venerdì 10 maggio 2013

Ghiandy Dick is here to stay!!!

Come si sarà sentito il capitano Achab lungo tutto la sua travagliata odissea, e poi al termine della faticaccia, quando finalmente riuscì a vedersela con la leggendaria balena bianca? Se proprio lo volete sapere, avete a disposizione quasi 600 pagine del magnifico tomo di Herman Melville (preferibilmente nella stupenda traduzione di Cesare Pavese).

Posso dirvi però come mi sento io, ora che son riuscito a fermare su qualche fotogramma l’inafferrabile spiumettosa alla quale “davo la caccia” da tre anni. Ebbene sì, l’evanescente Ghiandy Dick è stata da me spalmata pixel per pixel su immagine digitale ed il Capitano Gillichab ha avuto i suoi cinque minuti di gloria.

Per chi si stesse già apprestando, lette queste prime righe, a comporre il numero della “neuro”, nella preclara convinzione di trovarsi ormai dinnanzi allo svanire definitivo delle pur esigue facoltà mentali del povero Gillipixel, occorre introdurre un piccolo ma doveroso riassunto delle puntate precedenti. Poco meno di tre anni fa (e vi spiegherò fra breve quanto “poco meno” di tre anni effettivamente siano…), iniziai a notare un delizioso uccelletto che leggiadro svolazzava nei pressi del giardino e sulle alberature limitrofe.

Dapprima non ne conoscevo il nome. In seguito venni a sapere che si trattava di una ghiandaia. Di uccellini eleganti, simpatici, curiosi per sagoma, comportamenti e colori, ce n’è un’infinità. Ma la ghiandaia ha un suo fascino particolare. Sarà per quella sua aria da gazza vestita dalla festa. Sarà perché presenta sulla livrea uno strambo accostamento di due colori che più agli antipodi fra di loro non potrebbero essere: uno sfumatino caffelatte da impiegato del catasto su quasi tutta la superficie del corpo, e poi, a sorpresa, zac!, cangianti ali da sbarbina in discoteca, con inaspettate striature nere e blu, tonalità quest’ultima del tutto inusuale per la fauna prosperante lontana dalle latitudini tropicali. Sarà anche per la sua fuggevolezza e ritrosia, che la rende un uccelletto abbastanza presente, sì, dalle nostre parti, ma pur sempre avvistabile col contagocce.

Sarà per questi e per tanti altri motivi. Fatto sta che la ghiandaia da allora mi è molto simpatica. Nel contempo mi venne l’uzzolo di fotografarla, ma l’impresa si rivelò sin da subito alquanto ardua, giusto per la già citata sua abitudine di concedersi alla vista solo con rapidissime e fugaci apparizioni. In un’altra circostanza, dovetti accontentarmi di rinvenire una sua piuma dispersa nel giardino. Ma fino ad ora ogni tentativo di tratteggiare in foto le sue grazie era risultato infruttuoso.

Adesso invece, ce l’ho fatta.

E non so nemmeno se sentirmi contento sino in fondo, oppure mezzo preso da un eccesso di appagamento, come di colui che vede venir meno l’obbiettivo a lungo perseguito di una piccola soddisfazione personale. E’ più bello inseguire una cosa giusto per il gusto d’inseguirla, oppure l’attimo in cui la si agguanta vale tutta la soddisfazione in gioco? Non è forse preferibile il sapore dell’inseguimento fine a se stesso, senza mai raggiungere la metà prefissata? Non sarà dunque un caso che nel capolavoro di Melville, tutte le pagine sino alla 558 siano dedicate alla ricerca della balena, mentre solo a partire da pagina 559 (e poi fino a 587), si racconti l’effettivo titanico confronto finale con quel portento della natura?

Nel dubbio, mi consola il fatto di essere riuscito cogliere solo tre immagini di Ghiandy Dick, e nemmeno tanto perfette, di modo che mi rimane sempre il margine per ulteriori tentativi. In questo modo, salvo la capra della presente soddisfazione, insieme ai cavoli di future caccie fotografiche.
Altro piccolo stupore nello stupore. Andando a ricontrollare il mio vecchio scritto che diede inizio alla mini-saga di Ghiandy Dick, mi sono accorto di una “mezza-quasi-coincidenza” curiosa: quel lontano articoletto è datato 12 maggio 2010, praticamente 3 anni fa quasi giusti. Alle volte le gillipixate, che risvolti strani riservano…

Ma veniamo alle precise parole di Melville, per giungere alle quali, chiunque si confronti con l’immane mole di Moby Dick, spende il tempo e le forze intere di tutta la sua impresa di lettore:

«…Fatte tutte le vele, Achab levò volta al cavo riservato a sospenderlo in testa all’alberetto di controvelaccio, e pochi istanti dopo stavano issandolo lassù. Era giunto appena a due terzi della strada, e scrutava innanzi a sé attraverso l’apertura orizzontale che c’è tra la vela di gabbia e quella di velaccio, quando cacciò un urlo nel cielo, come di gabbiano: - Laggiù, soffia! Laggiù, soffia! La gobba come un mucchio di neve! E’ Moby Dick!...».

"Moby Dick - o la Balena"
Herman Melville - 1851
(Traduzione di Cesare Pavese - 1941)
Edizione Adelphi - 2004 - pag. 559

Ed ecco invece le trasposte parole di Gillipixel, per descrivere gli attimi del decisivo avvistamento di Ghiandy Dick:

«…Fatta colazione, Gillichab s’indirizzò alla volta del vascello di ceramica riservato a sospenderlo in testa alla quotidiana operazione di controvelaccio corporale, e pochi istanti dopo i vestiari stavano calandosi laggiù. Era giunto appena a due terzi della gamba, e scrutava innanzi a sé attraverso l’apertura orizzontale che c’è tra la tapparella e la cornice della finestra, quando cacciò un urlo interiore nel cielo del suo animo, come di venditore porta a porta di cicorione nano: - Laggiù, spiumetta! Laggiù, spiumetta! Le penne come una tazza di caffelatte interista! E’ Ghiandy Dick!...».

La prima immagine che son riuscito a realizzare è la mia preferita: ho colto Ghiandy nel bel mezzo di una sua espressione furbetta, il collo girato di lato ed il becco sulle ventitré, come a dire: «…’Zzo fai seduto laggiù?...».
 

 
Nella seconda, si capacita con sguardo sornione: «…Ah, voi umani siete ancora così indietro per quelle cose? Noi pennuti invece è da secoli che ve la facciamo in testa con tutto comodo...».
 
 

Nell’ultima foto, prima d’involarsi nell’ennesima fuga fulminea, lasciandosi dietro la sua tipica scia al caffelatte neroazzurro, Ghiandy mi volge le terga, mostrando la completezza multicolore della sua livrea, e peccato per quel ramo malandrino che leggermente s’è frapposto.
 
 

Tutto si è svolto nella manciata di pochissimi secondi, tanto che più di tre fotogrammi non mi è riuscito di fermare. Ma per fortuna la partita con Ghiandy non è certamente chiusa qui. L’appuntamento con lei è per altre foto ancora più belle, semmai riuscirò a realizzarle. Così nel frattempo potrò continuare ad essere il Capitano Gillichab, che solca impavido i sette mari sul suo vascello di ceramica bianca, a tavoletta spiegata.
 


domenica 5 maggio 2013

Il chiaro oltre la siepe

Chi l’ha detto che per trovare una perla bisogna per forza andare a scovarla sotto il cobaltico pelo dei mari tropicali? Va beh, per esempio, l’avrà detto con ogni probabilità Emilio Salgari. Ma lui credo si riferisse più che altro alle perle di Labuam in generale. Se invece si è gente dai gusti perliferi molto più democratici, può succedere di rinvenire un grappolo di perle nel proprio giardino, per dire.

Quando le pretese sono minori, poi le perle arrivano. E neanche una ad una, custodite fra le valve del relativo mollusco, ma proprio a grappoli. Se non ci credete, l’unica cosa da fare è mettersi a potare un arbusto dalle anarchiche chiome sul limitare del proprio giardino. Le perle non serve cercarle. Sarebbe inutile, le loro dimensioni sono talmente minuscole ed il grado di dispersione fra le frasche è così elevato, che difficilmente se ne scoverà una intenzionalmente.

Io di mini-perle ne ho trovate quattordici. Dieci più quattro sferette non meglio precisate, posate indisturbate sulla scorza di un rametto. Mi apprestavo a svellere l’ennesima frasca ipertrofica, quando un piccolo dettaglio ha frenato l’impeto giardiniere della mia mano. Non saprei dire di cosa si trattasse. Presumo siano piccoli bozzoli, ovetti, mini-larve o simili, che hanno a che vedere con il mondo degli insetti.
 

Di espressioni vegetali curiose se ne incontrano svariate, or qui or là, ponendo la dovuta attenzione alla natura. Queste strane entità globulari da me colte, suggeriscono idee sfocianti nella dimensione chimico-meccanica. Nella loro lucidità argentina, ricordano un po’ il contenuto di rotanti cuscinetti anti-attrito, oppure una fuoriuscita mercuriale dal termometro che il discolo recalcitrante alla scuola ha infranto nei suoi bislacchi tentativi di denunziare una temperatura febbrile inesistente. Non sono esenti nemmeno da qualche inquietudine suggerita, quando richiamano alla mente la muta enigmaticità di certi boccioli biologici che ricorrono con frequenza nelle varie pellicole della saga di «Alien».
 
 

Oltre la siepe e le attività potatorie, altre immagini colte in giro.

La mia, mai, sopita passione per i muri antichi mi accompagna ad ogni passo. Qui la vetusta parasta rurale di un muretto di cinta, attraversata da un fascinoso lampo laterizio trasversale, sembra andare a suggere energie geometriche insperate, affondando nel rigoglio del verde indomito di queste lunghe giornate d’acquazzoni. Intitolerei la foto «Partitura mista per erba fresca, vecchio mattone e scrostata poesia».
 
Partitura mista per erba fresca,
vecchio mattone e scrostata poesia

Una lumachina sfocata s’avventura in una traversata titanica per le sue possibilità. Nella sua lucentezza, se ne frega del remoto “divieto di transito” che fa capolino in lontananza. Un giorno forse il mondo sarà delle lumache. Nel frattempo lei la strada l’attraversa. Intitolerei la foto «Traslucide lungimiranze».
 
Traslucide lungimiranze
 
La dimora del ragno ha labili confini, e solitamente ricerca il nascondimento come essenza sua primaria. Il mattino ha colto la filamentosa magione ancora in mutande, infradiciando di rugiadosa evidenza la sua intricata trama. Il ragno in casa sarà rimasto a dormire sino a tardi, per una volta, almeno fino a quando i raggi avranno asciugato la soglia, ad accogliere nuovi succulenti ed ignari ospiti. Intitolerei la foto «L’ascella d’Afrodite».
 
L’ascella d’Afrodite

Una rete di zinco dal disegno atavico incornicia lo sguardo su un’altra ragnatela. Gli steli d’erba paiono esili piloni, sulle cui cime poggia una rete ad attutire le eventuali cadute dei ridotti acrobati di un circo minuscolo. Intitolerei la foto «Vù-vù-vù: Weed Wide Web».
 
Vù-vù-vù:
Weed Wide Web



mercoledì 1 maggio 2013

Changing chanches


Certe volte le ragioni della tecnologia sono veramente misteriose da sondare. Quando si tratta di diavolerie tecnologiche, l’idea di fondo sarebbe quella di fare tutti insieme importanti e necessari passi avanti.

Non di rado invece, confrontandosi coi vari strumenti della modernità, si viene colti dalla tipica illusione del “treno che parte stando fermo”. Lo abbiamo sperimentato un po’ tutti: il nostro treno è in sosta in una stazione, affiancato ad un altro convoglio. D’un tratto ci mettiamo in moto: “…oh là, bene, era ora, che siamo già in ritardo…”. Ma stranamente la carrozza non trasmette vibrazioni, né scossoni o indizi di movimento di sorta. “…Minchia come si sono evolute le Ferrovie dello Stato…” non fai nemmeno a tempo ad iniziare a pensare, quando presto l’arcano si svela da sé: a muoversi era soltanto l’altro treno che, inquadrato con globale copertura nella visuale del tuo finestrino, aveva semplicemente messo in moto, di riflesso, il tuo “mondo” di riferimento del momento.

Sensazioni del genere sono spesso riservate dall’avanzare del treno della tecnologia. E fosse solo tutto lì. Sempre la medesima locomotiva modernista ci fa anche sentire, spesso e volentieri, come calati in qualche modo in una impressione diffusa di “centro-milanesità”.

Se qualche volta vi è capitato di fare due passi in centro a Milano, capirete subito cosa intendo. Metti che parti da casa con tutte le più pigre intenzioni, ti dirigi verso il fulcro della metropoli meneghina con il fermissimo intento di non fare assolutamente niente di utile, giuri e spergiuri che butterai via senza ritegno tutta l’intera giornata nella maniera più vacua e superflua…ma niente da fare. Basta una manciata di minuti d’immersione nel classico milanesiano sottofondo esistenziale del “cur de chì, cur de là” (“corri di qui, corri di là”) ed in men che non si dica, si viene presi dalla frenesia di fare un rogito, aprire una partita IVA oppure, in mancanza di meglio, un chiosco dipinto di viola per la somministrazione di banane split sottotitolate alla pagina 777.

In centro a Milano, insomma, anche andando là con le più rigorose intenzioni di non combinare assolutamente una beata fava, ti ritrovi con l’urgenza assoluta di fare qualcosa e, quasi come diretto corollario, non c’è modo di non sentirsi perennemente in ritardo. Anche arrivando, tanto per dire, ad un appuntamento con 30 minuti di anticipo, ci si sente in ogni caso in colpa per non aver precorso i tempi di almeno un’ora. Introducendo una rima bislacca che immediatamente chiama vendetta (ed anche varie bastonate sulla schiena di chi scrive), si potrebbe dunque dire che “…all’ombra della Madonnina, tutte le cose andavano fatta prima…”.

Una faccenda analoga capita con gli strumenti tecnologici. Compri l’ultimissimo modello di computer perché urge assolutamente realizzare un qualcosa che non ti saresti mai minimamente sognato di fare prima? Passano due giorni e ti senti già di aver mancato l’appuntamento con il destino, seppur d’un soffio, causa l’uscita nel frattempo dell’ultra-recente versione iper-aggiornata, multi-opzionalizzata, extra-accessoriata. Ti abboni al gestore di telefonia mobile più ganzo in circolazione, quello che ti fa risparmiare all’inverosimile, vitto, alloggio, imbiancatura e stiratura compresi nel prezzo? E’ tutto inutile: due minuti dopo, vieni a sapere che un altro gestore, oltre a telefonate illimitate ed sms a valanga, ti trova anche la morosa, ti fa la lista nozze alla Rinascente, riuscendo a spuntare persino un po’ di sconto sulla tariffa mensile.

Ne deriva allora uno strano e paradossale fenomeno. La tecnologia, in teoria somma dimensione di pertinenza dello sguardo rivolto verso il futuro, costringe invece a tenere quasi sempre gli occhi girati in direzione del passato, seppur un passato prossimo, in un interminabile rimpianto dell’occasione perduta.

E’ stato introdotto inoltre da qualche tempo un certo tipo di dettaglio tecnologico che porta un’ulteriore ventata di spaesamento in questo già contraddittorio panorama. Mi riferisco alle tv di ultima concezione, con schermi LCD o al plasma et similia, in abbinamento con il sistema di trasmissione digitale. Cosa capita con queste nuove ribalderie “tecno-illogiche”? Passo senz’altro ad illustrarvelo e ripeto, si tratta di un dettaglio, di un’inezia da nulla, ma nel suo genere piuttosto buffa.

I termini “modernità” e “velocità”, nell’immaginario comune, sono sempre stati considerati praticamente come sinonimi. Cosa non ti combinano invece le nuove tv? Mentre con la mano destra ti spingono per farti fare 10 passi avanti (e ad onor del vero, te li fanno anche fare), con la sinistra ti tirano nel verso opposto, per farne 4 indietro.

La fulminea celerità del cambiatore di canali, da quando è stato inventato il telecomando, è sempre stata un’immagine simbolo, nell’ambito di una delle leggende più luminose della modernità. Lo stesso idolo supremo della frustrazione moderna assoluta, il ragionier Ugo Fantozzi, immortalò questo concetto in alcune delle scene più memorabili della sua ineguagliabile saga.

Ecco che le nuove tv, allora, demoliscono inspiegabilmente questo mito assoluto. Uno arriva a casa tutto preso dal vortice della velocizzazione vissuta per le strade, negli uffici, nei luoghi pubblici vari, e non vede l’ora di prolungare la droga di quella frenesia realizzando il nuovo record mondiale di cambiata di canali…e invece no! Si ritrova fra le mani quella pappamolla di telecomando novello che, seppur super-tecnologizzato, in combutta con sua sorella tv all’ultimissimo grido, ti concede un cambio di canale con ritmi talmente blandi da risultare graditi semmai ad una placida famigliola di bradipi teledipendenti.

Quante volte, preso nel flusso dell’orgasmo cambiatorio, mi è successo di voler ritornare immediatamente sui miei passi, per cogliere al volo una frazione d’immagine maliarda che mi aveva catturato l’attenzione, oppure un frame malandrino che si era tirato dietro un retrogusto di curiosità inappagata, ed ho dovuto invece capitolare fra le grinfie della lentezza inesorabile dei modernissimi cambiacanali…

Coi tempi geologici di questi telecomandi lumaca, quando finalmente sei riuscito a riportarti sul canale che t’interessava, stai bello fresco: l’emittente ha già fatto in tempo a finire 3 trasmissioni e a mandare in onda due valigie di pubblicità.

Ecco allora che, rivolgendomi ai sommi sapientoni progettatori di iper-avanzate stramberie tecnologiche assortite, mi sento di lanciare un monito (o forse addirittura anche un monitor…sulla loro schiena però, magari di quelli belli sostanziosi di una volta, con tanto di tubo catodico e 20 chili di concretezza…).

Mi sento di rivolgere loro una richiesta, una prece, una supplica, una petizione: a ridatéce er telecomando a cambio immediato!!!

Se dobbiamo stare al passo coi tempi, vogliamo starci fino in fondo, tutti belli e precisi, in perfetta sintonia fantozziana con il “Tutto” modernizzante, lanciati senza freni verso i luminosi orizzonti del progresso irrefrenabile.