domenica 26 settembre 2010

L’invenzione della parola


Lo si sarà ormai capito alla grande, io sono uno che s’inventa le parole.
Non si dovrebbe fare, lo so. La scrittura è come un gioco, un bellissimo gioco. E come in tutti i giochi, ciascun contendente ha la facoltà di esprimersi al massimo della riuscita estetica, fin al momento in cui sappia attenersi alle regole che assegnano i confini stessi al significato ludico generale del contesto in cui si muove.

In questo senso, sono un baro quindi, gioco scorretto.
Ma lo faccio in buona fede, o almeno credo. E soprattutto lo faccio quasi inconsapevolmente. Nel senso che molte volte sono spinto a fabbricarmi dei neologismi “fatti in casa”, solamente per il fatto di appassionarmi talmente a talune tematiche affrontate, da non sembrarmi quasi vera la bellezza di poterle condividere con voi, cari amici viandanti per pensieri. Mi piace spingermi all’estremo di certi pensieri (spesso facendo non poca confusione, d’accordo…), in territori dello “sragionare” così inoltrati, che senza uno scafandro da palombaro semantico forgiato ad hoc per l’occasione, si rischierebbe di soffocare per la penuria di ossigeno concettuale contenuto nei vocaboli comunemente codificati.

Stavolta però volevo fare del mio stesso “giocare fuor dalle regole del gioco”, l’argomento del presente scribacchiamento. Ossia, vi propongo tre vocaboli creati per l’occasione, in maniera del tutto gratuita, giusto per il gusto di inventare parole. Per ora saranno solo tre, ma con le cose scritte oggi intendo inaugurare un piccolo vocabolario di neologismi gillipixiani, da incrementare magari nel tempo, di man in mano che me ne verranno in mente altri.

A volte un nuovo termine buffo può nascervi in zucca anche solamente giochicchiando a casaccio coi suoni di diverse parole, accostate in modo estemporaneo e insensato.
Proprio così mi è successo quando mi sono sentito crescere nella capoccia il seguente neologismo, del quale solo in un secondo momento son riuscito a cogliere un plausibile significato: “substinace”.
Substinace è un tizio con un carattere che sa esaltarsi nei pregi della tenacità, accrescendola col riverbero semantico-sonoro del suo essere anche pertinace.
Ma come mai anche il prefisso “sub”?
Un po’ perché altrimenti la parola stentava a reggersi in piedi (“Stinace” liscio mi cadeva un po’ sul davanti…), ma soprattutto perché la persona substinace sa dare il meglio della propria “persistenza emotiva”, nella sotterraneità di questo suo tratto caratteriale distintivo.
Il substinace è un “deciso nascosto”, è il classico buono che non si augurerebbe mai a nessuno di ritrovarsi davanti incazzato. Non so se vi siete mai visto «Cane di paglia», un film del 1971 di Sam Peckinpah, con Dustin Hoffman: beh, se vi capiterà di vederlo, non ci sarà migliore modo di cogliere il significato di un carattere substinace, se non considerando il personaggio interpretato dal buon Dustin.

La seconda parola fatta in casa che tratterò, mi è molto cara. L’ho inventata solo qualche minuto fa, ma già mi ci sono affezionato. In modo particolare perché sono affezionato all’oggetto-soggetto che da tale termine è vocabolariamente “dipinto”.
Qui devo però fare umile atto d’ammenda anticipato con le gentili lettrici: spero proprio che la parola non suoni carica di certe sfumature vetero-maschiliste, ormai esauste come l’olio. Intendetela invece come espressione coniata da un cultore “sineddottico”, da un estimatore della “parte per il tutto”.

“Sedeureolata” è la parola, un aggettivo detto di signora, o signorina, particolarmente fornita di qualità e quantità posteriori. Ci sono donne che recano con sé un didietro quasi intriso di un’aura profetica, tali e tante sono le emozioni che sa suscitare nell’animo di chi è assiso sull’opposta riva erotica. Quasi parla, quel benedetto rotore binato di morbide sfere, quel soffice e fessurato cuscino consolatore del viril travaglio esistenziale. Ecco, per tutti questi casi, si può dire di quella donna che trattasi di leggiadra creatura sedeureolata.

E veniamo ora a concludere con l’ultimo vocabolo di oggi, che vi offro in omaggio per servirvene nelle occasioni in cui vi occorresse un giudizio negativo incisivo, ma elegante, da affibbiare a qualche individuo rozzo e poco gradito, in genere non particolarmente dotato di grande acume. Se un tizio così vi capiterà fra i piedi, procurandovi per giunta non poco fastidio, lo potrete dunque definire tranquillamente “idiotalpico”, che immagino non vi sbaglierete di molto.

L’idiotalpico non è un idiota comune: è un idiota con l’aggravante di una miopia che rasenta la cecità, anche di fronte alle questioni più scontate. Con tutto il rispetto per la talpa, simpatico animaletto dal quale mutuo solamente la sua caratteristica fisica più nota e proverbiale, astenendomi assolutamente dal reputargli qualità o de-qualificazioni umane che assolutamente non la riguardano.

Nella speranza che i miei neologismi vi abbiano arrecato due minuti di sorrisi e qualche secondo di destabilizzazione mentale, a questo punto, cari amici viandanti per pensieri, vi saluto, perché anche per oggi è giunto il momento di dirvi: that’s all folks!!!



sabato 25 settembre 2010

Il disegnatore che si disegnava


Ragazzi, oggi volevo proporvi proprio un bel frullato di pensieri.
Le suggestioni sfrecceranno fuori da tutti i cantoni, lievemente impazzite e scollate (ma non nel senso che avranno le tette di fuori…purtroppo…), con buona pace della coerenza del mio ragionare, tale da risultare alla fine particolarmente disordinato e naif. Mi salva un po’ il fatto che tutto ciò non rappresenta poi quella grossa novità, per codesto luogo di scribacchiamenti, copiosamente aduso a scorribande concettuali spesso incontrollabili e “schizzo-sfrenate”.

E così son qui a dirvi che, pur mantenendo sempre vivo l’interesse intorno a «I promessi sposi» (fra le cui fascinose fresche frasche linguistiche continuo ad immergermi con centellinata ed assaporata voluttà estetica), tra ieri e oggi mi sono inoltrato in una delle più titaniche imprese di tutta la mia finora variegata, anti-tassonomica e “psichedelicordinaria” avventura di lettore.
Va beh, forse esagero…era solo per dire che, in parallelo al Manzoniano beneamato tomo, ho appena iniziato un libro affascinante e complesso, intitolato «Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante», di Douglas R. Hofstadter.

Ma vi prego, per la paventata minaccia di trovarvi a questo punto di fronte al pericolo di una mia possibile recensione del suddetto volume, ripeto “vi prego” di non scappare a nascondervi sulla cima di una rovere, cadenzando la vostra salvifica ascesa col liberatorio grido Ciccio-Felliniano di «Voglio una donnaaa!!!».
Non intendo affatto produrmi in nessun tipo di recensione, sia perché sono solo alle prime pagine, sia perché la complessità dei temi esposti è tale che posso dire di essere riuscito a carpirne appena appena il sapore diffuso di fondo.

Se mi addentrerò dunque di qualche passo nel terreno periglioso dei contenuti del libro, sarà solo per mettere sul piatto la mia personale frittata di pensieri odierna.

«Gödel, Escher, Bach: chi erano costoro?», mi vien fatto di dire, tanto per introdurvi già, sempre un po’ manzoneggiando, nella labirintica concettualità che sarà il cuore della mia modesta dissertazione.
Partendo a ritroso: Johann Sebastian Bach, d’accordo, tutti sanno chi fu. Maurits Cornelis Escher è stato invece il geniale creatore delle “forme impossibili” più fantasmagoriche, e Kurt Gödel probabilmente il più grande studioso di logica del XX secolo, se non di ogni tempo.

Da quale prospettiva vengono presi in considerazione nel libro di Douglas R. Hofstadter, questi tre geniacci? Sono messi a paragone sulla base del loro comune ruolo di “domatori di paradossi”.
Di Bach, e qui mi scuso per le fregnacce che dirò mosso dalla mia somma ignoranza musicale, si affronta in particolare la produzione di “canoni”. Comporre secondo una struttura “a canone”, significa grosso modo (ma molto grosso…) creare uno schema sulla base di una frase musicale di fondo, che viene ripetuta da diverse voci in, praticamente, infinite varianti possibili del tema primario, a partire dalle più banali, sino ad arrivare alle più vertiginose e complesse. L’esempio più semplice di canone, che lo stesso autore menziona per rendere l’idea, è la familiare canzoncina di “Fra Martino”. Simili alla struttura dei “canoni” sono poi quelle delle ”fughe”, con tuttavia una minore schematicità di fondo.

Lo so, le mie definizioni da esperto musicale dei vostri stivali sono alquanto “canine”, ma ecco, quello che m’importava mettere in rilievo è che, come viene detto nel libro, Bach arrivò ad articolare così sapientemente questa particolare “via alla composizione musicale”, sino a riuscire a creare fughe a 6 e 8 voci, alle quali sottostava una complessità concettuale tale da essere equiparabile allo sforzo di giocare 60 partite a scacchi in simultanea, ad occhi chiusi, vincendole tutte.
In particolare, Bach, e qui si arriva trattarlo nella sua veste peculiare di “domatore di paradossi”, riuscì a creare un canone cosiddetto “Eternamente Ascendente”, un canone che sfiora molto da vicino la consapevolezza del paradosso, per l’appunto, e quella d’infinito:
«…Con questo canone, Bach ci offre un primo esempio della nozione che qui definiremo degli Strani Anelli. Il fenomeno dello “Strano Anello” consiste nel fatto di ritrovarsi inaspettatamente, salendo o scendendo lungo i gradini di qualche sistema gerarchico, al punto di partenza. (Nel nostro esempio il sistema è quello delle tonalità musicali)…».

“Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante”
Douglas R. Hofstadter - 1979

Come dite? Non ci state capendo una paradossale minchia di niente?
Provate allora a dare un’occhiata alla seguente litografia di M. C. Escher, del 1960, intitolata «Salita e discesa» (da me un po’ modificata, per sfizio…):


Lungo la bizzarra scala posta sul tetto del monastero, possiamo osservare due diverse teorie di monaci, chini chini sotto i loro cappucci, intente rispettivamente, ma soprattutto ciascuna “contemporaneamente a se stessa”, a salire e scendere questi inconcepibili e medesimi gradini che, potremmo dire, allo stesso tempo sembrano non condurre mai né troppo in alto, né mai troppo in basso: quale miglior esemplificazione di una “ascesa infinita”?

E quand’è allora che entra in scena Kurt Gödel?
Entra in scena (anche se ne parlerò, per eccessiva mia ignoranza, in misura iper-marginale…) dicendo che la sua ricerca consistette in pratica nella traduzione in termini matematici dell’antico “paradosso di Epimenide o del mentitore”, noto già anche agli antichi greci, un nodo della logica che aveva tenuto in scacco i più insigni studiosi di questa disciplina sino agli inizi del ‘900, e che, nelle diverse forme, non dissimili nella sostanza, suona nei modi seguenti.
Enunciato appunto dal cretese Epimenide, fa così: «…Tutti i cretesi sono mentitori…»; oppure, in una forma più immediata: «…Io sto mentendo…»; oppure ancora: «…Questo enunciato è falso…».
Provate un attimo a ragionare sul significato di ciascuna proposizione in relazione a chi la enuncia, e vi accorgerete di ritrovarvi ancora una volta, come nei casi suddetti di Bach e di Escher, nel bel mezzo di una impasse logica bell’e buona.

«…Va beh, ma dove sta in tutto ciò il contributo Gillipixiano originale?...», si protesterà a gran voce. Lo so, lo so che menando spudoratamente il can per l’aia in questo modo fino a qui, mi sono perduto per strada diversi lettori scappati di filato sulla summenzionata rovere felliniana.

Il contributo Gillipixiano non sarà gran cosa, ma sta ad ogni modo nel fatto che rimuginando su questi concetti, mi è venuto da pensare alla vita come ad un “Canone Eternamente Ascendente” di “gratuità” e di “utilità”, come ad una scala “Escheriana” di monaci, come ad un paradosso del mentitore, i cui termini in gioco sono dati da un incessante alternarsi di momenti motivati da scopi concreti e di momenti totalmente slegati da finalità effettive.

Voglio dire: la progettualità, la “direzionalità mirata a scopi” che ragionevolmente e verosimilmente infondiamo in talune nostre azioni o comportamenti (oserei dire nella maggior parte), non siamo mai sicuri che ci possano effettivamente condurre in alto o in basso nella nostra scala delle aspettative.
Di controcanto, può succedere invece che le azioni più gratuite, le meno razionali, quelle meno progettate o mirate a dei fini, ci conducano ad agguantare effettivi risultati, anche di altissimo valore, ma del tutto non preventivati in partenza.

Possiamo dunque vedere la vita come uno “Strano Anello”, molto parente dei canoni di Bach, delle scale monacali di Escher e del teorema di incompletezza di Gödel. Uno “Strano Anello” lungo il quale “utile” ed “inutile” si rincorrono senza tregua e senza mai concederci il preciso indizio circa il proprio essere situati effettivamente in alto o in basso nella scala dei nostri valori esistenziali.

Detto questo, concludo confessando che lo sto sentendo, non preoccupatevi, lo sto sentendo.
E’ il grido liberatorio di tutti i rifugiati sulla rovere felliniana, felicemente scampati alla lettura del presente scritto, che all’unisono si sfogano in siffatta guisa: «…La prossima volta, leggiti Topolinooooooo!!!...».



mercoledì 22 settembre 2010

La signorina Zompi-Zà


Con la ripresa degli usuali ritmi post-vacanzieri, ho incontrato di nuovo l’omino con la barba (prima puntata e seconda puntata) lungo le strade che portano all’ufficio, anche se in effetti non è propriamente di lui che volevo parlare oggi.
La riapertura di questa nuova stagione “antropo-barbica” mi ha infatti per il momento riservato solo due incontri homo-barbineschi e in entrambe le occasioni, il mio “normal-eroe meta-sessantottino” preferito, è stato più ieratico che mai nelle sue ostentazioni espressive.
Addirittura una volta mi è passato a fianco salutandomi con una silente alzata del palmo della mano spianato verso l’orizzonte sul quale teneva “fiso il guardo”, come un novello fenditore di chissà quali mari rossi della sua umanistica immaginazione socio-barbo-surreale.

Ma oggi volevo raccontare qualcosa di uno degli altri personaggi che popolano il variegato caleidoscopio dei miei incontri mattutini da pendolare.
Si tratta della signorina Zompi-Zà.
Se l’omino con la barba è protagonista delle mie passeggiate per le vie cittadine a contorno dell’orario di lavoro, la signorina Zompi-Zà entra in scena invece lungo il gillipixevole tragitto mattutino in auto. L’avevo già incontrata nei mesi scorsi, e non a caso è ricomparsa in questi giorni, perché la signorina Zompi-Zà è una ragazzina che prende la corriera per andare anche lei in città, alla volta di una qualche scuola.

Per inquadrare il tipo, vi dico che la signorina Zompi-Zà sbuca normalmente fuori da una vetusta casa rurale esteticamente sospesa a metà fra una scenografia di Tim Burton e l’equivalente architettonico di una diffusione post-bellica di pellagra. Come edificio, con annessa aia cianfrusagliesca, pur emanando un’aura non propriamente consona ad ambienti abbienti, si presenta con una qual certa armonia d’insieme. E’ una dimora umile insomma, quella in cui vive la signorina Zompi-Zà, ma di un’umiltà commisurata e dignitosa, che si concretizza soprattutto nella cura di certi particolari, quali graziosi vasetti di fiori o altri ammennicoli decorativi cortilizi.

Come mai dunque “Zompi-Zà”?
E’ presto detto: perché la signorina Zompi-Zà, più che camminare, procede per zompettii. Anche l’omino con la barba, se ricordate un po’, possiede una sua caratteristica andatura caracollante. Ma quella non è niente in paragone ai passi della signorina Zompi-Zà, che quando mette un piedi avanti all’altro lo fa con la verticalizzante leggiadria ritmata di un ago da macchina da cucire.

Non lo fa per vezzo, tuttavia, né per particolarità fisiche che la costringono a muoversi in quel modo. Anche io sulle prime avevo pensato così.
Poi ho finalmente ho intuito le ragioni profonde: la questione è che la signorina Zompi-Zà non tollera la complessità. Ha capito che nella semplicità risiede «la Via».
Per questo marca per bene ogni singolo passo sottolineandolo nella sua delimitata verticalità: perché vuol essere sicura che ogni passo sia uno, circoscritto e precisamente distinto da tutti gli altri.

Da questi pochi indizi, non pensiate che sia fessa o ritardata, la signorina Zompi-Zà. Tutt’altro: è un precoce genio in erba, invece. Nella sua pur breve carriera di pensatrice, ha compreso che la vita riesce meglio se affronti una cosa per volta, o tutt’al più, meno cose possibili contemporaneamente. Per questo ci tiene che ogni singolo passo sia distinto dal successivo.

Tanto è vero tutto ciò che, considerate le sue doti intellettive e la facilità di apprendimento, volevano farle frequentare cinque anni di liceo in uno. Ma lei no, coerente fino in fondo, si sta facendo un anno per volta, come semplicità richiede. Non solo: viste le eccezionali doti, per la signorina Zompi-Zà hanno approntato uno speciale programma, in base al quale in ciascuna giornata segue una sola materia per volta.
Le avevano addirittura offerto l’automobile personale, pagata dall’istituto in cui studia, che l’avrebbe condotta comoda comoda in aula ogni mattina. La signorina Zompi-Zà l’ha rifiutata, preferendo la corriera, perché, sostiene, di corriere sulle strade ce ne sono meno e contribuiscono in minor grado ad accrescere la complessità del traffico veicolare e della mobilità umana.

La colazione l’ha sempre fatta col caffellatte, la signorina Zompi-Zà, fin da bambina, ma da quando si è avventurata nella sua battaglia contro la complessità, ha preso a bersi il caffè da solo una mattina, ed il latte quella successiva. Legge solo un libro per volta, non ne inizia mai due o più insieme; è una degustatrice sapiente ed oculata di buon vino, ma solo se invecchiato in botti senza cerchi.
Se guarda la tv, la signorina Zompi-Zà non lo fa mangiando e viceversa; se si mette al computer, non ascolta musica e ad ogni modo non si serve di hardware in sistema binario, bensì di un apposito linguaggio monorotaia, per altro da lei medesima concepito. Se legge il giornale, non lo fa mai assisa sul niveo scranno di lettura preferito dagli italiani appena alzati da letto.
Al bar ordina spesso il gelato affogato al whisky (evitando rigorosamente il doppio malto), del quale va ghiotta, raccomandandosi però ogni volta col cameriere di mettere nella coppa il gelato, che si gusta al bar, ed il whisky in un bicchierino a parte, da ingollare poi con calma a casa (ve lo dicevo che è geniale…).

Quando scrive, la signorina Zompi-Zà usa meno parole di Hemingway, ma la sua prosa, quanto a proprietà di linguaggio e capacità espressiva, ricolma non di meno i professori di stupore e soddisfazione. Quando parla, la sua sobrietà di frasi fa invidia a Lao Tsu, ma la profondità delle cose dette è altrettanto degna di nota.

Crescendo, non esprimerà mai il voto disgiunto, la signorina Zompi-Zà, né pagherà due per prendere tre, e se verrà eletta in parlamento, ignorerà Chopin e tutte le partiture per pianoforte, e ha già preannunciato che al suo matrimonio, vieterà tassativamente allo sposo di indossare un doppio petto. Non farà mai di tutte le erbe un fascio, perché un’erba alla volta basta, ed evitando le partenze intelligenti, farà sempre da sé per far per tre.

Così, mentre il cavallo campa, la signorina Zompi-Zà ondeggia ogni mattina sotto il peso del suo zainetto, lungo il ciglio della strada, che l’erba del fosso cresce sul mio cammino motorizzato verso il lavoro.
E anche se di tutte le cose che vi ho raccontato di lei, la sola propriamente vera è giusto quest’ultima, rimane pur vero che ormai la sua è divenuta una presenza familiare a questo tempo di mia vita così ordinariamente surreale.



sabato 18 settembre 2010

La meraviglia del mondo dura tre giorni…


Cari amici viandanti per pensieri, oggi vorrei sottoporre alla vostra diligente ponderazione la seguente breve frase: «…La meraviglia del mondo dura tre giorni: ieri, oggi e domani…».
Chi mai l’avrà pronunciata? Vi starete domandando…Forse un esperto di mass-media? Un guru della comunicazione, uno smaliziato frequentatore dei più scaltriti retrobottega pubblicitari e dei sobborghi dell’advertising più avanzato?

Niente di tutto ciò.
Quale non è stata infatti la stessa mia meraviglia nel sentire pronunciare quel sintetico e modernissimo concetto dalla cara voce di una mia anziana zia, in un tardo pomeriggio delle recenti giornate estive, trascorso nel bighellonevole e fondamentale impegno di scacciare le mosche che si insinuavano moleste fra le nostre chiacchiere.

La cosa ancor più sorprendente per me, è stato sapere che mia zia, pronunziando quella sapida massima antica dal sapore così moderno, stava a sua volta citando uno degli adagi preferiti dalla sua adorata bisnonna. Che a questo punto, se la scienza genealogica non m’inganna, dovrebbe esser stata mia trisavola.
Più precisamente, le parole originarie andrebbero riportate nel loro nativo idioma vernacolare di Gillipixiland, per cui suonerebbero grosso modo così: «…La meravilia dal mónd la düra trì dé: iér, incö e d’màn…»

Ad ogni modo, fatti due calcoli, considerato il coefficiente temporale ziesco, senza per altro rivelare la sua effettiva età per delicatezza (ma vi assicuro che è ragguardevole), e tenuto conto altresì della costante amplificativa bisnonnale, se la matematica non è un’opinione, si tratta alla fine di una sentenza già in auge circa un secolo fa, e passa.

Tuttavia, all’udir quella sentenza, mi è bastata una fugace scorribanda fra i pensieri, per farmela apparire subito modernissima, pur nella sua semplicità, e forse ingenuità.

Chi si ricorda già quasi più, oggi, della marea nera nel golfo del Messico?
Chi si ricorda già quasi più, oggi, della legge bavaglio?
Chi si ricorda già quasi più, oggi, delle escort del premier?
Chi si ricorda già quasi più, oggi, di Claudio Scajola, della lista Anemone, ecc.?
Chi si sta già ricordando quasi più, oggi, dell’appartamento di Fini a Montecarlo?
Addirittura, chi si sta già ricordando quasi più, oggi, a distanza di pochissimi giorni, del reverendo Jones e della sua sciamannata iniziativa del “burn a coran day”?

“Chi si ricorda” non è forse l’espressione più consona, ma rende l’idea. In realtà non è un effettivo oblio, ciò che quei temi e quelle notizie hanno patito. E’ chiaro che se vengono menzionati, ciascuno ricorda bene quei fatti. Il fenomeno che li ha travolti è piuttosto una sorta di inesorabile svalutazione comunicativa.

Ho già citato in un’altra occasione il seguente interessante passaggio, ma mi sembra utile riprenderlo qui:

«…La comunicazione è l’opposto della conoscenza. E’ nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti. L’alternativa è un modo di fare basato su memoria e immaginazione, su un disinteresse interessato che non fugge il mondo ma lo muove…».

Contro la comunicazione
Mario Perniola - 2004

Il sistema pervasivo della comunicazione così come oggi lo conosciamo tende a ridurre ogni significato alla sua pura dimensione quantitativa. Di conseguenza tutto quanto è trasmesso, si soppesa nei termini valutativi di un “tanto”, opposto ad un “poco”.

E quand’è che una notizia è tanta? Quando suscita clamore.
Ma il clamore ha durata limitata, è merce a breve scadenza, ecco perché il meccanismo comunicativo necessita sempre di nuovo clamore da mettere sugli scaffali del grande supermarket informativo.

Tutto questo si avvicina molto ad un sistema di trasmissione, se non di “non sensi”, perlomeno di scarsi sensi: ciò che domina alla fine è il “rumore”. E, senza voler fare dello snobismo intellettualoide di bassa lega, si può aggiungere che chi “patisce” di più il fenomeno sono le menti “sprovvedute”, gli individui più indifesi culturalmente, che tendono a trasformarsi in puri “recettori di rumore”, in meccanici e neutrali “reagenti” al clamore, con scarsissimo spirito critico a disposizione e poche o nulle facoltà di analisi dei contenuti di quanto ingurgitato comunicativamente.

Come dicevo, non è tanto per voler fare dello snobismo facile, proprio perché di quegli sprovveduti culturali io stesso mi sento sovente parte: quando si parla di argomenti “tecnici” a me pressoché sconosciuti (un esempio banale, ma verissimo: la politica), trattenendosi però alla sua superficie, come si fa quasi di regola da parte dei comunicatori di professione, ecco che sono automaticamente pure io fra la massa degli “inermi culturali”.

Dice: eh sì, va beh! Ma cosa ci sei venuto a raccontare la favola dell’acqua calda? Son cose che sappiamo tutti a menadito, e sono anche vecchie come il mondo. Non ti dice forse niente questo ben più attempato brano?

«…Già era di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, al Cordusio (una piazzetta o un crocicchio non molto distante da lì), s’era messo l’assedio a un forno. Spesso, in simili circostanze, l’annunzio di una cosa la fa essere...».

I promessi sposi
Alessandro Manzoni - 1841

No, no…per l’appunto, cari amici viandanti per pensieri. Non era mia intenzione qui oggi, mettere su per vostro conto il bollitore del tè. Sono o non sono stato io il primo a dirvi che di queste cose ne parlava già la bisnonna di mia zia?


giovedì 16 settembre 2010

La rivoluzione liofilizzata


Da che uomo è uomo, e la bestia è bestia, sono sempre esistiti i rituali.

Anzi, ci si potrebbe allargare sino a dire così: il livello di complessità nell’elaborazione di rituali è assumibile come parametro per soppesare il grado di sviluppo “culturale”, intellettivo e “strategico-sociale” conquistato da ciascuna specie nella propria millenaria esperienza comunitaria.
Senza i rituali, probabilmente nessun genere di viventi avrebbe mai potuto dare adito ad una propria evoluzione d’identità e di “complessità culturale”, ma soprattutto mai sarebbe sopravvissuto al meccanismo perverso ed inesorabile dettato da una forma d’estinzione particolarmente precoce.

Ad esempio: in assenza del concetto di rituale, la lotta per accaparrarsi i favori di una femmina, anziché risolversi a suon di gozzi ostentati rigonfi e purpurei, o con quattro scambi di cornate a salvaguardia della zucca, oppure ancora con lo sfoggio di automobilone di lusso, cariche politiche e valentia sportiva, si sarebbe giocata su mazzate vibrate in tutta concretezza e gravemente debilitanti, in ciascun frangente, sia per il singolo, sia per il gruppo sociale tutto.

Il rituale è insomma da sempre lo strumento a disposizione delle specie diverse per convogliare l’aggressività, tramite la risoluzione dei conflitti, incanalati entro “forme espressive” di confronto socialmente condivise e ratificate, evitando in questo modo lo scontro fisico e la diretta violenza autodistruttiva, oltre che per l’individuo, anche per la specie stessa.

I rituali offrono anche l’occasione di riflettere sull’inevitabilità di taluni meccanismi sociali tipici della specie umana e sulla loro “irresolvibilità” ed “inestirpabilità” di fondo. Meccanismi esorcizzabili appunto solamente tramite rituali.
Fra queste verità storicamente ineluttabili e comunitariamente indifferibili, ci sta anche il fatto che i ricchi esistono, son sempre esistiti, e sempre esisteranno. In modo particolare, i ricchi sfondati, gli opulenti sfondatoni, i doviziosi esagerati e sesquipedali.

Oggi, per chi possiede velleità di rivolgimento sociale ma non volesse perdere il proprio tempo ad impiantare rivoluzioni di sorta con tutti i crismi, nella consapevolezza dettata ormai dalla “lezione storica” che lo stravolgimento epocale difficilmente conduce a risultati effettivi (mentre i danni collaterali sono immensi), è a disposizione un nuovo rituale a prezzo modico.

Un euro e cinquanta, per la precisione. Basta acquistare il "Corriere della sera" ogni giovedì mattina, con relativa rivista allegata: “Sette”.
Quasi a metà strada fra la piacevole rubrica di libri curata da Antonio D’Orrico ed il simpatico trafiletto di Danilo Mainardi sulle più stupefacenti curiosità del mondo animale, potete regolarmente rinvenire una doppia paginata dedicata ad articoli di moda altamente lussuosi.

Dico che queste due pagine modaiole di “Sette” costituiscono un rituale “sbollisci-rivoluzione”, perché ti offrono un comodo margine di schiumare rabbia nei confronti dei riccastri più smodati, ma senza correre il rischio di venir colto dalla tentazione di appenderne qualcuno per gli zebedei sulla Piazza Rossa, perché l’opulenza è solo evocata, ma il nababbo spavaldo non ce l’hai di fronte proprio in carne, portafogli e ossa.

Ecco un piccolo saggio, riferito ad un paio di “modesti” mocassini (cito da “Sette” testualmente, non vi sto prendendo in giro): «…Pratico ma elegante. Comodo durante le ore trascorse in ufficio, ma anche perfetto per l’aperitivo serale con gli amici. Il mocassino è la scarpa giusta per tutte le occasioni e completa il look, più o meno sportivo, perché è un classico sempre attuale. Ecco la versione in coccodrillo con la suola a pallini Car Shoe. Disponibile in molte varianti di colore (1250 €)…».

Leggendo roba simile, dopo aver sentito il manto scrotale tendersi all’estremo per la pressione cagionata dalla bile in eccesso ivi erroneamente convogliata, puoi sacramentare innocuamente davanti all’immagine del relativo mocassino, senza arrecare danno effettivo al riccastro ipotetico. Puoi maledire in santa pace il “creso” medesimo senza torcergli di fatto un capello, mentre immagini di mazzolarlo con piacere sul malleolo elegantemente lasciato scoperto dal suo mocassino da 1250 micragnosi euro, servendoti del pratico martelletto usato dai ferrovieri per verificare l’efficienza dell’impianto frenante del convoglio.
In questo modo, la pellaccia del possidente è salva, il pericolo di degenerazioni sociali violente ed incontrollate è scongiurato, ma le soddisfazioni di una nostra piccola rivoluzione interiore ce le siamo levate.

Ecco invece un altro saggio dell’agevole applicabilità del nostro rituale (ripeto, ad ulteriore scanso di equivoci: non m’invento nulla e cito sempre testuali parole da “Sette”):

«…Passi bicolor. Sintesi tra gli scarponi da montagna d’antan e la stringata anglosassone con decori a coda di rondine. I nuovi boots bicolor di *** *** sono realizzati in un’insolita combinazione vitello e alligatore trattato suede. Ganci in metallo, inserti in legno e suola carro armato, mix giusto per chi, anche nel tempo libero, non rinuncia allo stile. (6300 € circa)…».

In questo caso la soddisfazione del “rivoluzionario rituale” si concreta tutta nel pensare il riccone mentre passeggia sfoggiando orgoglioso i suoi prestigiosi “boots bicolor”, incappando però sul più bello, e qui perdonate se il mio favellar si fa arditamente oscuro ed allegorico, su di uno stronzo “king size” lasciato cadere sul marciapiede con tempismo ineccepibile da un alano obeso che aveva giusto giusto fatto in tempo a ritrovare la sua naturale regolarità.
Le risate rivoluzionare, al pensiero che a quel punto, lo spropositato benestante potrà sfoggiare i suoi boots finalmente impreziositi da questo restyling in tricolor inviato dalla provvidenza!

Insomma, cari amici rivoluzionari impigriti ed ormai smaliziati dalla storia: ora sapete di avere a disposizione il rituale che fa per voi. Sperando solamente che nel frattempo quelle righe non diano troppo nell’occhio di qualche operaio reduce dal turno di notte in fonderia, appena rincasato nella sua casetta giocondamente vessata da vampiresco mutuo a tasso variabile.
Io ho il vago sospetto che s’incazzerebbe “leggermente”, e forse del rituale non si accontenterebbe più di tanto…voi cosa ne dite?



martedì 14 settembre 2010

Under an orange basketball sky


Fra svariati nipotini diffusi e neo-adulti trasversalmente “incognatati”, ho riscoperto per una sera la magica sensazione di lanciare una palla dentro al canestro. Ci fu un tempo in cui questo gesto per me era tanto familiare quanto lo è sempre stato l’istinto innato di portare alle labbra un bicchiere di lambrusco.

In questa dura terra di bifolchi ai quali io, villano fra gli agresti, ho pur sempre voluto un mondo di bene, con un gruppetto di amici idealisti e sognatori di sogni strisciati e stellati, nel corso della nostra adolescenza tentammo di far capire in giro che con una palla si potevano fare tantissime altre cose oltre a darle “bufalosamente” pedate su calcioni.

La nostra crociata per la civiltà sportiva non sortì tanto effetto, al di là del piacere personale, e la monomania calcistica continuò imperterrita ad ammuffire le “atrofixate” immaginazioni delle genti. Non capirono mai i nostri balletti in palleggio sui ruvidi asfalti dei campetti all’aperto, e così, quei grossi aranci da infilare nel cesto finirono inevitabilmente a riposare il sonno dei giusti nei ripostigli delle nostre speranze sportive.

Tirare a canestro da una certa distanza è un’esperienza.
Il gesto dev’essere fluido, continuo, deciso e del tutto scevro da ripensamenti: la minima esitazione durante tutto il corso dell’esecuzione, ti fa sbagliare senza sconti. La sinistra regge solo la sfera e l’accompagna, ma è la destra che fa tutto. Ghermisce, solleva, si carica il peso del pallone sulle punte, catapulta frustando l’aria e ricadendo “a straccio” con le dita verso terra.

Anche se solo una mente extra-bacata come la mia poteva mai pensarlo, c’è un che di eroticamente virile in quell’atto della mano che tira a canestro, innalzandosi al massimo nel culmine dell’appassionata condensazione d’emozioni, per poi riadagiarsi appagata e a riposo, gustandosi lo spettacolo della sfera ormai libera di vibrare nell’aria.

Ma guai a guardare la palla direttamente “negli occhi” durante il suo volo!
Come nella buffa riproposizione sportiva di un topos caro a tanti miti greci, solo la coda dell’occhio può concedersi il lusso di accarezzarne la parabola, mentre la pienezza dello sguardo è fissa sempre e solo sul cerchio del canestro. E se hai fatto tutto a dovere, preliminari ed esecuzione, la morbidezza nivea e cotonata della retina alla fine ti premia col suo sorriso, rialzandosi sotto la sferzata del pallone che s’è infilato preciso preciso.

Al di là della piacevolezza dei ricordi, è stata una piccola soddisfazione stasera vedere che alcuni piccoli carbonari del basket ancora si annidano nel “Regno oscuro della pedata”, e forti della semplicità di un cesto appeso al muro nei loro cortili, come allora combattono l’opprimente dittatura calcistica.
La passione in boccio di quei mini-cestaioli non cambierà nulla, già lo so.
Il calcio seguiterà a monopolizzare le menti, ma almeno loro, se anche la vita fosse fatta a forma di cubo, potranno sempre dire di averne osservato per qualche momento anche le altre 11 facce.

E ritornando a casa in bici, come tanti anni fa, col venticello che mi solleticava il “coppino” (ndt: la “nuca”) fresco di barbiere, niente di meglio che un cielo “arancio basket” poteva venire a apporre il suo suggello poetico su questa folata di ricordi cestistici così cari, così lontani, ma sempre così presenti e vivi dentro di me.



sabato 11 settembre 2010

Gocce di Verzèl n° 5…o dei pensieri del cavolo


“…Why should I care
If I have to cut my hair?...”
The Who - 1973

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Stamattina mi son detto: voglio superare me stesso! Qual è la cosa più inutile, oziosa, minoritaria, marginale, essenzialmente fondata sul nulla assoluto, di cui io possa scrivere?
Detto, fatto: sono i goccioloni sulle verze!
Se qualcuno mai riuscirà a parlare di un tema più vacuo di questo, beh, lo vorrei proprio conoscere. Perché in quel caso, signori miei, ci troveremo al cospetto di un genio supremo.

Il fenomeno dei super agglomerati idrici diffusi sulla superficie fogliare della “brassica oleracea” (per gli amici: “verza”; per i più intimi ancora: “cavolo”) mi affascina ormai da un po’ di tempo. Sempre in virtù della mia spiccata propensione alla socialità in genere, che mi porta ad entrare maggiormente in confidenza con una verza di quanto non riesca a fare con un umano, ho osservato spesso questa manifestazione della natura tanto inessenziale quanto ricca di una sua piccola dose di defilata spettacolarità.

L’evento si verifica di preferenza sulla verza giovane. Bisogna infatti essere ancora lontani dalla formazione del tipico bozzolo cavoloso della verza matura, ed il vegetale deve presentarsi con le sue ampie foglie verde cupo belle distese. In questa fase, i nostri esemplari offrono al cielo giuste giuste le fattezze di piccoli ombrelli bene aperti, pronti a ricevere l’alternanza vivifica di raggi solari e di scrosci piovani, che sono la benedizione del loro successivo arruffamento nel delizioso panetto a palla, di cui i buongustai vanno ghiotti.

Ed è proprio con la complicità della pioggia, che il piccolo portento di cui vi voglio parlare, si concretizza. Se si tratta di un bel temporale, tanto meglio, oppure credo che basti anche una bella rigorosa rugiada come si deve, ma fatto sta che dopo il suo confronto con una qualche circostanza acquea di rilievo, potete ammirare la vostra rigogliosa verza impreziosita da una spruzzata di meravigliosi goccioloni obesi.


Ora qui s’impone di riflettere sulla questione della goccia. La goccia in natura, la possiamo considerare come una sorta di chimera evanescente quanto mai. Di gocce ne parliamo spesso, soprattutto a livello metaforico, in tantissimi dei nostri ragionamenti quotidiani. Ma in effetti sono pochissime le circostanze in cui ci siamo ritrovati a poter osservare, con nostro ampio agio, una goccia d’acqua ben formata, fermata e stabilizzata nello spazio e nel tempo.
Per fare alcuni esempi, le gocce di pioggia sono innumerevoli e di mille fogge, ma non si possono guardare attentamente con la calma sufficiente, perché tempo che l’occhio le catturi, son già belle e che fracassate al suolo. Le gocce di sudore, altresì, sono più addomesticabili dall’occhio, ma complice la superficie cutanea, si sfaldano presto, si diramano nelle mille strade di rivoli dettati dalle curve e dalle pieghe del corpo, perdendo ad ogni mm. del loro cammino-scia sempre più volume e consistenza.

Ecco dunque che la verza si prefigura come validissimo alleato nella non comune impresa dell’osservazione delle altrimenti fuggevoli gocce acquee. E che signore gocce, mi viene da dire!
Tutto si gioca, da quanto ho capito, sulle proprietà speciali che può vantare proprio la superficie delle foglie. L’impermeabilità di cui la verza può andare fiera è qualcosa di eccezionale. Ho provato poi anche a simulare il fenomeno versando sopra al soggetto una scodella d’acqua, tanto per vedere cosa succedeva, ed ho potuto assistere alla nascita in diretta di decine e decine di gocce perfette. Peccato però che riproducendo artificialmente il meccanismo, le gocce non si fermino. Anzi, dovevate vederle: scorrono via rapide dal mantello verzale con la stessa celerità di un nugolo di impiegati ed operai pendolari scesi da un treno alla stazione Cadorna di Milano nell’ora di punta.

Non è così facile infatti per la massa acquea trovare appigli lungo il super sofisticato tessuto da cui è formata quella serica cute cavolesca, quella sorta di Verzetex (©) che dovrebbe essere oggetto di studio scientifico al fine si sostituire l’ormai obsoleto Goretex.
Per questo è ancor più stupefacente lo spettacolo che si presenta dopo una bella pioggia abbondante. Chissà quali equilibri si sono giocati fra verza e Giove Pluvio, chissà quali compromessi fra goccia e foglia, quali accordi segreti di attriti e scivolamenti si sono stabiliti per contratto naturale, tanto da fare addensare una sequela di goccioloni tali.

Sono gocce grasse e rigogliose quelle che potete ammirare, belle incurvate nel punto di contatto fra la foglia ed il loro perimetro di base, divenuto quasi una sorta di ampio piedone placido posato indolente sul verde. Sembrano perle di varie misure, eleganti nella loro superficie tesa quasi al limite dell’infrangersi in un rivoletto improvviso, che però viene tenuto in sospensione costante. S’imbevono della luce e te la rimandano amplificata, com’è proprio della loro natura di effimeri diamanti tondeggianti. Sono sensuali e donano allo sguardo una sotterranea soddisfazione gioiosa, come accade con tutti i fenomeni naturali ricchi di curve ed abbondanza.

La bellezza dei goccioloni verzali sta quindi tutta in questo gioco di sottilissimi equilibri fra aria, acqua e flora, in grado di dar vita ad un fascino precario nella sua pur circoscritta stabilità.
Il sole infatti presto esigerà il suo tributo, richiamando verso il cielo, con un graduale svaporare, la loro luce che gli appartiene. Ma nel frattempo forse qualche occhio sfaccendato, non avendo per sua fortuna impegni più impellenti da onorare, si sarà ben pasciuto di quella piccola e fugace meraviglia.

- Qui anche il mio sasso perfetto al 100% ha voluto dire la sua


mercoledì 8 settembre 2010

Stufato di vita


Out here in the fields
I fight for my meals
I get my back into my living.

I don't need to fight
To prove I'm right
I don't need to be forgiven.
yeah,yeah,yeah,yeah,yeah

Don't cry
Don't raise your eye
It's only teenage wasteland

Sally, take my hand
We'll travel south cross land
Put out the fire
And don't look past my shoulder.

The exodus is here
The happy ones are near
Let's get together
Before we get much older.

Teenage wasteland
It's only teenage wasteland.
Teenage wasteland
Oh, yeah
Its only teenage wasteland
They're all wasted!

Baba O’Riley
The Who – 1971

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Forse il senso della vita consiste proprio in un’incessante, altalenante ed appassionante ricerca di nuovi significati cumulativi da assegnare alla vita stessa. Forse tutto il senso sta nella “ricerca per la ricerca”, in una curiosità inquieta che si autoalimenta ritrovando in se stessa quel combustibile dal quale è a sua volta ciclicamente travolta e ri-combusta.

Mettiamola così: forse la vita è tutta una stufa che si stufa.

Fra i vari ceppi, ciocchi e trucioli rinvenuti di recente dentro la stufa delle mie significazioni esistenziali, c’è andato a finire anche il seguente piccolo, minoritario, randellino di legna concettuale da ardere: vivere può anche voler dire passare il resto del tempo successivo all’adolescenza, impegnati a sciogliere tutti i nodi, i lacci ed i lacciuoli che esattamente durante il periodo della “teen-age-itudine” ci eravamo ben curati di stringere belli stretti ed intricati.

La fase “ormo-bombonale” di nostra esistenza che s’accoda alla fanciullezza (leggi sempre: adolescenza) è giusto il tempo delle sentenze definitive…indefinitamente destinate a richiudersi a riccio attorno ad una perentorietà talmente risolutrice, da sembrare quasi fatta apposta per essere radicalmente smentita nelle successive età.

Ogni giudizio riguardante se stessi e il proprio mondo, quando si è adolescenti, suona come un verdetto tremendo ed incontrovertibile, praticamente eterno.
Ti fa schifo un aspetto del tuo carattere?
A 15 anni, sarà per sempre.
Sei insoddisfatto di qualche parte del tuo corpo?
A 13 anni, sarà per sempre.
Detesti un libro, una persona, uscire di casa, stare in casa, studiare, parlare, tacere, dire, fare…baciare, lettere e testamento?
A 17 anni, 4 mesi, 22 giorni e 3 ore, tutto questo sarà per sempre.

Non è che in seguito, il modo di vedere tutte quelle cose si stravolga completamente. E’ piuttosto la propria “sapienza estetica” a raffinarsi, ad assumere “personalità”, a diventare più ricercata, ad acquisire la capacità di comprendere, accogliere e “filtrare” la complessità.
La dimensione della saggezza acquisita crescendo, si può dunque misurare con lo scioglimento di un nodo dopo l’altro, fra i tanti che avevamo allacciato durante la fase adolescenziale. L’immagine mi pare piuttosto calzante: l’idea del nodo che si scoglie dà il senso della liberazione che accompagna il graduale “snodamento”. Sono vincoli che prima si allentano e poi ci lasciano andare liberi, ci fanno respirare meglio, ci fanno sentire più completi nella nostra personalità.

Per fare un esempio, ho scoperto che il mio corpo di oggi è molto più “saggio” di quello da ragazzino. Sebbene leggermente meno prestante, com’è naturale, capisco molto meglio quando “mi parla” e nel nostro dialogo c’è più comprensione, più complicità e reciproco gradimento.
Ho altresì imparato ad assaporare meglio la mia “presenza nel tempo”, il mio modo di sentirmi nei diversi momenti della giornata o di giornate diverse; ho anche imparato a convivere persino con la noia, quando non è eccessiva, o perlomeno a minimizzarne i danni.

Mi sta capitando poi giusto giusto in questi giorni, lo scioglimento di un grande nodo adolescenziale che si viene a “slacciare” con inatteso e copioso stupore. Parlo del mio rapporto con «I promessi sposi» del Manzoni.

Si obietterà: «…ma come, a questo punto ci aspettavamo che tirassi in ballo i massimi sistemi adolescenziali, tipo l’acne giovanile o la miopia di origine onanistica, e invece ti riduci a parlare di un libro?...».

Può darsi che esageri, ma per me «I promessi sposi» valgono quanto i più importanti passaggi d’iniziazione post-puberale. Nel bene e nel male.
Se scegli di essere pischello studiante di un certo tipo, per Dante, per Virgilio, per Omero, e per Manzoni appunto, ci devi passare, e raramente son rose e fiori. Son piuttosto spesso “fioroni”. Quelli che ti fanno nelle interrogazioni.

Insomma, il Manzoni non lo puoi amare a scuola, sarebbe quasi contro natura, e anche io ovviamente lo lessi quasi sempre con la fretta nelle gambe di correre al campetto da calcio o da basket. Lo trovavo parruccone, macchinoso nella prosa, lontanissimo dalla sensibilità moderna, arzigogolato…che fesso che ero!

Come per tutti i migliori incontri, anche questa mia reunion di ravvedimento col Manzoni è avvenuta del tutto per caso. L’ho visto in edicola (pensate un po’…), in un’edizione che mi ha colpito, bella compatta, super-tascabile, del tutto in contrasto con la fossilizzata idea di “mattonità” derivata dalle esperienze adolescenziali.

Fin dalle prime righe è stata una folgorazione, un godimento lessicale e narrativo che mi ha immerso in un diffuso senso di meraviglia. Come dicevo prima, non è che il mio modo di percepire «I promessi sposi» sia stato stravolto dal tempo della scuola: non ero un minus habens allora e non sono un genio adesso.
E’ solamente la mia “sapienza estetica” ad essersi ritrovata più raffinata: è stato esattamente come riscoprire una rinnovata confidenza con una parte del mio corpo.
Perché «I promessi sposi» (come il Decameron, come la Divina Commedia), in qualità di nostra intelaiatura linguistica di fondo, sono effettivamente una parte del nostro corpo, sono dentro la nostra voce e le nostre parole, sono lì, a fare da architrave, da pilastri, da colonne a quello che diciamo, scriviamo e pensiamo.

E se proprio ci fosse bisogno di ricordare la loro modernità, assaporate questo piccolo passaggio che è un incanto di stupefazione senza tempo:

«…Il primo svegliarsi dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo...».





giovedì 2 settembre 2010

Do not consider me gone!


Cari amici viandanti per pensieri, non sono sparito...magari!!!...
E' solo che alcuni molesti lavoretti domestici forzati di gratta e ridipingi, mi hanno imbrigliato tutte le forze in questi giorni e mi sono rimaste zero energie concettuali.
Non sono avvezzo alla fatica fisica vera e propria, e quando mi è capitata fra i piedi, mi è sempre successo di provare delle specie di estasi da stanchezza. Quando sorpasso la barriera del suono della schiena piegata, il mio raziocinio emette il relativo "boom", e vedo l'inaudito, e sento l'inveduto.

Questa volta ho visto che mi sarebbe piaciuto essere eroe per una sera.
Invece di carta vetrata e pennello, un lazo ed un fiero appaloosa delle praterie sarebbero stati i miei strumenti di lavoro. Dopo una giornata di fatiche a domare mustang e marchiare vitelli al mio ranch, mi sarei concesso una serata in quel bar lungo la statale 69.

Sarei andato al bancone ad ordinare il mio whisky doppio (...che non ho mai capito di che minchia è il doppio) e subito avrei visto un gruppo di sbruffoncelli importunare una ragazza ad uno dei tavolini. Con un intervento a base di cazzotti e calci in culo, avrei fatto fare le scintille alle suole degli ingrati importunisti, una volta polverizzati i quali, sarei stato invitato dalla gentile signorina a sedere vicino a lei.

Avrebbe avuto due tette siderali (...e se no, cosa mi sarei scomodato a fare), e sarebbe stata la ragazza più dolce del vecchio west, capelli neri e occhi profondi come un orizzonte.
Dopo un piacevole tempo passato in armoniosa conversazione, mi avrebbe invitato a casa, se per caso mi fosse andato di assaggiare la sua torta di mele.
Io mi sarei alzato di scatto, e mentre l'avrei presa dolcemente per mano, per accompagnarla verso il mio furgoncino Dodge modello "Old Vaccar", dal juke box sarebbe partita questa canzone:



Minchia!!!...ma cosa c'era dentro in quella vernice con cui ho fatto l'aerosol tutto il giorno?