martedì 30 novembre 2010

Ma guarda dove son capitato...tra i lavoratori!!!

A voler scegliere, non se ne verrebbe mai a capo, tanti ne ha fatti di stupendi. Ma alla fine, quello a cui rimango più affezionato rimane sempre questo:




Grazie, Maestro!

sabato 27 novembre 2010

My feet is my only carriage

"Waiting for an haircut"
Gillipixel - 2010

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Oggi volevo parlare dell’importanza suprema di una cosa molto infima. Non tanto perché di per sé questo elemento sia così schifoso, anche se in effetti può diventarlo, in certe circostanze particolari. Questa cosa è invece infima per il fatto di stare in basso.

Anzi, è l’«in basso» per eccellenza. Sto parlando del piano su cui posiamo i piedi e più propriamente di quando questo supporto si trova in spazi esterni, pubblici. Il suolo, il terreno, la superficie “per terra”, la pavimentazione, chiamatelo un po’ come volete. O anche, per citare il sommo Vito Catozzo (prima che diventasse un romanziere famoso): il «…porch’immondo che c’ho sott’i piedi…».

L’idea (banale di per sé, ma quasi mai tenuta nella debita considerazione) sarebbe questa: un suolo non curato, sciatto, trasandato, lasciato andare, inficia fortemente la nostra percezione dello spazio che ci troviamo ad attraversare e a vivere. Il riferimento va soprattutto ad ambienti urbani o perlomeno caratterizzati dalla presenza significativa di edificato (quindi anche paesi, e anche piccoli), ma il discorso è estendibile ad ogni superficie piana che, pur conservando una propria “naturalità”, sia tuttavia fortemente modificata dalla mano dell’uomo (tutta una gran perifrasi lagnosa, solo per dire: i giardini, i parchi, le aiuole, ecc.). E ci metterei dentro anche i pavimenti dei negozi o dei grandi magazzini, o dei teatri e così via. Insomma, tutti quei “suoli” che pur essendo parte di un “interno”, sono tuttavia per loro natura aperti alla frequentazione pubblica.

Ma vi dirò di più, mi spingo ancora più in là con la tesi (voi sempre liberi di mettere mano a frutta e uova marce “da lancio”…). Un suolo non curato influisce negativamente anche sul nostro umore. Ora, la cosa ovviamente non è così matematica, né immediata, né tanto meno drammatica. E ancora meno, un suolo impeccabile potrà eventualmente consolarvi dai vostri guai con la professionalità di uno psicoterapeuta.
Non dico questo.

Però magari, la prossima volta che vi trovate in un ambiente che non vi aggrada tanto, pur essendo di per sé “in teoria” ben curato e progettato, e non riuscite a capire il perché di quel fastidio di fondo apparentemente ingiustificato…provate a gettare un occhio a dove state posando i piedi. Può essere che sia quella superficie la causa del vostro sentirvi fuori posto, stonati.

A farci bene caso, quando camminiamo in giro (“antiperifrasi” rozza per dire: quando ci troviamo a muoverci in uno spazio pubblico) e manteniamo lo sguardo ad un’altezza media, una buonissima fetta del nostro campo visivo è occupata dalla superficie orizzontale. Addirittura, in spazi ampi come può essere una grande piazza o un giardino urbano, se si fa un inventario dello spazio visivo che si spartiscono fra loro gli elementi verticali (i muri delle case) e quelli orizzontali, vediamo il suolo prevalere alla grande.

Psicologicamente, la tendenza a considerare il nostro intorno “naturalmente” impostato secondo una struttura “ternaria” formata da “una base + un’estensione in verticale + un tetto” rappresenta una delle eredità ataviche più forti che il nostro inconscio si porta dietro, dalla notte dei tempi.
Senza scomodare gli “archetipi dell’incoscio collettivo” di junghiana memoria, è un fatto che millenni di confronto con elementi quali gli alberi (base + tronco + chioma), i monti (piedi + pendici + vetta), gli scenari naturali (suolo + alberi o monti + cielo), hanno creato nella nostra percezione dello spazio un’aspettativa di “tripartizione ascendente” ormai radicata fortemente nel nostro immaginario. Non a caso, la colonna, uno degli elementi più simbolici, antichi e duraturi di tutta la storia dell’«edificazione umana», è tripartita in “base + fusto + capitello”, ed a questo schema nel corso della storia delle costruzioni erette dall’uomo, hanno pagato poi un tributo anche tante altre forme architettoniche (il palazzo signorile, i campanili, le chiese, persino i modernissimi grattaceli, e così via).

Inoltre il suolo reca con sé tantissime altre valenze simboliche.
E’ il nostro contatto diretto col mondo, ci passa sotto i piedi, ci trasmette gli “umori” del nostro pianeta e se un giorno ci gira il ghiribizzo di dare un bacio alla Terra, perché di colpo ci siamo accorti di quanto sia bella (magari perché una cara amica ce l’ha appena data, ma queste sono motivazioni grevi e superficiali…), l’unico modo è chinarci giù a posare le labbra sul suolo.

Perché dunque, nelle nostre città, nei nostri paesi, nei nostri paesaggi, la superficie su cui posiamo i piedi dovrebbe essere poco importante, se è da lì che tutto trae origine, tutto si dispone per ascendere?

Un esempio di armonia mediamente ben curata fra suolo ed edifici, lo si può trovare nelle località “nordiche”. Mi riferisco a Parigi e Vienna, perché non ho viaggiato molto (sapete com’è: noi campagnoli pigri...) e conosco un po’ meglio queste stupende città, ma sono sicuro che posti come Oslo, Copenaghen o Stoccarda sono altrettanto degni di considerazione sotto questo aspetto.
A Parigi in particolare, quando ci andai, tanti anni fa, notai parecchia attenzione per i particolari della pavimentazione, e so che questo contribuì non poco a farmela percepire come un posto in cui si ama molto la bellezza.

Esempi poco belli invece, ahimè, li ho visti sempre in Italia.
Roma è la città in cui forse si può capire meglio l’importanza del suolo, perché offre esempi sia buoni sia cattivi. E poi a Roma gli esempi di “suoli negativi” risaltano ancor di più, in quanto spesso stridono fortemente, magari con le portentose architetture di cui la nostra cara città eterna è piena zeppa. Basta un marciapiede semi-sfondato o rappezzato male, un cordolo che cede continuamente, oppure una commistione balzana di materiali a formare un balordo patchwork “cementizio-asfaltizio-lapideo” mal distribuito, che anche il più bel palazzo si trasforma in un gigante dai piedi d’argilla, in un gran signore di classe, elegantissimamente vestito, ma con le scarpe bucate ai piedi.

Un altro caso che mi duole citare (ahimè doppio!) è quello di Milano, perché è una città alla quale voglio bene e sono molto affezionato, ma va detto che sotto l’aspetto dei suoi “suoli”, lascia spessissimo a desiderare. E se nel caso di Roma, questo handicap può rappresentare talvolta un “neo”, per Milano, città generalmente non nota per i suoi pregi estetici, può diventare un’aggravante notevole.

Insomma, cari amici viandanti per pensieri: la prossima volta che vi ritroverete a passeggiare per le vie della vostra cara città, del vostro amato paese, posando gli occhi in giro col piacere di tornare a gustarvi l’ambiente a voi familiare, fate caso un po’ anche al suolo, dedicategli qualche occhiata in più: c’è tanto da vedere pure lì, ne vale la pena.

E non solo per risparmiare le suole dalle cacche di cane.



giovedì 25 novembre 2010

Lucio Fontana: un taglio col passato


Vi avevo promesso Lucio Fontana, e Lucio Fontana sia.

Come mai la mia nuova rubrica «Piccole sbrodolate d’arte sulla camicia» inizia proprio da questo artista? Ve lo confesso: ho aperto a caso il quarto volume della storia dell’arte dell’Argan e ho beccato il primo tema sbucato fuori, che era appunto un capitoletto (breve, ma significativo e molto intenso, come capita sempre con la prosa di Argan), riguardante l’artista delle tele tagliate.

Ma siccome le cose fatte a caso sono spesso le migliori, non viene neanche male partire da Fontana, perché mi offre lo spunto di introdurre già diversi importanti concetti sull’arte in generale, su quella moderna in particolare, e sul confronto fra le due.

Mi concentro sulle tele tagliate, che sono le creazioni per le quali Fontana è maggiormente conosciuto e rappresentano anche la classica opera moderna che fa esclamare lo scettico: «…E beh? Ma sarà mica arte questa? Son capace anch’io di fare una roba del genere…». Ecco: come dare torto allo scettico? Ma proviamo ad andare per ordine e vedere se si può dire qualcosa di più. Mi affido a Giulio Carlo Argan, per partire.


Argan richiama la nostra attenzione sul piano, sulla superficie bidimensionale: per secoli è stata (e continua ad essere tutt’oggi) la dimensione privilegiata della finzione pittorica. Già: non so se ci avete mai riflettuto sopra, ma la pittura è intrinsecamente “menzognera”. L’azione dell’artista che col disegno e i colori cerca di “comprimere” un mondo a tre dimensioni fisiche, sulle due risicate dimensioni di una tela, si può senz’altro chiamare un “inganno concordato”.
C’è un patto stretto tra l’artista e chi osserverà la sua opera: si sono accordati sulla riduzione del loro discorso alla bidimensionalità, che diviene il linguaggio convenzionale del loro dialogo.

Ora, come s’inquadra in questo discorso la scelta di Fontana di tagliare le tele? L’intenzionalità che c’è dietro quei tagli, sta nell’azzeramento di secoli di finzione: aprendo un varco sulla superficie della tela, Fontana ristabilisce il naturale contatto fra lo spazio che sta davanti e quello che sta dietro di essa. Torna in questo modo a rendere allo spazio tutti i meriti che gli competono, risarcisce la tridimensionalità di secoli di “compressione” innaturale. Ridona allo spazio il suo “continuum naturale”, sfondando la membrana della pittura che per secoli l’ha interrotto. Non a caso, tutte le tele con tagli di Fontana hanno titoli nei quali ricorre sempre l’espressione “concetto spaziale”.
Il senso dei tagli di Fontana sta dunque nella demolizione di una finzione espressiva secolare, e al riguardo, Argan chiosa: «…distruggere una finzione significa recuperare una verità…».

A questo punto, mi pare di risentire lo scettico di prima, che torna alla carica: «…Ah…però! Visti in questa prospettiva, ‘sti tagli non fanno poi così schifo…ma mi rimane sempre un grosso dubbio: gli artisti del passato non c’era bisogno che me li spiegassero. Con questi qui moderni invece, sembra sempre di avere in mano un frullatore nuovo o un lettore dvd: non si può mai fare a meno del libretto delle istruzioni. Prendi Michelangelo, ad esempio: lui mi arriva più direttamente, in lui riesco a trovarci subito elementi familiari…tutto sommato allora, preferisco farmi ingannare da Michelangelo, che non sorbirmi la sincerità di Fontana…».

Obiezioni legittime, caro scettico.
Ma lasciami fare un esempio banale e magari poi ne riparliamo. Ribadisco: si tratterà di un espediente argomentativo proprio banale, ma certe volte, riducendo il discorso ai minimi termini, ci si avvicina meglio ai concetti.
Prendiamo, per il mio “banal-esperimento”, la seguente immagine tratta da una delle opere più celeberrime di tutti i tempi: la scena della creazione, dagli affreschi della Cappella Sistina, del buon Buonarroti (ehehheheeh…).
Prima di proseguire nella lettura, mi raccomando di osservare bene la foto, cercando di cogliere tutti i significati che questo dipinto vi suggerisce. Prendetevi tutto il tempo per l’osservazione, e solo dopo proseguite nella lettura.


Ora, come direbbe Giovanni Muciaccia di «Art Attack»: fatto?!?!?

Per chi conoscesse già l’arcano, quanto sto per dirvi suonerà ancor più banale, ma per tutti gli altri (sempre che non se ne siano accorti durante la loro disamina del dipinto michelangiolesco…) magari sarà fonte di piacevole stupore sapere che quella sorta di nicchia (formata da un mantello svolazzante e dal coacervo di angeli in esso contenuti) nella quale è compresa la figura dipinta di Dio, Michelangelo la dipinse volutamene con la sagoma di un cervello umano visto di profilo. Riguardate bene e non avrete alcun dubbio.

Sia a chi possedeva già questa informazione, sia a chi l’ha appresa solo ora che gliel’ho segnalata io, adesso chiedo: se non vi avessero avvertito, avreste colto direttamente questa sfumatura del disegno michelangiolesco?

Ora capirete ancor meglio perché il mio esempio era banale, ma in qualche modo utile. Quello che volevo dire è in sostanza questo: Michelangelo e i grandi maestri del passato, quelli che ci sembrano più familiari, quelli che pensiamo di capire meglio, in realtà non hanno meno bisogno di “libretto d’istruzioni” di quanto ne abbia bisogno Lucio Fontana.

L’arte moderna in genere, e soprattutto quelle sue “porzioni” denominate “astratta” e “concettuale”, hanno abbandonato il contatto diretto con la realtà sensibile, per affidarsi ad un contatto con essa mediato dall’intelletto. Le sillabe del linguaggio sono sempre le stesse: linee, spazio, fisicità evocata tramite segni e materiali. Ma le corrispettive “…sollecitazioni psichiche, culturali, emozionali…” (come dice Sottsass: vedi precedente articolo) sono ora circoscritte ai “meccanismi puri” da cui esse scaturiscono.

Per banalizzare ancora: una linea zigzagante diventa “direttamente” espressione di uno stato d’animo d’eccitazione, così come un tratto sinuoso può suggerire “direttamente” una dimensione di quiete. Ecco perché a partire dall’arte moderna, abbiamo cominciato a vedere opere fatte di linee pure o colori puri (MondrianMiròKlee - El Lisickij - and so on), senza riferimento, o quasi, ad elementi sensibili, reali, concreti: il linguaggio era stato ridotto alle sue sillabe.
Anche i tagli di Fontana sono “sillabe pure”, isolate nell’ambito del linguaggio che muovendo dalla fisicità giunge alla significazione emotiva e culturale.



Se nell’arte antica era dunque la “mediazione naturale” a dettar legge, ossia il “raccontare” a partire da un sottofondo naturalistico, nell’arte moderna, spesso non si può prescindere dalla mediazione intellettuale. Solo se accettiamo questo assunto, potremo accettare opere come le tele tagliate di Fontana o l’orinatoio di Duchamp.

Cosa dice a questo punto lo scettico, sempre quello di prima? Continua a dichiararsi tale? Va beh, è del tutto lecito. Io chiudo solamente dicendo che quelle piccole fessure d’aria create da Fontana sulle sue tele, quei silenti salvacondotti per passare fra due spazi separati per secoli al di qua e al di là della tela, alla fine un loro discreto fascino ce l’hanno.


martedì 23 novembre 2010

Piccole sbrodolate di sugo artistico sulla camicia


«…Roar!!!…»

Un leone del Serengeti – Stamattina

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«…Venghino, sióre e sióri, venghino!!! Si va qui oggi ad incominciare una nuova mini-rubrica di “Andarperpensieri”, ma questa è solo la presentassione, n’è vero...fermo bambino, piantala di scaccolarti e lassiami lavorare…».

Dopo aver fatto un po’ mente locale sulle tematiche che grosso modo tratterà questo nuovo angolino di parole fra le mie parole, e sulle modalità con cui mi piacerebbe esporle, mi sono preoccupato subito del titolo. Credo che la rubrichetta s’intitolerà «Piccole sbrodolate di sugo artistico sulla camicia». Dal che si arguisce che in qualche modo si parlerà di arte. In un primo momento volevo intitolarla «Le mini lezioni d’arte del dottor Gillipixel», ma poi mi suonava troppo pomposo e pretenzioso (anche se ovviamente il tutto era detto con ironia…), così mi è sembrato più appropriato optare per l’alternativa suddetta.

Come funzioneranno le «Piccole sbrodolate di sugo artistico sulla camicia»?
Prenderò in esame di volta in volta un protagonista di rilievo della storia dell’arte, di qualsiasi epoca, dall’antichità alla modernità, e cercherò di trasmettervi l’essenza di quello che ho capito io riguardo alla sua “poetica”, ossia sull’essenza del suo fare arte. Di bello ci sarà che potrete leggere anche notevoli cazzate, non essendo io uno specialista, né studioso, né esperto della materia, ma bensì solamente un curioso che “si pone domande e cerca di darsi risposte” intorno all’affascinante mondo della creatività, sperando, se si può appena, di sortire esiti qualche gradino sopra la “marzullianità”.
Il lancio virtuale di ortaggi sarà dunque cosa eventualmente più che lecita.

Il mio testo base di riferimento sarà principalmente uno (anche se in realtà sono 4 volumi), ossia la storia dell’arte di Giulio Carlo Argan. Perché una scelta così limitata ed in fondo discutibile? Una trattazione seria di certi temi non dovrebbe fare affidamento su di una bibliografia più articolata?
Una trattazione seria, sì.
Ma credo che la mia potrà anche concedersi questo lusso di pigrizia. Il testo dell’Argan ha inoltre per me un grande valore affettivo-culturale, come mi è già capitato di dire: su di esso si è formato il mio interesse per l’arte e oserei dire anche quello per la cultura in generale. Se capiterà, non mancherò di integrare gli articoli della rubrica con spunti tratti da altre fonti, ci mancherebbe. Ma di base, farò riferimento alle adamantine analisi di Giulio Carlo Argan.

Come dicevo, questa è solo un’introduzione esplorativa. Conto di inaugurare prossimamente in modo ufficiale la rubrichina «Piccole sbrodolate di sugo artistico sulla camicia» occupandomi di un artista moderno, Lucio Fontana.
Sì, proprio quello delle tele tagliate.

Ma per non lasciarvi così, a “bocca critica” asciutta, mi congedo per ora con una bellissima frase letta oggi su un libro che non è quello dell’Argan (tanto per smentire subito il mio manifesto d’intenti…). In pochissime righe, condensa uno degli obiettivi primari colti dal fare artistico (qui in particolare, dalla pittura) ed introduce di soppiatto il concetto fondamentale di “composizione”, sul quale magari ritornerò ancora.

La frase è contenuta nell’autobiografia (o raccolta di scritti...) del grande architetto e designer Ettore Sottsass, un bel libro che si legge con la golosità di un romanzo, intitolato «Scritto nella notte».
Dice precisamente questo:

«…La quantità dei colori e i loro rapporti sulla superficie provocano l’apparizione di strutture molto sofisticate, anzi quelle strutture possono finire per essere la ragione stessa della pittura, perché nello stesso momento in cui sono strutture ottiche sono anche sollecitazioni psichiche, culturali, emozionali…».

Scritto nella notte
Ettore Sottsass - 2010

Arrileggerci presto con Lucio Fontana.

domenica 21 novembre 2010

Un funghetto, trallallà


Ieri ho scattato questa foto, pensando: «…Boh, per ora non so ancora, ma poi mi verrà in mente qualche cosa su questa immagine, da raccontare ai miei amici viandanti per pensieri…».
I pensieri però sono belli quando fluiscono spontanei. Non li puoi forzare, perché dopo si coglie l’innaturalezza e si evidenzia la fetenzìa.

Vedendo dunque che non ne scaturiva nulla, mi sono accontentato di aver fatto una foto curiosa e poi ho guardato due film (come “consecutio logica” mi pare che ci siamo…o no?).

In realtà, col primo film si è trattato di un ripasso. Sto parlando di «Full metal jacket» (di Stanley Kubrick, ma cosa ve lo dico a fare…). Ogni tanto lo devo rivedere, perché a mio avviso è uno dei film più belli della storia del cinema. Questa considerazione mi fa scattare spesso diversi interrogativi riguardo al senso della bellezza.

La bellezza può essere determinata anche da componenti “non belle” di per sè? La risposta è sì, e «Full metal jacket» sta lì per dimostrarlo. Non c’è proprio nulla di “bello” in quel film, ma nondimeno è uno degli esempi espressivi umani dagli esiti estetici più potenti e penetranti di tutta la storia della creatività del ‘900.
Kubrick si arrotola la manica, affonda la mano fino al gomito nella melma portentosa della realtà, nella esaltante feccia della vita, e la tira fuori tutta inzaccherata, stringendo un pugno grondante di contraddizioni e paradossi: ecco esattamente quello che fa in «Full metal jacket».

La bellezza qui non è data da cose “belle”, ma sta tutta nell’occhio lucido, nello sguardo onesto, pulito ed umanissimo di Kubrick. E naturalmente, sta anche nella perfetta sintonia tra forma e sostanza (che si fa presto ad avere in mente come scopo da raggiungere, ma se non ti chiami Kubrick, hai voglia a sprecare chilometri di pellicola…).

Dato che ero partito con un certo tono, ho voluto continuare a trattarmi bene, e mi sono poi gustato «L’uomo che amava le donne», di Francois Truffaut. Questo film tocca ovviamente registri molto più delicati, sfumati, sottili, tracciando in questo modo un’altra strada maestra verso la bellezza (Altro appunto da segnarsi sul taccuino: non solo la bellezza non è data necessariamente da cose “belle”, ma le vie che portano alla bellezza sono infinite).

Truffaut ci dice che ciascun uomo vorrebbe amare tutte le donne del mondo.
C’è chi cerca di applicare questo programma alla lettera, votandosi al “dongiovannismo militante” (come il protagonista del film); c’è chi riesce a sublimare, condensando tutte le donne del mondo in una sola (e forse questi, tutto sommato, sono i più fortunati…); c’è chi opera invece una sublimazione al contrario, rifuggendo in un “platonismo” più o meno forzato, più o meno voluto, più o meno imposto dalle circostanze (e questo mi fa venire in mente qualcuno, senza fare nomi né cognomi, ma solo iniziale e finale: “g” ed “l”).

Ci sono insomma tante varianti nelle quali si può concretizzare quell’afflato “sovrumano troppo umano”, ma nella sostanza per il maschio (intendendo il termine depurato da qualsivoglia accezione “machista”) ciò che rimane è sempre una tensione a fondersi col più potente “altro da sé” che la vita gli pone dinnanzi, nell’eterna nostalgia per una completezza forse un tempo posseduta, in chissà quale dimensione, in chissà quale realtà.

Guarda che ti riguardo dei bei film, va a finire che mi tornano in mente i miei funghetti, quelli della foto. Ho così pensato che spesso mi viene da scattare fotografie in cui cerco di creare una sorta di dialogo fra un oggetto in primo piano e uno scenario in lontananza, con altri oggetti. Non nego che la cosa, il più delle volte per pigrizia fotografica, mi viene spontanea nella ricerca di un facile effetto.

Ma forse c’è qualche motivo recondito in più ed ha a che fare con il cambio di prospettiva, col desiderio continuo di mutare le proporzioni del mio sguardo sul mondo. Forse vi si cela dietro un misto inconscio di volontà di sapere tutto, di curiosità di essere in ogni luogo, di spasmodico tentativo di oltrepassare la limitatezza dell’«esse est percipi» Berkeleyano. Sentiamo sempre un continuo bisogno di “zoomate” esistenziali, di incessanti e frequenti cambi d’inquadratura.
E tutto ciò rassomiglia un po’ alla chimerica propensione di volersi “completare” in tutte le donne del mondo, oppure di riuscire a coprire il mondo con uno sguardo esatto, completo, definitivo.

O forse tutte queste sono soltanto cappellate troppo grandi per ricevere riparo sotto le piccole cappelle di cinque funghetti.


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venerdì 19 novembre 2010

La felicità c’è, ma non si vede


“…l’odierno sistema della circolazione automobilistica
cala ciascuno di noi in una modernizzata versione del
supplizio di Sisifo, rivisitato in forma d’incubo scatologico:
per quanto ti sforzi di liberarti, hai sempre
uno stronzo perennemente attaccato al culo…”.

De hautomobilista comburendo
Gillipixel - 2010

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Non credo possa esistere la felicità.
Anche se si tratta di un’idea forse già espressa qua e là in altre occasioni, oggi mi piacerebbe ritornarci sopra. Se ne potrebbe discettare per ore, ma stringendo un po’ si arriva a dire che la felicità non ha modo di esistere per due rigorosi motivi.

Uno è che la felicità consiste in una dimensione ideale, e come tale, per definizione, irraggiungibile. Questo fa anche della felicità l’oggetto primario del “desiderio”, anzi, diciamo pure che l’atto del desiderare e la felicità di fatto coincidono. Il primo insegue la seconda, senza mai raggiungerla; la seconda offre l’illusione di concederci la propria essenza, solo finché non si spegne l’impeto desiderante del primo.

Secondo motivo è che la felicità, sempre per definizione (o almeno così mi sembra di capire…), dovrebbe rappresentare uno stato d’animo di non ritorno, decisivo. Una volta agguantata, non ci può essere secondo tempo, pena la perdita del significato più genuino del termine.

Queste due condizioni non si realizzano mai, per ovvi motivi (…lascio da parte ogni possibile risvolto religioso del discorso, perché si complicherebbe troppo e perché quella è roba seria che non mi compete…). L’irraggiungibile sfugge perennemente e la vita è un continuo passare attraverso stati d’animo alterni.

Detto questo, ci sono momenti in cui si provano sensazioni che se non possono dirsi propriamente di felicità, non si saprebbe bene come altrimenti definirle. E la cosa più bella è che dietro di esse si cela una sproporzionata presa per il culo.

Sì, perché uno ha un bel darsi da fare a costruire tutte le sue precise teorie sulla felicità, ma poi, quando incappi in quelle sensazioni o circostanze che più le assomigliano, ti accorgi che presentano esattamente il contrario dei due requisiti ricordati sopra.

Questi attimi di cripto-felicità sono infatti, in primis, tutt’altro che derivati da condizioni ideali. In secundis, sono così fugaci che più sfuggevoli non si può: quasi ti accorgi di averli vissuti, solo alcuni istanti dopo che son svaniti.

Non so come mai, ma ultimamente mi capita di provare questo tipo di sensazioni para-felici, a partire da una capatina in libreria.
E’ successo anche oggi.

In realtà stavolta, complice in antefatto è stata una piacevole adunanza con alcuni cari colleghi di lavoro, a sbafarci un paio di panini con annessa birretta d’ordinanza, nel luogo in cui vengono preparati i panini più buoni del mondo (altro che idealismi…), che guarda caso (e per questo ringrazio il cielo ogni volta…) si trova proprio nella città vicino alla quale mi è toccato in sorte di abitare.

Finito il dilettevole “rendezvous paninereccio”, era mia fermissima intenzione di non passare il libreria.
Me l’ero imposto, come imperativo morale: «…Forza Gilli…coraggio Pixel…fai uno sforzo, oltrepassa quella strada senza guardare la vetrina adorna di volumi allettanti…hai già cinque libri cominciati sul comodino, a casa…non è il caso di spendere ancora soldi, solo per poter dire di aver iniziato anche il sesto, il settimo e l’ottavo, senza sperare di vedere mai la luce della conclusione di nessuna di tutte queste letture…».

Ma la mia “Breton-Woods libresca” è stata ormai sancita da tempo. Forse, quand’ero un lettore acerbo, credevo ancora nella corrispondenza aurea fra “libro comprato” e “libro letto”. Adesso credo solo nella marea libresca che m’inondi e m’inebri di voluttà culturale.

Detto, fatto: in men che non si dica, ho mandato in frantumi ogni buon proposito d’astinenza libraria e mi sono fiondato dentro. Questa libreria è una delle più tradizionali e longeve della città. Mi sono beato fra gli scaffali antichi di legno impregnato d’odore di pagine stampate, e ancor più ignominiosamente ho infranto il mio voto, comprandomi tre nuovi libri.

Un piccolo interludio, buffo nella sua insignificanza, si è intromesso fra queste sensazioni. Una copia di vecchietti eleganti e distinti, si appressava alla cassa per pagare i propri acquisti. La signora, armeggiando col suo borsellino, fa cadere inavvertitamente una monetina, ma non sente il rumore e prosegue.
Io vengo subito dietro e mi accorgo che sono due miseri centesimi. Un attimo di sospensione incantata, quanto a singolarità e stranezza, mi ha colto di sorpresa: cosa faccio? Li raccolgo e glieli do? Li lascio per terra? Per così poco…Un atto di gentilezza mi sembrava dovesse valere più di due centesimi.
Quasi quasi - ho pensato ancora - tiro fuori un euro di tasca, e le allungo quello, fingendolo oggetto presunto dello smarrimento. Tanto per dare un tono migliore al mio venirle in aiuto.

Alla fine, mi sono limitato a restituirle solo i suoi due centesimi.

Ma tornando poi verso la macchina e ripensando un po’ a tutto quanto m’era successo in quella manciata di pochi minuti ultimi (il panino con gli amici, i tre bei libri nuovi accaparrati, la strana vicenda dei due centesimi che volevano essere un euro…), tutto d’un tratto mi sono reso contro che ero stato felice, per motivi del tutto marginali, casuali e tutt’altro che ideali, e dei quali adesso tuttavia non rimaneva che una soffusa eco.

E’ andata a finire, così, che mi sono ritrovato confortato nella mia opinione: la felicità non credo proprio che possa esistere.
O perlomeno: se c’è, di certo non si vede.



mercoledì 17 novembre 2010

La piccola leggenda degli insulti gentili


Giangigino era sempre stato un bimbo più sensibile che intelligente.
Non perché le sue capacità mentali lasciassero a desiderare. La sproporzione era causata piuttosto dal primo piatto della bilancia. Se quel nomignolo, appiccicato addosso praticamente fin dalla culla, fosse stato pesato sulla sua sensibilità, si sarebbe chiamato Giangigione.

Di soprannomi ne aveva ormai vestiti diversi, Giangigino. Come tanti bambini di paese ricchi di delicatezza verso le cose della vita, era un piccolo soggetto altamente a rischio di “soprannominazione” fluttuante. Questo fatto succede spesso nelle comunità ristrette, in particolar modo quando queste traspirano fantasia e goliardica fratellanza, amalgamate con un pizzico di sana e stralunata spietatezza sociale.

La scherzosità creativa e la vena umoristica che tengono più o meno tutti uniti come una malta umana sia nei momenti di spensieratezza, sia in quelli di difficoltà, in simili paesi finiscono per sbizzarrirsi e dare il meglio di sé proprio nella sagomatura di soprannomi. Cose nemmeno da dire poi se uno si ritrovava a nascere, come successe a Giangigino, in un paese chiamato niente meno che Sburlarolo Pinza.

Alcuni amici di Giangigino, nonostante la giovane età, erano già passati attraverso così tanti soprannomi che per loro tutta la questione si era trasformata in una sorta di ciclico cambiamento stagionale d’abito. Le vittime predilette di questa sartoria nominativa erano naturalmente i bimbi toccati da una qualche vulnerabilità fisica o di carattere. Quello un po’ ciccio, il timidone, il bonaccione sul tontarello andante, e così via.

Giangigino si chiamava in realtà Gianluigi. Ma si erano messi a chiamarlo così in casa, che era ancora una virgola di vocii e teneri sghignazzi d’infante, affondata nella carrozzina. Da “Giangigino”, a trasformarsi poi crescendo in “Gino Giangi”, o ancora “Ginògi”, oppure “Ginangi”, per i principali fini “soprannominanti” di Sburlarolo, ci era voluto un tempo ancor più breve della distanza che separava i loro cervelli in salamoia dalla bocca.

In questo contorno colorito, Giangigino cresceva respirando aria di grande familiarità con le parole. Un po’ gli dispiaceva questa cosa di cambiare spesso soprannome. Un po’ però lo affascinava anche. Era come divenire periodicamente un’altra persona. Si sentiva quasi di sfuggire in qualche modo al controllo dei grandi e questo gli ispirava dentro un diffuso senso di gioia. Per il momento si trattava di una gioia di tipo indefinito, ma solamente per il fatto che Giangigino non riusciva ancora a cogliere fino in fondo il significato delle due parole gemellate non solo per via d’accento: libertà e felicità.

Ce n’erano d’altra parte di cose ancora poco chiare per lui. Ad esempio non capiva come mai i grandi in certe circostanze usassero così male le parole. Secondo Giangigino, proprio le sprecavano.
Se n’era accorto spesso durante le partite di calcio della locale squadra amatoriale. A Sburlarolo Pinza il calcio era un affare di Stato, e più i calciatori erano brocchi, più il pubblico s’infervorava, s’imbufaliva e schiumava bile. In quelle occasioni, insulti, contumelie e le peggiori irripetibili insolenze, si gonfiavano come funghi riscaldati dai bollenti raggi del livore sportivo, dopo settimane di acquazzoni polemici ruminati nei bar ed intorno alle panchine di tutto il paese.

Giangigino, nella sua ingenuità, pur non capendo fino in fondo il perché, pensava: «…C’è qualcosa che non funziona…le parole in questo modo sono sciupate…». Gli sembrava che fosse tutto uno spreco di energie.
Per scuotere veramente l’arbitro o l’avversario, secondo il ragionamento di Giangigino, l’ultima cosa da fare era esattamente la prima che loro si aspettavano di ricevere, ossia essere insultati.

Nella testa di Giangigino, confuse sensazioni di questo tipo mescolate ad idee loro parenti ancor più vaghe, macerarono come in un piccolo compostaggio di fantasia, fino alla prima domenica utile per assistere ad un nuovo infuocato scontro degli eroi calcistici locali. La sfida in programma era di quelle da far sudare i palmi delle mani ad un cavallo baio: Sburlarolo Pinza contro gli odiati nemici di sempre, gli “arci-cugini” del Tirchiano, il paese appena dopo lungo provinciale verso la città, che in virtù di questo privilegio geografico si erano sempre sentiti in diritto di guardare dell’alto in basso quei “bifolchi” degli sburlarolesi.

Al decimo del primo tempo, l’invito più gentile registrato fra i mille ed un insulto già eruttato dal magmatico drappello vociante dei tifosi di casa, era “arbitro fottiti”. Per il resto, al di sotto della soglia qualitativa di un “figlio di…”, oppure di un “testa di su” o di un faccia da giù”, non si accennava mai a scendere.
La gara era tirata, le scorrettezze si sprecavano, sul terreno di gioco così come a bordo campo.
Tibie e malleoli di terzini e centrocampisti erano più a rischio delle carrozzerie sacrificate nei crash-test, e forse mai come quel giorno l’immaginazione insultante della tifoseria era salita al potere in modo così feroce e ricco di ingiuriosi florilegi.

Fu in uno dei rari momenti di tregua concessi dalla gragnuola quasi ininterrotta di quelle compatte invettive sguaiate, in una delle rare microfrazioni di silenzio saltate fuori chissà da dove, che si poté udire, distintamente risaltata dalla muta eco di quella effimera quiete, una piccola, sottile, ma stentorea voce, urlare a pieni polmoni: «…Arbitro!!!…Grimaldello!!!…».

Decine di occhi silenti e spalancati si girarono dapprima increduli verso la fonte di quel bagliore di genialità. Giocatori, tifosi, arbitro, persino quei quattro cagnetti bastardini che si erano intrufolati fra le maglie della biglietteria, si fusero in un unico sguardo attonito, sospeso ancora per alcuni taciti attimi sulla minuta figura di Giangigino: era stato lui.

Poi furono scrosci di sghignazzate a grappoli, chiostre di denti veri e di dentiere scoperte sino allo spasimo, lacrime di risate a rigare le guance di ciascuno.
Il seme incantato del non senso era stato gettato.
Gli animi si distesero, oltre ed entro la rete di recinzione. La partita proseguì combattuta, ma ancor più bella nei gesti e nell’eleganza degli atleti, mentre nell’aria si libravano terribili ed inauditi, nuovissimi epiteti forgiati di una simile pasta espressiva: «…Portiere, spinterogeno!!!…Arbitro, mi concede la mano di sua sorella?...Otto, stilnovista refrattario!!!...».

Per tutte le restanti partite di quella stagione giocate in casa dallo Sburlarolo, i tifosi accorsero al campo sportivo organizzati in gruppetti muniti di dizionario. Non fu più blasfemo dire che il tifo ha senso solo se è una grossa, spropositata “cazzata” e tutti capirono che la vera insensatezza era stato farsi un fegato da paté, per un divertimento.

Ah…quasi ci si dimenticava: da allora Giangigino fu per tutti, solo e sempre, Luigi.



sabato 13 novembre 2010

Lib…(e)…ri


Dopo un po’ di tempo che non mi succedeva (…e per me, in questi casi, una ventina di giorni fanno già una mezza eternità), sono ritornato ad assaporare il gusto di varcare la soglia di una libreria.
Se qualche soddisfazione c’è rimasta ancora a questo mondo, fra quelle metterei senz’altro il piacere di sguazzare in libreria.

Non a caso ho parlato di “varcare la soglia”, perché credo che l’esperienza di qualche momento speso in libreria inizi a formarsi esattamente nell’attimo in cui il piede fende l’aria di quello spazio “sacrale”. Non è paragonabile a nessun altro negozio, la libreria: lì l’aria ti sembra densa di pensieri. Ecco perché è importante l’attimo preciso dell’immersione in quella “bolla rarefatta” di esistenza.

A sapersi sintonizzare, nelle sale della libreria si possono cogliere due differenti flussi di energie che si tengono testa impalpabili e, alla fin fine, solamente intuibili. Dagli scaffali stracolmi di ogni bendiddio tipografico, sale una “vibrato concettuale” tremolante ed ammaliatore, simile all’effetto della calura estiva trasudata in lontananza dalla prospettica lingua d’asfalto di una strada infinita, lungo la quale mai si esauriscono le promesse di viaggi ed avventure.

Sul fronte opposto, il mentale brulichio desiderante dei lettori che vagano fra le scansie, forma uno stillicidio silente di brame culturali e spirituali, fluttuanti tutte intorno.
Nessuno mi toglierà mai dalla testa questa convinzione, talmente banale da sembrare idiota: il lettore entra in libreria perché gli serve qualcosa che lo faccia sentire bene, che lo faccia stare meglio.

Certo, ci sono mille altre motivazioni ufficiali: si compra un libro per studiare, per migliorare se stessi, per informarsi, o anche solo per portarsi a casa un buon passatempo tutto sommato a buon mercato. Ma la molla principale che fa scattare gli “annusamenti” libreschi del lettore sguinzagliato, lo “startufamento” fra i profumi promessi dai milioni di pagine possibili a disposizione nei meandri della libreria, a mio parere rimane sempre la ricerca di un lenitivo per l’animo, di un eccitante oppure di un tranquillante, di un “rimescolante” oppure di un “riconciliante”, di un “lassativo” per le scorie emotive, oppure di un “digestivo” per le eccessive libagione affettive magari accumulate.

Insomma, da un libro ci si aspetta che ripeta ogni volta la sua magica funzione: trasformarci con la sua impalpabilità, smuovere mondi dentro di noi con il semplice abbraccio della sua soffice inconsistenza fisica.

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Ecco, queste erano le quattro cosette del tutto senza pretese che vi volevo raccontare oggi, cari amici viandanti per pensieri. Nel salutarvi per il momento, aggiungo anche, per la cronaca, che la malia libresca stavolta ha colpito su di me con due piccoli-grandi “volumetti”, dai quali spero di suggere tanta bellezza ed intensità emotiva. Uno è un classicone che mi stuzzicava da tempo, «La mia Africa» di Karen Blixen; l’altro è un saggio storico, «Kamikaze – L’epopea dei guerrieri suicidi», del professor Leonardo Vittorio Arena.

Ad ogni modo, vi farò sapere, nel caso (…e non è una minaccia).

Ultimissima cosa e poi mi levo dai piedi.
Qualche tempo fa, una nota catena italiana di librerie (tanto per non fare nomi, ma solo desinenze “cognominali”: la …nelli), propose ai lettori di scrivere brevi racconti in sole cento parole. Io ne proposi tre, nessuno piacque più di tanto, non vinsi nulla, ma mi divertii a scriverli. Rileggendoli ora, con la distanza ed il distacco attuali, mi sembrano un po’ ingenui e confusi.
Volevo comunque proporveli qui di seguito.
Mal che vada, non avrete speso una ghinea in più e potrete sempre appellarvi al sacrosanto diritto del lettore, sancito nell’articolo primo della costituzione di “Gillipixiland”: l’espressione critica esternata per mezzo di “solenne pernacchia censoria”.
A presto, amici…ed ecco i tre raccontini:

Cento e una

12 Aprile 2008, mattinata di un sabato qualunque. Entrato in libreria, nessuno lo avverte che il tempo lì dentro si era fermato. Una donna, sola, sfoglia un libro. Legge dell’incontro, tra un uomo e una donna, in una libreria. Si sarebbero innamorati, sposati e amati come nessun’altro mai al mondo prima di allora. Lo raggiunge la moglie, alle spalle gli sussurra che le sembra una scena vissuta tre anni prima. La sconosciuta apprende, dalla quarta di copertina, il prosieguo di una storia ordinaria, tranquilla: «Torno un’altra volta – pensa, uscendo – per ora mi accontento di bermi un caffè». Sorrido.

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Scritto con gli occhi

Ci sono certe volte che entri in libreria e quasi ci galleggi dentro. I pensieri rimbalzano contro quelli degli altri clienti e il silenzio, disegnato da quei contatti telepatici, diventa come un poligono la cui superficie tende a riempirsi con l’odore dei volumi esposti. Ogni senso capace di farti intravedere ancora il mistero rigenerato della lettura, diventa buono. Tanto alla fine ti affidi all’intuito, e se a casa, leggendo, sarai di nuovo calato in un mondo sconosciuto che già da sempre era stato tuo, si rinnoverà ancora una volta la magia di aver riscritto quel libro con i tuoi occhi.

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Fraseggi onirici

Forse è stato in un sogno. Passeggiavo con lei, mano nella mano, era un prato particolare, ci potevi cogliere non fiorellini di campo, ma il profumo più intimo del significare. Tutto ciò che avremmo potuto dire in secoli di schermaglie amorose, senza mai giungere a capirci sino in fondo…adesso, lì, sbocciava chiaro, cristallino. Il m’ama non m’ama non era mai stato così inesorabile, ritmato, concentrico, un vortice, una spirale di petali-pensieri strappati intorno alla conferma finale della corolla, a sancire la passione. Forse è stato in un sogno, oppure…Ecco!!!…ora ricordo: stavo solo spigolando frasi in libreria…


martedì 9 novembre 2010

Summa pigritiae


“...E allora senti cosa fo’ soddisfazione non ti do
divento femminista, mi vesto trasandato

e quando al mare vado, a culo nudo sto...”

Stefano Rosso - 1978

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Io sono pigro, si sa.

L'umanità si sarebbe estinta ormai da secoli, se fosse dipeso da individui dotati della mia “vis competitiva”. Gli stratagemmi più estremi adottabili nella lotta per la sopravvivenza della specie, si sarebbero risolti in gioviali ed improduttivi buffetti darwiniani, con conseguente fioco addormentamento dell'umana schiatta (portando così a compimento, fra l'altro, anche la naturale deriva etimologico-sonora del termine: una schiatta cosa potrebbe fare d'altro canto, se non schiattare?).

«...Uno sbadiglio vi seppellirà...» sarebbe stato il motto sulle cui ali si sarebbe involata la nostra infertile contestazione del '69 (...che, si sa: con quello di certo non si figlia, ma quanto gusto ci si piglia...).

Non solo non potrei stare seduto davanti a questa tastiera, a quest'ora di questo giorno di questo secolo, se fosse stato per tipi indolenti come me. Altro che computer o internet, nemmeno il piccione viaggiatore ci saremmo mai concessi: per solidarietà con le rivendicazioni sindacali del simpatico pennuto, mai l'avremmo costretto a trasportare missive in capo al mondo.
Solo becchime a iosa e tubate in libertà con la sua bella in piccionaia, gli sarebbero stati riservati.

Se c'è da lavorare, lavoro. Ma non datevi troppa pena a riguardo: mai mi sentirete dire che la cosa mi vada a genio più di quel tanto. Devo averlo nel DNA.
Fra i miei avi, c'è gente che se l'è sempre cavata con dignità, senza però dannarsi mai l'anima in preda ai furori dell'attivismo.
Leggenda vuole che fra la schiera dei miei tri o quadrisavoli, in tempi ampiamente pre-televisivi, durante le placide serate trascorse in silenzio davanti al camino, in compagnia del crepitio dei tizzoni azzannati dalla vampa, se ne celasse anche qualcuno capace di sopportare i limiti di un principio di ustione ai garretti, piuttosto che fare lo sforzo di scostare la sedia due centimetri indietro.

La competizione mi mette addosso malinconia.
E mi fa paura, mi inquieta all'inverosimile, pensare che incombe un'ondata di miliardi di cinesi pronti a tracimare, per lavorare 18 ore al giorno. Così come mi ha messo una grande tristezza, sentire Marchionne da Fazio, quando diceva di fare altrettante ore di lavoro, di ventiquattro che lui ce ne ha. Anche se in quel caso, andrebbe precisato che il suo non è propriamente un “lavorare”. Non nego che sgobbi di brutto, ma il suo credo sia più un socratico “dare alla luce in ciò che è bello”. Il che non è prerogativa solo degli artisti: può capitare a tutti, quando si oltrepassa una certa qualitativa soglia dell'operare tramite l'ingegno.

Ricordo anche di aver sorriso col cuore, sentendo, sempre da Fazio, il buon Lelio Luttazzi dichiarare la sua sempiterna idiosincrasia nei confronti del lavoro. «...Visto che c'è sempre stata in giro una gran quantità di gente volenterosa e vogliosa di lavorare, io mi sono sempre fatto un po' da parte, lasciando loro il posto...», celiò con la sua ironia di gran classe, il vecchio Lelio.

Sarà dunque per tutti questi motivi sparsi nel tempo e nello spazio, che alla fine mi esalto, quando incontro una frase di questo tipo:

“...Non occorre che tu esca dalla stanza: rimani seduto al tavolo e ascolta.
Non ascoltare neanche, limitati ad aspettare.
No, non aspettare nemmeno: resta tranquillo e solo.
Il mondo ti si offrirà liberamente.
Non ha altra scelta che farsi smascherare...”.

Franz Kafka



sabato 6 novembre 2010

Il cacciatore di unicità


“...Whistling men in yellow vans
They came and drew us diagrams
Showed us how it all worked it out
And wrote it down in case of doubt...”

Build
The Housemartins- 1987

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C’è una scena del film «Il cacciatore» («The deer hunter», Michael Cimino 1978) che mi ha sempre impressionato per il suo forte “simbolismo”.
Pur essendo questo film ricchissimo di scene memorabili, non mi sento di esagerare se dico che la scena in questione è la più importante di tutta la storia narrata (poi sono pronto alle smentite di chiunque, in proposito, ma questo è un altro discorso).
Più che di una singola scena, si tratta di una “sequenza tematica”, per così dire, ripetuta tra l'altro un paio o tre volte nel corso del film. Per “sequenza tematica” intendo un nucleo di immagini caratterizzato da una forte carica di espressività e di significati coinvolti.

Il film (per chi non lo conoscesse) narra le vicende di un gruppo di amici americani, figli di immigrati russi, operai in un acciaieria di Pittsburgh tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70. La guerra del Vietnam incombe sui giovani e i drammatici eventi che coinvolgeranno i protagonisti sono letteralmente scissi fra il tragico scenario bellico asiatico e la quotidianità della provincia USA nella quale sono cresciuti.

Il gruppo di amici ha in comune anche una grande passione: la caccia al cervo (da cui il titolo originale del film). Una battuta di caccia al cervo sottolinea diversi momenti cruciali della narrazione: prima di partire per la guerra, ma anche in occasione di una licenza (se non ricordo male...) ed infine dopo il congedo finale dall'esercito.

Il leader “morale” del gruppo è Mike (interpretato da Robert De Niro). Mentre tutti gli altri amici sono rappresentati come figure comuni, tipici “americani medi” (qualsiasi cosa questo possa significare...), Mike viene raccontato come personaggio quasi investito da un non meglio precisato incarico “fatale” di compiere una “missione”.
Mike si distingue dagli amici anche nella considerazione che ha della caccia. Se per gli altri è poco più di un divertimento, per Mike si trasforma in un rituale (tra l'altro, tutta la figura di Mike, grazie all'interpretazione magistrale di De Niro, è ammantata da una sorta di “aura sacrale”).

Nucleo principale del rito di caccia di Mike è la regola di concedersi solo una pallottola per colpire il cervo. Gli amici, nella loro semplicità caratteriale, utilizzano lo strumento moderno nel pieno delle sue potenzialità: se il fucile ha più colpi, a loro pare scontato utilizzarli tutti. Per Mike invece no: il suo motto all'inizio di ogni battuta è «un colpo solo».

Ho sempre interpretato la scelta d'inserire questo particolare nel racconto, come un inno alla lealtà pura. Mike si confronta con l'animale col maggior rispetto possibile, con la riverenza quasi religiosa dovuta ad una realtà vasta e misteriosa qual è il contorno naturale in cui le nostre vite sono calate.

Certo, fra i significati del rito del «colpo solo», c'è anche questa sfumatura. Anzi, senza dubbio è quella che s'impone con più evidenza. Ma è stato solo ripensando di recente a quella scena, fortuitamente incrociandola con differenti considerazioni riguardanti un altro film, all'apparenza del tutto slegate dal discorso, che un'altra più sottile chiave d'interpretazione mi si è fatta chiara alla mente.

L'altro film a cui mi riferisco è «Alien». Parlo esclusivamente del primo episodio della saga, anche se, in virtù di ciò che vi sto per dire, per mio conto è assolutamente inutile parlare sia di episodio, sia di saga. Non temo infatti di sfidare addirittura le leggi grammatico-gravitazionali, affermando che per me “i film di «Alien» è uno solo”, il primo, con la regia di Ridley Scott (1979).
So che ci sarà fra di voi, cari amici viandanti per pensieri, chi storcerà il naso, chi dirà che anche il secondo («Aliens – Scontro finale» di James Cameron, del 1986) non è male, e pure gli altri sono accettabili. Non è mia intenzione di mettermi qui a criticare il diritto Hollywoodiano ai sequel, né sollevare questioni cinematografiche particolarmente complesse.

Il riferimento ad «Alien» mi serve invece solo per parlare dell'«unicità» (partendo da un esempio banale, se si vuole...). Ve lo confesso, autorizzandovi automaticamente anche all'insulto senza ritegno: io gli episodi successivi di «Alien» non li ho nemmeno visti, se non giusto qualche scena. L'incoerenza del mio discorso è notevole, ma il punto è un altro: «Alien» di Ridley Scott è un film perfetto nella sua unicità, da un punto di vista estetico-emotivo è propriamente “conchiuso”. Non c'era niente da dire, né da fare vedere in più.

Ripeto: mentre affermo queste apparenti contraddizioni, non mi interessa l'analisi cinematografica più strettamente intesa (in quella potrei avere torto, ve lo concedo: magari mi potrà capitare di vedere anche i sequel di «Alien», trovandoci del buono pure in quelli...).
Quello che mi interessa invece, il punto nodale del ragionamento, è un parallelo con le cose della vita.
Nostro “crudele ed estatico” destino è ritrovarci perennemente ad avere a che fare con le «unicità». I momenti sono unici nella loro drammaticità, così come lo sono nella loro bellezza.
Non c'è ripetibilità.
Per questo «Alien» di Ridley Scott, nella sua compiutezza formale e narrativa (a mio avviso perfette), non può avere sequel. Non perché questi non possano essere altrettanto degne opere filmiche, ma molto più semplicemente perché sono “un'altra cosa” rispetto a quella perfezione prima, che rimane per sempre fissata nella sua architettura estetica completa ed autosufficiente.

Ecco allora che a questo punto rientra in scena il «colpo solo» di Mike, nel «Cacciatore» di Cimino. Al di là dell'eterna, già omerica e “melvilleiana”, sfida fra l'uomo e la natura, quel «colpo solo» intende cogliere la paradossale composizione dell'esperienza umana, fatta di singolarità irripetibili, ma pur sempre accumulate in una qualche forma di sapienza.

Quante volte abbiamo tentato di ricreare l'atmosfera rara di un momento, vissuto con amici o con le persone alle quali più vogliamo bene. Ci siamo premurati di fare in modo che fossero lo stesso posto, le stesse condizioni, lo stesso periodo dell'anno, gli stessi “ingredienti” di contorno.
Mai l'incanto di quella singolare volta si è più ripetuto.
Magari un altro tipo di magia sarà pronto dietro l'angolo, a sbucare fuori in un altro contesto, alla prima inaspettata occasione. Ma sarà sempre un'altra cosa.
Invece quella “roba là” rimarrà fissata nella sua sospensione “spazio-temporale” perfetta e definita per sempre.

Ecco perché, per vincere il “duello” col cervo, puoi contare ogni volta su di «un colpo solo». Magari lasciandolo alla fine in canna e concedendo scampo all'animale, come sceglie di fare Mike nell'epilogo del film.

Il «colpo solo» di “Mike-De Niro” ci svela così che la gioia e la malinconia sono due facce della stessa medaglia, due capi della stessa corda. L'attimo d'incanto ci colma ad un tempo la bocca dell'ineffabile sapore di una felicità che subito è pronta a sfumare nel retrogusto di una fuggevole irrimediabilità.
L'esperienza umana è fatta di infiniti «colpi soli», che alla fine vanno ad intessere la trama, paradossalmente ripetuta ad intreccio, della vita di ciascuno.



lunedì 1 novembre 2010

Ooopppsss…mi son parlato addosso


“…Solo tu - Topolin! - puoi capir - Topolin!
i mille e mille sogni di un bambin, TO-PO-LIN!...”

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Oggi mi piacerebbe scrivere qualcosa sul mio scrivere, e chiedo anticipatamente venia per l’apparente involuzione narcisistica che potrà trapelare da tutto ciò. In realtà spero che alla fine la cosa risulti solo un pretesto per parlare delle modalità dello scrivere in generale.

Che idea mi sono fatto, nel tempo di sua esistenza, di questo mio blog? Che minchia di entità narrativa sarà mai? Cosa è scaturito dalla mia scrittura, articolo dopo articolo, molte volte anche a dispetto della mia stessa volontà?

La migliore definizione per questo blog, insieme alla migliore risposta a queste oziose domande, credo possa essere la seguente: «Andarperpensieri» è un “romanzo esploso”.
Mi par già di udire i miei cari amici viandanti per pensieri, rassicurarmi all’unisono su questo punto: «…E ti credo: da uno scoppiato come te, cos’altro ne poteva venir fuori?...».
Anche questo è vero, ma lasciatemi spiegare un attimo cosa intendo con la mia definizione.

La forma “romanzesca” è probabilmente la più possente «entità ibrida artistico-espressiva» concepita dalla modernità (per chi volesse approfondire l’argomento, suggerisco due testi fondamentali, a mio modesto parere: «L’arte del romanzo» di Milan Kundera – 1986, e «Apocalittici e integrati» di Umberto Eco – 1964).
Componenti costitutive essenziali del romanzo sono: la sua capacità di trattare temi “universali” a partire da vicende “particolari”; la sua prioritaria finalità tesa a mettere in luce aspetti inediti riguardo ai significati del vivere e del mondo; il suo far leva sullo strumento dell’ironia e del dubbio come imprescindibili chiavi di volta dell’indagine esistenziale (non a caso Kundera fissa nel «Don Chisciotte» di Cervantes e nel «Gargantua e Pantagruele» di Rabelais, le due stelle polari di riferimento dell’epopea del romanzo moderno).

Detto questo però, andrebbe messa in conto un’altra fondamentale condizione “sine qua non”, senza la quale, di fronte ad una certa opera letteraria, non si può affermare di trovarsi in presenza di un romanzo: l’ambiente della “finzione” nella quale l’opera è calata.
Sotto questo aspetto, nell’atto del “romanzare” possiamo rivenire talune componenti essenziali del “meccanismo del gioco” e di quello del “rituale”.
L’ambiente del romanzo, pur trattando della vita, si dispone parallelamente alla vita. E’ un territorio esistenziale immaginato, entro il quale si fingono “vite possibili” nel tentativo di capire qualcosa di più delle vite reali.
In quell’ambito si possono svolgere tutti gli eventi potenziali concessi dalle regole pattuite fra scrittore e lettore, regole che solitamente si formano nel corso della narrazione e, conseguentemente, si consolidano nella lettura.

Le regole del gioco romanzesco sono solitamente imperniate intorno a due fulcri principali: il grado di inverosimiglianza che le vicende narrate possono azzardare, e il ruolo operato dalla “visione” del narratore.
Il narratore è il giocatore privilegiato, lui conosce la vicenda e decide come narrarla: in prima o terza persona; con quali modalità stilistiche; esponendo i fatti dalla prospettiva di un “Dio super partes” che può penetrare nell’animo di tutti i protagonisti, oppure da un livello più “umano” a cui sono concesse cognizioni solo parziali degli eventi e delle “sensazioni” destinate ad entrare in scena, ecc.

Insomma, intorno a queste regole ci può essere anche grande flessibilità, ma una volta fissate, esse si condensano nel particolare “rituale” che quella particolare opera viene a quel punto a costituire. Cerco di farmi capire meglio, con un esempio stupidissimo.
Prendiamo ad esempio una pietra miliare della “storia del romanzo”: «Il processo» di Franz Kafka. Immaginiamo che nel mezzo di una delle innumerevoli descrizioni tragico-grottesche delle vicende del povero Joseph K., il buon Franz K. se ne fosse uscito con una frase del tipo: «…adesso scusami, caro lettore, me ne vado un attimo in cucina a farmi un tè, e solo dopo riprendiamo il racconto…».

Nella “logica romanzesca” pattuita per quella particolare opera, questo non sarebbe stato possibile. Non perché le regole del romanzo siano così restrittive da escludere il colloquio diretto fra autore e lettore (anzi, questo stratagemma è stato usato con eccellenti risultati da tantissimi altri narratori), ma perché in questo precipuo caso, questa eventualità non era contemplata fra le regole ludico-narrative “contrattate”.
Se Kafka si fosse lasciando andare a tale mossa narrativa non prestabilita, avrebbe “spezzato il rito”, avrebbe scardinato la “struttura cerimoniale” pattuita col lettore.

A volte mi capita, dopo aver letto tre o quattro romanzi dietro fila, di sentire la necessità di passare ad un libro di divulgazione scientifica o di cronaca giornalistica, oppure ad un saggio storico, per dire.
Questo succede perché mi prende quasi un senso di asfissia, determinato dal ruolo “sacral-sacerdotale” di cui è investito ogni autore che si metta a scrivere con intento romanzesco. Sento come il bisogno di dare uno scrollone a quell’«invasato», per farlo uscire dal suo corto-circuito visionario, invocandone una momentanea sosta nel mondo dell’«espressività più diretta». Ee appellandomi allora alle antiche formule rituali indicate per siffatti scopi, mi par quasi di sentirmi, mentre idealmente lo supplico: «…Veh, frena Ugo! Vieni giù dal pero…parla un po’ come mangi, va mo’ là…».

Ecco dunque, cari amici viandanti per pensieri, che, per tornare molto umilmente all’assunto iniziale di questo sproloquio, forse adesso è un millimetro più chiaro cosa intendevo definendo cotesto blog come una sorta di “romanzo esploso”.

Ferme restando le debite proporzioni e distanze abissali fra i romanzi veri e questo guazzabuglio prosastico, si tratta pur sempre di un “romanzo esploso” perché del romanzo condivide la finalità, ossia cerca di dire cose sulla vita e sul mondo. Lo fa in forme abbondantemente debitrici alle dimensioni dell’umorismo e del dubbio sistematico.
Ma lo fa altresì uscendo ed entrando continuamente dal “rito”, disarticolando continuamente la struttura generale di una narrazione che di fatto alla fine non sussiste.

Gillipixel è in parte me e, per altrettanta grande parte, è anche “non me”. Qui si mischia autobiografia con immaginazione, e il tutto va a sua volta a confondersi grazie ad ampi sconfinamenti nel surreale. Certi giorni m’improvviso saggista, per poi tornare a fare il “narratore de’ noantri”, mutando successivamente ancora in uno “pseudo-sociologo de’ sta cippa”.
Salgo e scendo costantemente dal palcoscenico, vesto e poi smetto ripetutamente maschere e costumi, sono di volta in volta personaggio ed attore, tanto che alla fine, ciò che ne risulta è proprio quello che ho tentato di spiegarvi un po’ a fatica oggi: un “romanzo esploso”.