutte le colazioni che ci illudiamo di poter gustare con calma con i commensali ai quali vogliamo bene, tutti assisi a questa grande tavola imbandita di fretta che chiamiamo vita.



sabato 10 luglio 2010

Se io rispondendo potessi dirti: «…Va’a dà via’l cüüül…», rispondereeeiii


Oggi pomeriggio mi sono sacrificato nel nome della “letteratura”.
Dopo pranzo, ho espletato una pennichella “al volo”, giusto quella manciata di minuti dall’una alle cinque e mezza, e quando mi sono risvegliato, avevo un nuovo argomento fresco fresco (si fa per dire: grondavo sudor ronfante come un panetto di burro…) per venire a fracassare le orchidee ai miei cari amici viandanti per pensieri.
E poi dite che non vi penso…
In realtà, va aggiunto che le fasi ronfatorie sono state inframmezzate dalla lettura di ampi brani di «Gomorra», di Roberto Saviano, e di «Einstein – La sua vita, il suo universo», di Walter Isaacson, una piacevole biografia del geniale fisico baffone e scarmigliato.
Non ho precisato ciò per coprire l’onta di aver dormito circa quattro ore col sole alto in cielo, portando via così proditoriamente prezioso tempo all’innalzamento del PIL. Credo invece che la lettura di quei due precisi libri abbia anch’essa qualcosa a che fare con quanto vi volevo raccontare.

Si tratta un tema affrontato già diverso tempo fa, sempre come conseguenza di una pratica dormitoria evasa in circostanze simili. Questa volta però, la cosa mi si è parata innanzi sotto nuove sembianze “kantiane”, nel senso non di Eva Kant, ma di Immanuel.
All’epoca, dopo aver smartellato e limato un po’ nell’officina dei sogni, avevo sostenuto la tesi dell’esistenza di pacchetti concettuali che albergano nella nostra interiorità, pronti a saltare fuori come categorie che si sono d’aiuto in qualità di “classificatori culturali”. L’esempio portato in quell’occasione era il pacchetto culturale “film di crisi anni ‘70”.

Ecco, quello che mi sembra di aver approfondito con la sperimentazione scientifico-ronfatoria di oggi, è invece l’esistenza in noi di “pacchetti di sensazioni” che, para-strafalciando appunto il metodico filosofo di Heidelberg (*) (sempre di Kant si tratta…), oserei definire “giudizi emotivi a priori”.

Passo subito ad illustrare.
Sul finir del mio dormire, mi ero messo a sognare di brutto. Ad un certo punto, nel sogno, mi ritrovo in una stanza con un sacco di amici del periodo della mia “tardo infanzia-inizio adolescenza”, mentre da qualche giradischi o stereo che dir si voglia, proveniva la melodia di canzoni tipiche della medesima epoca.
Il punto è che nessuno di quegli amici e nessuna di quelle canzoni del sogno, era riconducibile ad amici specifici reali, oppure a canzoni specifiche reali, appartenenti a quell’epoca.
In pratica si trattava di “icone vuote” di amici e canzoni appartenuti a quella fase della mia vita. Per spiegarmi meglio, mi sentivo immerso in un’atmosfera alla «By the rivers of Babylon» dei Boney M, o alla «I feel love» di Sylvester, senza sentire però specificamente quelle canzoni, bensì solamente i loro “simulacri melodici universali”.
Lo stesso per i miei amici sognati: non erano nessuno di quelli reali che io ricordi, ma al tempo stesso erano loro. In questo caso: “simulacri amicali universali” della mia fanciullezza.

A completamento della cosa, la sensazione diffusa che da tutto il sogno mi derivava, era un sentimento di malinconia infinita, un sentore di struggimento, per il tempo perduto, di una vastità abissale.
Una volta desto, pur ricordando solo alcuni lacerti del materiale onirico appena sfornato, mi sono domandato: ma com’è possibile provare una nostalgia così potente per vagheggiati amici non meglio personificati, oppure per canzoni senza identità, ma solo ridotte al loro “minimo comun denominatore” epocale?

L’unica risposta che son riuscito a darmi è stata che probabilmente ero andato a scandagliare nello scaffale del mio archivio “mental-spirituale” in cui tengo conservato il mio “pacchetto” della malinconia pura.
E’ stato lì che mi è sovvenuto il paragone con la filosofia kantiana.
Così come le nostre strutture conoscitive sono impostate in base ad un “contenitore di pensieri” che funziona su un assetto “spazio-temporale” predefinito (“a priori”), “indipendente dalle” ed “antecedente alle” singole esperienze di fatto che nella vita ci toccano in sorte, allo stesso modo forse esiste in noi una “pre-disposizione” sentimentale-emotiva che ci fa interpretare la realtà ed il mondo secondo determinate “categorie del cuore” non scaturite da situazioni concrete reali, ma esistenti già in partenza nel nostro guardaroba emotivo, in dotazione sin dal momento in cui ci siam ritrovati a galleggiare placidi e giulivi nella pancia della mamma.

Non a caso dicevo prima che il libro di Saviano e la biografia di Einstein c’entrano col mio sogno. Sono convinto infatti che sono stati proprio loro responsabili della vangatura del terreno inconscio sul quale poi è stato coltivato l’argomento del mio vagare onirico.
Nella parte di «Gomorra» che sto leggendo si parla di giovinezze violate, un cazzotto allo stomaco ad ogni pagina: il massimo della nostalgia pura per un periodo della vita, in quei casi, nemmeno vissuto.
Anche a proposito del genio tedesco, sono giusto all’inizio della storia, alla fase della sua infanzia, nei tratti della quale, genialità a parte (sono stato un bambino felicemente tontarello, io…), ho trovato alcune affinità con la mia, soprattutto nella predilezione per lo stare soli e per il fantasticare privato.

E ancor meno a caso, forse, è successo che riavendomi dal sogno, inopinatamente mi son ritrovato a canticchiare una bella canzone di Mina del '66, musicata niente meno che dal maestro Morricone.
Avete presente il testo? (...scritto da Maurizio Costanzo, peraltro).
Per mio conto è forse la storia più crudele e struggente mai concepita da mente spietata. In pratica, un “due di picche” mollato nei denti ad un povero tapino che non ha nemmeno il diritto ad una telefonata di spiegazione: c'è qualcosa di più vicino alla malinconia ed allo struggimento puro, di questa roba?

Che tra le altre cose, ci avete mai pensato? Ma quel poveraccio di un “duepiccato”...nessuno si è mai preoccupato di sentire la sua versione?
Ad esempio, quando la Mina fa: «Se guardandoti negli occhi sapessi dirti basta ti guarderei / Ma non so spiegarti che il nostro amore appena nato è già finito...», se lui avesse potuto ribattere, secondo me avrebbe detto: «...Eh, no...ma minchia...ma allora sei una gran vacca e basta...avevo già fatto le pubblicazioni in Comune e ordinato le bomboniere...».

Va beh, e con questo vi saluto cari amici viandanti per pensieri, anche per oggi le mie belle vaccate di classe le ho sparate. Però pensavo: con tutte le ore che ho dormito oggi, e chi chiude occhio stanotte? Niente, speriamo almeno che Ghezzi passi una qualche pellicola Uzbeca, verso le 3 e mezza, quattro...

(*) = cagata scritta il 10 luglio 2010 e rettificata il 28 luglio 2010: trattasi in realtà di Könisberg


domenica 4 luglio 2010

Risate non competitive


Si può ridere di tenerezza?
Non intendo sorridere con delicato e consapevole controllo, ma proprio l'essere colti da quell'ondata pneumatica che si sente montare nel diaframma e non si può far altro che lasciar sfogare nella gola e poi in bocca, riconciliandoci per quei pochi fuggevoli istanti con tutti gli arretrati di “nonsenso” che coviamo nel cuore e nella mente.
Io sono convinto che, sì, si può ridere anche di tenerezza.

Sarà solo una mia impressione, sarà che spesso e volentieri traviso i fatti del mondo attraverso la lente deformante di una vagheggiata, quanto onnicomprensiva, e mai esistita Età dell'Oro, ma mi sembra di poter dire che negli ultimi decenni i moventi della risata si sono andati sempre più appiattendo su di un registro denigratorio.
La scintilla che fa innescare la vampa del riso viene fatta scaturire per lo più dalla presa in giro, dalla messa in difficoltà di un soggetto o di un oggetto scelti opportunamente, dalla sottolineatura di difetti e stonature.

Intendiamoci, non voglio farla più grave di quello che è. A mio sgangherato parere, questo fatto è anch'esso un piccolo ed inosservato sintomo del clima di competizione e confronto spasmodico che serpeggia ormai in pianta stabile fra le nostre vite, ma se qualcuno vuol darmi del mitomane, accetto la nomea di buon grado.

Ad onor del vero, non va taciuta una verità innegabile: l'innesco del fattore comico ha sempre comportato una certa dose di “cattiveria”. Da sempre l'umorismo è la strada maestra per porre in rilievo le stonature della realtà, in questo senso è storicamente andato di pari passo con dosi intense di spietatezza, spesso non prive di componenti di cinismo.
Fatto sta che, mi sbaglierò, ma la nostra epoca sembra particolarmente incline a questo modo di ridere.

Mi è capitato tuttavia ultimamente di ricordare come sia possibile ridere in maniera “pura”, senza confronti, senza “mettere in mezzo” niente e nessuno, ma solo ridere per il gusto in se stesso di farlo. Ridere di tenerezza, come dicevo prima.
Mi è successo assistendo recentemente allo spettacolo di un marionettista e burattinaio inglese, Stephen Mottram. Dire spettacolo di burattini è una riduzione ingenerosa, perché in realtà si è trattato di una delle cose più belle mai viste in vita mia nell'ambito dell'espressività “artistico-gestuale”. Tutti gli effetti speciali hollywoodiani, tutti gli Avatar immaginabili, in 3d, in 4d, in 5d, metteteci tutte le “d” che vi pare, non sarebbero in grado di eguagliare la magia poetica di questo spettacolo.

C'era una storia, una trama, c'erano vicende dietro al movimento di questi burattini e marionette? Niente di niente, se non leggerissimi abbozzi narrativi e piccole gag. Quello che raccontano è invece esattamente il muoversi stesso, il senso puro del movimento, dell'uomo in primis ma anche di tutte gli altri esseri animati, il movimento osservato e riprodotto nella sua essenza più naturale.
Non parlo dei movimenti limitati e banali riproducibili ordinariamente con questi simpatici fantocci infilati per di sotto con una mano, ma di movimenti di uomini e di animali ripetuti da burattini e marionette con una fedeltà articolata e studiata nei dettagli più minuti.

Mi sono reso conto così che tutto ciò è fonte di tenerezza e può far ridere.
Allora mi sono chiesto: il semplice nostro muoverci può farci ridere? Com'è mai possibile?
E' stato lì che ho capito (forse) che si trattava della tenerezza, di quella commozione che può derivare dal riflettere sui dettagli più semplici della nostra umanità. Era lo stesso senso di ilarità vellutata che mi nasce dentro quando osservo le movenze di un micio, quello stupore che ti fa quasi non capacitare di come tanta semplicità posso recare con sé anche tanta bellezza.
Il nostro muoverci può esser visto sotto la luce della sua estrema eleganza, ma anche come vincolo che ci tiene ancorati alle limitazioni della gravità, della velocità e della forza limitata, delle possibilità in fondo ristrette di varianti motorie a nostra disposizione, in contrasto magari con le aspirazioni di movimento di cui possiamo godere nell'immaginazione o nel sogno, praticamente infinite e senza limite di fantasia.

Noi siamo anche e soprattutto in quanto ci muoviamo. Il nostro vivere è imprescindibile dallo spostare arti e corpo nello spazio, e l'auto-osservarci in questo può essere fonte di gioia mista ad un senso di contraddittorietà, nel cogliere il limite ed il “miracolo” di tutta la cosa.
E così, attraverso quei burattini, credo sia stato proprio il “limite umano” di per sé a suscitarmi il riso, insieme alla tenerezza poetica che si porta dietro.



sabato 3 luglio 2010

Sotto un cielo di paradossi e libertà


Una volta, all’università, assistevo ad una lezione di psicologia.
Ad un certo punto si finì per toccare il tema delle organizzazioni umane, intese nella loro accezione più ampia, quelle legalmente costituite e quelle invalse per consuetudine: famiglia, istituzioni varie, enti politici, la scuola ai suoi vari gradi, tutto il sistema del lavoro, le associazioni più diverse, insomma tutto l’armamentario sociale nel quale ciascun individuo è “consigliato-costretto” ad inserirsi se vuole evitare l’inconveniente di ritrovarsi, al primo incontro galante della sua vita, a fare la propria presentazione con l’inequivocabile frase: «…Io Tarzan…tu Jane…».

Durante la lezione, saltò fuori una cosa che sapevo già, ma non mi ero mai reso conto di sapere. Pur senza voler scomodare Platone e la sua teoria della conoscenza come graduale ricordo del patrimonio ideale posseduto prima della nostra venuta in vita, talvolta mi sembra che la cultura consista proprio in questo: è un disvelare idee che sono già nel nostro patrimonio mentale-spirituale, ma che hanno solo bisogno di essere riordinate, “messe in fila”, per poter essere comprese appieno.

L’idea era questa: il rapporto di ogni individuo con le “organizzazioni umane” si gioca sul duplice discrimine “libertà-coercizione”. Forse potrà sembrarvi banale e scontato, ma pur avendo già conosciuto nel mio percorso di studi l’«homo homini lupus» di Thomas Hobbes, io prima di allora non avevo mai visto la faccenda sotto questo profilo.
Per dirla in altri termini, le organizzazioni, i gruppi umani, sono le nostre gabbie dorate.
Direte che sono impressionabile con niente, ma l’idea mi colpì non poco. Da una parte non possiamo farne a meno, nessuno può tirarsi fuori dalle organizzazioni, dai gruppi umani, nemmeno un asociale “asocialista reale” come me.
Ma d’altro canto la vita è anche una continua ricerca d’equilibrio per far sì che le maglie delle diverse organizzazioni nelle quali siamo inseriti, non si mettano a stringere troppo.

In pratica, se si approfondisce ancor più il concetto, ci si accorge che si tratta di un paradosso bell’e buono. Al di là della tutela, della protezione personale, del sostentamento fisico che i gruppi umani ci garantiscono ad un gradino più immediato, far parte di essi ci è inoltre indispensabile per acquisire libertà anche in senso più elevato, perché la trasmissione della conoscenza, della cultura, e quindi la nostra crescita personale, non possono prescindere dall’aggregazione con gli altri.
Ma al tempo stesso, quei gruppi, quelle organizzazioni, possono tramutarsi da un momento all’altro in vincoli opprimenti, quando ci accorgiamo che ci pongono troppe restrizioni, troppi obblighi, il che ci fa venir voglia di spezzare ogni legame, in un utopico obiettivo di liberazione suprema che però torna inevitabilmente a mordersi la coda: se ci siam “raggruppati” e “organizzati” per essere più liberi, non sarà certo il cammino opposto che ci condurrà verso una libertà maggiore.
Da tutte queste elucubrazioni, all'epoca mi venne ancor più da pensare quanto sia complessa la questione della libertà.

Soprattutto, quelle riflessioni mi sono tornate alla mente in questi giorni di rinnovata afa nella Bassa.
Il clima (sia meteorologico, sia umano) a Gillipixiland, se lo si assume come parallelo metaforico, aiuta parecchio ad approfondire questi risvolti del concetto di libertà.
Quella gran spianata di terra posta giusto nel punto in cui lo Stivale italico si appiccica al resto del Vecchio Continente, è un’ottima metafora dei paradossi della libertà, mi sono detto.
E credo di essermi detto bene.
Questa è una delle terre più ricche del mondo (nessun riferimento personale, ovviamente…), ma ha un clima da schifo. E’ piatta e sgraziata come il petto di una brutta racchia, ma non puoi fare a meno di volerle bene e di subirne quel fascino tutto suo. Ti opprime liberandoti, ma ti libera opprimendoti con afe gravose e viscide come l’abbraccio totale di una sensuosa ed ammaliante puttana surriscaldata.
Quando fa così caldo nella Bassa, la sensazione è proprio quella: non sai dove scappare per tirartene fuori. Così come a volte senti di non sapere come fare per liberarti della libertà.

Passando in bici sotto sera, una di queste sere di caldo particolarmente “liberale”, lungo un piccolo canale figlioccio del Grande Fiume, mi sono soffermato un attimo ad osservare con calma un laghetto di acqua semi-ristagnante, che si forma lungo quel percorso idrico minore. Ci sono alcuni posti per me carichi di notevole magia, disseminati nella campagna qui tutta attorno. Il piccolo stagno è uno di quei luoghi.
In questo periodo è ricoperto da un velo fittissimo e senza tregua di infiorescenze, che gli donano una livrea verdognola quasi iper-realistica. Flotte ben ordinate di paperotti si godevano quella pozza indisturbata ed immersa nel silenzio, fendendo il tappetino verde con le loro buffe scie zampettose, al seguito di mamma papera. Non sono riuscito a coglierle nella foto (tra l’altro scarsa, ripresa col cellulare), perché avvicinandomi, si sono insospettite e son corse a nascondersi.
So che da anni quello specchio d’acqua è purtroppo anche uno dei ricettacoli di veleni più concentrato di tutta la zona. E nel silenzio che mi sono goduto per pochi attimi, prima di inforcare di nuovo la bici e ripartire, mi sono domandato come potevano quella paperelle sguazzare così serene, lì dentro quel lerciume dalle parvenze idilliache.
Anche loro avevano trovato il loro equilibro per sopportare l’inquinamento che la libertà porta nelle vite di tutti, mi sono risposto alla fine.



venerdì 2 luglio 2010

Dolce dirimpettaia del quinto saldo


Ci siamo, stanno per ripartire i saldi di fine stagione. Quale stagione? Beh, fate un po' voi, basta che cacciate la grana e poi scegliete la stagione che vi pare.
Ho sentito dire alla tele che verranno spesi in media 177 euro a testa. Ecco, se per caso si ritrovasse a leggere queste due righe chi ha intenzione di sborsare 354 euro, volevo solamente dirgli che chi scrive è il suo dirimpettaio statistico.


giovedì 1 luglio 2010

Decaffeinato e felice


«…Come posso fare per farmi insultare da tutti gli italiani? Quale argomento potrei sollevare per essere biasimato all’unisono?...».
Mi arrovellavo questa mattina intorno a siffatti e faceti interrogativi, quando ad un certo punto: «…Ho trovato!...», mi son detto. Avevo capito che non dovevo fare altro che scrivere quanto segue: il caffè mi fa schifo!

Non sto parlando del sapore. Quello, pur non facendomi impazzire, non mi dispiace neanche. Mi riferisco invece proprio al “concetto” di caffè, alla cultura del caffè, con tutti i suoi rituali annessi e connessi.
Ve lo dicevo che volevo ricevere strali fin sotto le unghie dei piedi, e mica scherzavo…

Passo dunque ad enumerare tutte le motivazioni della mia avversione alla fatidica brodaglia nera, senza intenzione, ma soprattutto senza speranza, di convincere nessuno.

Innanzitutto, il caffè lo associo mentalmente alla levatacce mattutine.
E già qui il tasso di gradimento della calda bevanda d’ebano precipita in picchiata, nel mio personale cartellino delle preferenze. Sarò strano io, ma per me caffè e sveglia mattutina ad ore lavorative (un tempo scolastiche…), e dunque ad ore fastidiose di per sé, formano un abbinamento indissolubile e quindi molto molesto.
Quel gorgoglio della moka e l’odore che si diffonde per la cucina e la sala da pranzo, si mescolano al trauma dell’esodo dal tepore delle coperte, ad aliti gravitazionali dall’agevole tonnellaggio, a suggestioni di sinfonie di sciacquoni, a controcanti, con rispetto parlando, di scoregge e voglia di andar fuori di casa se non fra due anni, ad orride visioni di gente sconvolta allo specchio (ogni mattina, sempre la stessa gente: io…), ad occhi appiccicaticci.
Come potrebbe starmi simpatico il primo gusto che mi sento in bocca a suggellare questa idilliaca sequenza?

Non bastasse questo, il caffè è come un tizio che vuole tenerti sveglio.
Ma non solo: la faccenda diventa tale che ad un certo punto, di quel tizio che ti tenga sveglio, ne hai addirittura bisogno. E’ come se tutte le sere, verso le undici, undici e mezza, mi venisse sotto casa un tale con una Punto turbo diesel smarmittata, tutta bardata di alettoni e spoiler, finestrini calati, radio con subwoofer da mezzo metro, e musica house a paletta. E le sere che non dovesse venire, me lo vado addirittura a cercare io: ti prego, vieni sotto casa a non farmi dormire!
Insomma, se proprio devo ingurgitare cose che in qualche modo hanno qualcosa da dire sulle mie abitudini di sonno e veglia, sui miei ritmi circadiani, preferisco di gran lunga la suadente ninna nanna di una mezza bottiglia di vino, di un cognachino, di un brandy, una birretta, quello che volete, ma non mettetemi tra i piedi tizi che mi scrollano la spalla, quasi a farmi sentire in colpa se mi ero appisolato.
Già lungo tutta la giornata, c’è pieno di gente intorno che mi dice cosa devo: anche di due sorsate di brodo scuro che mi dicono se posso o non posso dormire, proprio non ne ho affatto bisogno.

Per me il caffè è poco più di questa roba, per questo non riesco a capire come possa rappresentare una sorta di piacevole rito per 60 milioni di italiani.
Meno uno (che son sempre io…).
Per anni ne ho preso giusto una tazzina al mattino, per darmi una scrollata, per svegliarmi un po’, per l’appunto. Ma da alcuni mesi ho estirpato completamente anche quella tazzina, sostituita da un più benevolo ed innocuo scodellone d’infuso alla “tummistufi” (non so cosa vuol dire, ma mi piaceva chiamarlo così…).
Fra l’altro, questa piccola radicale e definitiva rivoluzione anticaffeinica si attaglia meglio alla tecnica di sveglia che adotto ormai da alcuni anni. Per evitare l’effetto Fantozzi, la corsa coi minuti contati, sempre a rischio di sforamento nei tempi causa rottura della stringa di una scarpa, mi alzo abbondantemente prima dell’ora della partenza per l’ufficio, anche se questo significa sveglia intorno alle 6 circa.
Prima mi alzavo all’ultimo minuto, facevo i preparativi di tuta fretta, correvo verso il lavoro con le grinfie tese sul volante, e una volta varcata la soglia dell’ufficio, avevo già voglia di accoppare la persona più cara lì dentro (figurarsi quelli che mi stavano sulle palle…).
Ora mi vedo un po’ di tele, mi sorbisco la “tummistufi” con calma, leggo due paginette del libro del momento e poi mi metto in strada a velocità umane.
In questo nuovo quadro, non poteva esserci più posto per il caffè, dinamica bevanda e sprone spietato di pigri e lavoratori tiepidi.

Tutto questo detto, vai: la lista dei 60 milioni di insulti può considerarsi ufficialmente aperta!