sabato 31 gennaio 2015

venerdì 30 gennaio 2015

Le muse di Kika van per pensieri: Joshua Reynolds (1723-1792)


Dopo un’abbondante pausa natalizia, ritorna “Le muse di Kika van per pensieri”, piccola sarabanda d’indagini fisiognomiche e artisticità varie, che allietano grandi e piccini in parallelo con la rubrica di moda e arte curata da Kika. Per inaugurare questo 2015 modaiol-creativo, Kika ha scelto un autore del ‘700 inglese, Sir Joshua Reynolds (Plympton, 16 luglio 1723 – Londra, 23 febbraio 1792). In particolare, il quadro che vediamo oggi è il “Ritratto di Lady Bampfylde”, del 1776-77. 

Pur essendo il suo nome non molto noto al grande pubblico, Reynolds viene ricordato come uno dei massimi esponenti dell’arte inglese del “secolo dei lumi”. Pittore accademico prevalentemente “testimone” della tradizione e “al servizio dell’ordine costituito”, ha avuto nondimeno un ruolo importante nel dibattito teorico artistico del suo tempo e ha lasciato opere che, in particolare dal punto di vista tecnico (ma tecnica e contenuto non sono mai del tutto disgiungibili) hanno influenzato altri autori più celebri venuti in periodi successivi [come ci ricorda ad esempio Giulio Carlo Argan, a proposito di Edouard Manet (1832-1883): «…nella scelta dei colori e dei loro accordi molto più dell’attenzione al vero conta la cultura pittorica: gli accordi in nero, grigio, giallo (o rosa) Manet li ha imparati da un inglese del ‘700: Reynolds…»].

Quando rifletto su un determinato periodo storico (tanto più se me lo raffiguro in termini di movimenti e correnti artistiche relative), di solito mi si forma in mente un profluvio di immagini e suggestioni variegate, più o meno pertinenti. Da questo punto di vista, il Settecento mi si dipinge sempre nel mio personale immaginario come un secolo a suo modo molto limpido e contraddittorio ad un tempo. E’ il secolo dell’Illuminismo, della fiducia rinnovata nelle possibilità accordate alla ragione umana di sapersi muovere in piena autonomia in tutti i campi della conoscenza (atteggiamento che apre le porte ad un approccio verso la realtà di tipo positivistico e scientifico). E’ un secolo di critica e revisione del passato relativamente recente, col superamento degli aspetti contorti e dubbiosi dell’esistenza, messi in evidenza a suo tempo dal Barocco. In Inghilterra in particolare, è tuttavia anche il secolo che introduce nuove inquietudini e sensibilità, condensate nei movimenti cosiddetti del “sublime” e del “pittoresco” (correnti queste verso cui lo stesso Reynolds fu particolarmente attento e sensibile, traendone linfa creativa per la sua opera). Ancora, il ‘700 è il secolo della riscoperta di un cristallino e puro sguardo gettato sulle cose del mondo, filtrate attraverso lenti estetiche di rivalutazione del gusto classico greco e romano, da cui deriverà il neo-classicismo, per l’appunto.

Il ‘700 insomma, quando cerco di raffigurarmelo in un quadro mentale sintetico, è fatto di tutte queste cose un po’. E un qualcosa di tali ingredienti vari, lo possiamo trovare in dosi diverse anche nell’opera di Reynolds. Il “Ritratto di Lady Bampfylde” scelto da Kika, contiene in questo senso diverse “curiosità tipiche”. La dama ritratta era una giovane esponente dell’alta società: figlia di un ammiraglio (Catherine Moore il suo nome da nubile) andò in sposa a Charles Warwick Bampfylde, erede di cotanto padre, Richard Warwick Bampfylde, un membro del parlamento fregiato del titolo di “Sir” (a sua volta, in seguito, il figlio fu elevato al rango di Baronetto). Il ritratto venne con ogni probabilità commissionato a Reynolds in occasione del matrimonio della coppia di illustri giovani. Se mi è concesso di usare una definizione un po’ fatta in casa, direi che l’ambientazione in cui la figura della dama è immersa ha tutti i crismi di una certa visione “anglo-classica” della realtà. Suggestione paesaggistica e limpidezza della classicità sono ben fuse insieme a creare un atmosfera rassicurante e “di conferma” di valori stabiliti e assodati. 

Alcune interessanti notizie sul dipinto le ho scovate sul sito della “Tate Gallery” di Londra, dove attualmente l’opera si può ammirare. La posa di Lady Bampfylde è ispirata ad un “atteggiamento spaziale” molto simile a quello tenuto dalla “Venere Medici”, una celebre statua greca risalente alla fine del I secolo a.C., in pieno periodo ellenistico. Attribuita a Cleomene di Apollodoro, oggi è conservata agli Uffizi di Firenze e deve il suo nome al fatto di esser appartenuta in passato alla celebre famiglia di Lorenzo il Magnifico. Questa statua viene detta anche “Venere pudica”, per il duplice gesto che compie coprendosi il seno e il grembo con mani e braccia. 

Reynolds gioca col riferimento a quel lontano modello marmoreo, introducendo una serie di finezze che attualizzano i contenuti evocati, contestualizzandoli rispetto al gusto e alla scala di valori della sua epoca, che teneva in gran conto la morigeratezza e la misura dei costumi. 

Naturalmente, in questo caso, la modella non poteva che essere vestita. Questo consente a Reynolds di giocare sulle sfumature: la figura della dama non è priva di una sua sensualità, ma tutto è molto più ovattato, fatto di rimandi delicati e sfuggenti. Così, l’occultamento del ventre non avviene per interposizione diretta della mano (al modo della Venere), bensì per opera della sua ombra. Sempre la stessa mano, pare indicare una piantina di gigli, simbolo della purezza, che cresce rigogliosa sullo sfondo della pietra che fa da appoggio alla figura femminile stessa. Nel muto linguaggio della pittura, tutta questa serie di rimandi si traduce in una sorta di “esaltazione della modestia”, unita ad un “velato proclama” di vigoria erotica nascosta. Nel senso del medesimo sentimento variegato sembra andare anche la presenza di quel mazzolino di viole del pensiero che fa capolino dalla scollatura della dama. Un’opera insomma, questa di Reynolds, tutta giostrata sul filo di una sensualità misurata, molto elegante, carica di potenzialità “energetiche” latenti.

Dal mio punto di vista di detective fisiognomico, il volto di Lady Bampfylde è stato molto interessante da indagare. Purtroppo (o forse no) non ho potuto fare a meno di incappare in un volto famoso dell’attualità, già incontrato in occasione di un’altra puntata. In compenso, sono riuscito a trovare altri due volti che vanno un po’ controcorrente, rispetto alla mia consuetudine di fare sempre riferimento a personaggi e dive del passato in bianco e nero. Per farla breve, sono tre attualissimi volti di attrici in vario modo molto affascinanti. E hai detto niente… 

Ecco la prima ipotesi di somiglianza:


E’ lei che abbiamo già visto in una precedente puntata: si tratta di Cecilia Dazzi, che ha recitato in pellicole anche di un certo rilievo (come “La famiglia” di Ettore Scola, del 1987) e in alcune serie televisive (“I ragazzi del muretto” del 1991-96, che ha reso familiare il suo volto al pubblico, e “L’ispettore Coliandro” del 2006-2010).

Gli altri due volti sono stati una novità assoluta anche per me, li ho scoperti proprio in occasione di questa ricerca e devo dire che s’è trattato di due gran bei pezzi di scoperte. Ve li illustro per ordine:




Anche questa è un’artista di casa nostra, più precisamente della bella terra di Sicilia. Il suo nome d'arte è Margareth Madè, e a tal proposito sono venuto a sapere un tenero dettaglio: il nome vero sarebbe Margareth Tamara Maccarrone, ma ha scelto di cambiarlo per evitare buffe analogie con il celebre taglio di pasta (e se volete che ve la dica proprio tutta, per me potrebbe chiamarsi anche “Margareth Tamara Tagliolini in Brodo”, che continuerei a proclamare: «…Il Cielo sia ringraziato, per cotanto primo piatto!!!...»). Attrice e modella, ha recitato in “Baarìa” (2009) di Tornatore, nella serie tv “La mia casa è piena di specchi” (del 2010, con Sophia Loren) e ha partecipato ad un episodio del commissario Moltalbano.

Et dulcis in fundo, ecco il terzo volto:


Per una curiosa combinazione, con quest’altra fascinosa attrice, torniamo “a bomba artistica”: è infatti l’inglese Jenna-Louise Coleman, nota soprattutto al pubblico televisivo britannico per aver interpretato il ruolo di Clara Oswald, nell’ottava stagione della serie tv di fantascienza “Doctor Who”.

Prima di congedarmi, aggiungo una somiglianza dell'ultima ora, che mi è stata suggerita dal caro amico immaginario, il leprotto Lepuri. Data la fonte della suggestione, non poteva trattarsi altro che di una cosa molto scherzosa:
E con questa, sperando di non esser stato troppo irriverente verso la nobiltà inglese e verso l'arte, chiudo la prima puntata dell’anno di “Le muse di Kika van per pensieri”. Arrivederci a tutti e buon divertimento adesso sul blog di Kika, a scoprire gli incanti modaioli che la nostra maghetta preferita ha saputo tirar fuori dall’algido calore della figura di Lady Bampfylde.


mercoledì 28 gennaio 2015

lunedì 26 gennaio 2015

domenica 25 gennaio 2015

Il popolo delle cince


Troppo spesso ci dimentichiamo di essere circondati da popoli. Non mi riferisco alle grandi schiere di persone lontane, oppure alle genti venute a stare in mezzo a noi da altre terre remote. Quello è un altro discorso. Parlo dei piccoli popoli extra-umani che ci sono vicinissimi, diffusi nell’ambiente di tutti i giorni. Formano la grande famiglia delle bestioline libere che in qualche modo si sono adattate a condividere la nostra vita, mantenendo distanze più o meno calibrate in base al loro istinto e alle loro necessità vitali.

Si tratta di popoli più o meno ordinari, rustici, appariscenti o dimessi nel loro presentarsi. Ma tutti, a loro modo, dotati di dosi di nobiltà innegabile. E, cosa più importante, tutti “ci sono”. Si parte dalle dimensioni minimali, ragni, formiche, farfalle, insettini svariati, fino a crescere con gli uccellini più piccoli, e poi ancora lievitando attraverso i piccioni, gli aironi, oppure, sulla terra, lepri, fagiani, volpi, dove ci sono (per non dimenticarsi delle nutrie). Ogni giornata ci può regalare un piccolo safari domestico in miniatura, con la differenza che qui non si tratta di cacciare proprio nulla. L’unica cosa che dobbiamo fare è osservare e stupirci.

Facciamo quasi sempre come se non esistessero. Spesso non è per cattiveria, ma solo per indifferenza. La loro esistenza, nelle “istruzioni” del nostro vivere quotidiano votato alle cose immediate, è quasi visivamente e mentalmente bandita. Passano al nostro fianco come comprimari ai quali facciamo sbadatamente caso.

E invece dovremmo farci caso, alla loro presenza. E’ importante. Dovremmo apprezzarla di più, fermarci a contemplarla, cercare di coglierne, se non le leggi o le abitudini (che è roba da specialisti, studiosi esperti), almeno alcune caratteristiche sommarie, come si fa tra buoni vicini di casa. Ne trarrebbero vantaggio le nostre vite stesse. Sapere che siamo circondati da una struttura vivente complessa e molto articolata, aiuta a vedere le cose con altri occhi. Intorno non c’è solo l’impalcatura di elementi concreti e “attività pensate”, messa in piedi dall’uomo per far funzionare la propria vita. C’è anche una ragnatela vivente diversa da noi, ma altrettanto indispensabile a noi. Una trama vitale dall’equilibrio molto delicato, la cui comprensione rappresenta un ottimo allenamento per cercare di entrare in sintonia con l’essere stesso del mondo, con la realtà in cui siamo immersi e dentro la quale dobbiamo muoverci.

Uno dei più grandi di questi popoli, è quello degli uccellini. Davvero, se ci fermiamo a pensare un attimo alla loro presenza e ad osservarla con solo un minimo di cura in più, c’è da rimanere incantati. La cosa bella è che non serve avere a che fare con specie esotiche o rare. Persino negli ambienti all’apparenza meno adatti, non mancano tipi di uccellini umilissimi, ma al tempo stesso stupendi da ammirare. Un esempio per tutti, il super ordinario passerotto. 

Il passerotto è come la persona amata da tantissimo tempo o il caro amico frequentato ormai da anni. La confidenza, l’abitudine, la monotonia anche, hanno all’apparenza attenuato toni ed entusiasmi. Ma proprio lì sta il segreto: riuscire a trovare ogni volta spunti di bellezza capaci di rinfocolare la sintonia e la capacità di guardarsi con occhi sempre rinnovati. I passerotti mi regalarono una mini-esperienza una volta a Milano. Dovendo stare da mattina a sera in città, mi sedetti su una panchina a sbocconcellare un panino, che era la mia pausa pranzo per quella giornata. Era uno di quei giardinetti spelacchiati e lambiti da traffico mefitico, a prima vista (e a primo olfatto) l’habitat ideale per aspiranti al premio “enfisema d’oro”. La presenza della natura sembrava in quel luogo la cosa più lontana dell’universo: tutto antropizzato e asfaltato al massimo, fino all’ultimo centimetro quadrato, con le sole sparute eccezioni di quelle aiuole in prognosi riservata, tipiche del “verde” pubblico milanese.

Eppure, dopo pochi minuti che ero seduto lì, sbriciolando per terra col mio austero panino, ecco che cominciano a farsi sotto alcuni timidi passerotti. All’aumentare delle briciole si dimostrarono sempre meno timidi, e col passare di alcuni minuti ancora, eravamo diventati quasi amiconi di vecchia data. Allora ho pensato a una cosa. Quei passerotti erano del tutto simili a quelli che vedevo ogni giorno a casa e poi agli altri visti in tanti posti diversi. Certo, questi erano un po’ spelacchiati e sbattuti dalle ostilità metropolitane, il loro “cip” si presentava con inflessioni di pronuncia che lo facevano tendere a qualcosa di simile al “uhè”, ma sempre di passerotti si trattava. Facevano anch’essi parte di quella rete vivente di loro simili che rappresenta l’universalità passerottesca messa sullo sfondo delle nostre giornate. E pensare questa cosa mi fece star bene: loro sono lì, al di là di ogni possibile nostra distrazione, e possiamo sempre contarci.

Ma questi sono vagabondaggi per pensieri sparsi. Avrei potuto infatti venire subito al dunque e raccontarvi il motivo per cui mi sono scomodato a scribacchiare oggi. Sono riuscito a cogliere in un paio di scatti uno dei più leggiadri e buffi esponenti della grande e variegata famiglia dei passeriformi. E’ un soggetto molto difficile, dal punto di vista fotografico. Si sposta velocissimo, fa continui micro-balzelli da un ramo all’altro, è un verbo spiritello piumato della vivacità uccellesca.

Ha anche un nome che suscita simpatia: cinciallegra (“parus major”, se si vuol essere più seriosi). Per curiosità, mi sono andato a vedere come si chiama nelle altre lingue. Ho scoperto uno strano “great tit” in inglese. Un po’ più melodioso è “mésange charbonnière”, in francese. Rimanendo in tema di carbone, “paro carbonero” è il suo nome in spagnolo (non ho capito però l’attinenza col carbone). In tedesco è invece “kohlmeiese”: qui “kohl” vuol dire invece cavolo.

Avevo già fatto diverse prove di fermare l’immagine del piccoletto svolazzante, ma oltre tutto la cincia è anche sospettosa da matti. Appena vede un’ombra muoversi, se la batte di gran carriera. Ecco dunque che, sarà stato un po’ il caso e un po’ la fortuna, ma di fatto ci tengo a queste due foto. Non sono niente di straordinario, sul web se ne trovano di molto migliori. Ma queste mi piacciono perché sono riuscito a farle io (spiegazione tautologico-autoreferenzial-non-sensuale). In questi casi, vista la frenesia del soggetto, si punta l’obiettivo e si fanno più scatti possibili. Poi si vede cosa ne è venuto fuori. Fra foto sfocate e altre in cui la cincia era nascosta da rami o girata dalla parte sbagliata, ce n’erano due discretamente riuscite.



Anche qui, il caso ha giocato un ruolo fondamentale. Ma sia come sia, nella prima possiamo vedere la cincetta che sembra quasi guardare dritto nell’obiettivo, con uno sguardo a metà tra il disdegno e la sfida. Pare che dica: «…acc…mi hai beccato…tsk…tsk…bah, misero fotografo della domenica…». Nell’immagine appena seguente, la cincia sembra invece fare uno scatto altero verso l’alto con la sua mini-testolina, anche qui come a dire: «…Ciao fesso! Io me la batto…».

Insomma, come vi dicevo: dal punto di vista tecnico, due foto mediocri. Ma dal punto di vista affettivo (che spesso nella vita è l’aspetto che più conta), per me sono importanti.


lunedì 19 gennaio 2015

Rotolando lungo il piano Topesiano


Se oggi inizio dicendo che ho un’amica di nome Billie, già si capisce che sarà un racconto non proprio normale. Ci dev’essere qualcosa di molto sbagliato in me, oppure di profondamente giusto. Non l’ho ancora capito bene. Di fatto mi succede spesso di adornare un’amicizia con personaggi di fantasia. Con Yumi, è sbucato fuori il tenero Lepuri. Fra le chiacchiere fatte con Billie, forse non poteva stramazzare altri che Topesio, in tutta la sua vanesia prestanza. 

Billie è una conversatrice brillante, capace di sottili finezze dialogiche. Secondo me è anche una brava scrittrice, ma quando provo a ricordarglielo, sembra quasi che non mi voglia stare a sentire. Billie è una persona molto buona, ma le piace giocare a visitare gli affilati territori di una certa tenera perfidia. Per una serie di motivi che qui sarebbe lungo e forse noioso spiegare, Billie mi chiama Wen.

Ovviamente Topesio non è un frutto puro della fantasia di Billie e Wen. E’ un personaggio minore della famiglia Disney (e già mi pare di sentirlo borbottare in sottofondo: “…Minore ci sarai tu e tuo nonno!!!...”). In America si fa chiamare Mortimer Mouse, ma fin da quando lo incontrai in alcune sue rare apparizioni sulle pagine di Topolino, rimasi affascinato da quel suo nome italicamente insonorizzato e dall’ineffabile naso pendulo. Per me Topesio è un nome strepitoso, ha un suono bizzarro e aggraziato nello stesso tempo. Condensa in sé giocosità verbale e blandizie sillabiche: quella “esse” appena sporcata da un velo di “zeta” dona una vera è propria soddisfazione a lingua e palato nell’atto di pronunciarla. Nella mia innocua follia, la desinenza in “esio” ha finito addirittura per diventare l’intelaiatura di un certo modo di vezzeggiare le parole. Per esempio, penso ad un gatto carino come a un bel “micesio”, mi gusto la lettura di un piacevole “libresio”, oppure, se mi stufo, vado fuori a farmi un “giresio”.

Topesio l’ho nominato un giorno, parlando appunto con Billie. Non ricordo nemmeno più com’era finito nel discorso, ma da quella volta non ha più abbandonato la nostra compagnia. Rispetto all’originale Disney, è naturale che abbia assunto caratteristiche molto più ruspanti e sconvenienti. Io lo nominai una volta, ma la fisionomia morale (e soprattutto amorale) di Topesio, è un capolavoro narrativo in larga parte frutto della fantasia di Billie. Mi rammarico sempre di non aver avuto l’accortezza di salvare o ricopiare certi immaginari dialoghi topesiali, sostenuti da Billie con il vanesio topaccio nostro amico-nemico. Erano vere e proprie perle di arguzia ironica, alter-egoiche acrobazie intrattenute a fil di battuta con il riflesso sarcastico di sé. A Billie gliel’ho detto che è una brava scrittrice. Ma niente da fare, non mi dà ascolto.

Nel matto infingimento di una vita parallela, che spesso evochiamo per scherzo nei nostri dialoghi, Billie abita a Villa Arzilla, una casa di riposo per tipi molto particolari. Forse Wen (che sono io, ve lo rammento) ambirebbe ad avere anche lui una camera alla “Villa”, soprattutto da quando ha saputo che pure Sharon Stone è ospite dell’ospizio e si favoleggiano lussuriosi disvelamenti della sua pancera in giro per i corridoi, notte tempo. Topesio è ospite naturale di Villa Arzilla, ma ovviamente si è intrufolato facendosi posto con le sue melliflue e vischiose maniere. Non occupa infatti una vera e propria stanza, ma ha ottenuto uno sgabuzzino in subaffitto da Billie. La pigione la paga quando può e non certo coi soldi, da squattrinato endemico qual è. Senza regolare scadenza, salda le rate con razioni di trippa trafugate nelle mille baldorie in cui è spesso coinvolto. Topesio a Villa Arzilla ci sta poco. Passa giusto le volte che gli gira di venire a fare il gradasso con gli altri amici ospiti. In “Villa”, oltre alla Sharon, abitano infatti anche Yoghi e Bubu, Napo Orso Capo (con Cico e Babbà), Mototopo e Autogatto, Wobinda e il vombato. E sono solo alcuni di quelli che mi ricordo. C’è poi un ospite di gran lusso: Gustavo, il cartone ungherese degli anni ’70. 

Per qualche fugace periodo, anche Orzowei ha dato lustro alla “Villa”, con la sua presenza indecifrabile. Billie è nascostamente infatuata di questo eroe telefilmico di alcuni anni fa. Una notte però Orzowei è sparito lasciandosi dietro lo stesso alone di mistero che si era portato arrivando. Billie dice che se ne sia rimasto in Nepal, dove Topesio aveva organizzato una spedizione insieme ad altri ospiti dell’ospizio. In quella circostanza, Topesio rischiò molto grosso: non aveva avvertito gli amici di attrezzarsi con l’abbigliamento adeguato, così si ritrovarono, alle pendici dell’Himalaya, con Yoghi che indossava solo la sua solita cravattina e le infradito, il ranger Smith nella sua sottile camiciola color kaki e Napo Orso Capo che sgommava sulla sua moto immaginaria per scaldarsi un po’ le zampe sulla marmitta. Volevano linciare Topesio buttandolo giù da un crepaccio sul ghiacciaio dell’Annapurna, ma lui si salvò corrompendo, con una razione abnorme di trippa di yak otto sherpa che lo trafugarono in territorio cinese. Poi tutti i componenti della spedizione riuscirono bene o male a rimpatriare per vie traverse, ma Orzowei pare sia rimasto là. Billie si domanda come possa tirare avanti con addosso soltanto quei quattro stracci del suo costume da Masai. Sospira e non sa darsi risposta…

Topesio odia fraternamente Wen (cioè me). Per Wen questa forma di stima odiosa è reciproca. In tutto questo, c’è piena soddisfazione da parte di tutti e due. Quando Topesio vuol far morire d’invidia Wen, gli ricorda che lui la pancera della Sharon la può vedere quando gli pare e piace. E non solo la pancera, se è per questo. Topesio è il più grande millantatore del ‘900, e si ostina a millantare ancora adesso che quel secolo è finito. 

Topesio sta assente magari per giorni, e poi piomba dritto di sorpresa in “sala briscola” a Villa Arzilla, e si mette a intrattenere tutti coi suoi racconti gonfiati. Favoleggia di feste strepitose alle quali è stato invitato, vanta conquiste femminili stratosferiche, follie danarose impareggiabili…ma poi Billie mi rivela di sottobanco, che in realtà il più delle volte è stato a qualche raduno degli alpini, o nell’osteria da “Beppone lo Sdrucito”, a rimpinzarsi di lambrusco e sbraitare canzonacce sguaiate. Spesso si tradisce anche da solo, perché si mette a raccontare delle sue peripezie in trincea sul Carso, durante la Grande Guerra, col fiato che puzza di grappa “a rischio esplosione”. Ma tutti a Villa Arzilla sanno che Topesio ha fatto il CAR a Porto Gruaro nel ’72, e poi s’è imboscato in fureria a Codroipo, dove nel giro dei commilitoni aveva messo su un mercato nero di laccetti per scarponi stracciati. Alla fine lo hanno beccato nel bel mezzo di questi suoi traffici da arruffone, e lo hanno congedato con disonore, più stracciamento delle mostrine sulla pubblica piazza del paese, completo di coro intonato da tutto il reggimento e dai più illustri avvinazzati locali: «…Topeeesio!…Topeeesio! La senti questa voce???...», eccetera, eccetera.

Una volta Topesio è arrivato a Villa Arzilla con indosso un frac sfavillante, con tanto di garofano bianco all’occhiello. Sosteneva di aver passato un week-end da favola a Cannes, sulla croisette, in compagnia di una coppia di sorelle che lui chiama “le slavatine” (che poi sarebbero Alba e Alice Rohrwacher). Topesio è molto scorretto, soprattutto con le donne. Sostiene di applicare la regola aurea del teorema di Marco Ferradini: prendi una donna, trattala male. Peccato per lui che quasi sempre sono le donne a trattare malissimo Topesio. Anche quella volta, la versione giusta mi è stata spiegata da Billie. Il frac se l’era procurato a nolo pagando l’affitto esagerato di 42 chili di trippa di contrabbando. Arrivato a Cannes infrattato nelle toilette del treno per sfuggire di continuo al controllore, si è affannato a sbirciare qualche coscia o scollatura sul red carpet, ma la folla lo ha tagliato fuori per tutto il tempo. Per la delusione s’è rifugiato per tutta la notte in una brasserie, a trincare pernod e cantare canzoni esistenzialiste coi marinai dei pescherecci.

Un’altra grande conquista femminile ostentata da Topesio è Melita Toniolo. Ad essere sinceri, questa si è vista per davvero, alcune volte, a Villa Arzilla. E’ anche stata ospite per qualche tempo. Ma qui s’è verificata una delle più grandi beffe topesiali, una delusione che ancora gli bolle dentro molto forte. Dopo averci provato con Melita senza tregua per settimane intere, quasi rovinandosi la salute a forza di contrabbando di trippa per procurarsi regali da proporre all’ubertosa figliola, è successo l’irreparabile topesiale: Melita s’è avventurata in una clamorosa fuitina con niente di meno che Gustavo. Sembra che ora la curiosa coppietta impazzi nei più lussuosi hotel di mezza Europa dell’est. Gustavo sta dando fondo alla liquidazione ricevuta nell’85 dalla sua ditta, la “Burokratzkaya Skartoffiova”. Dall’inizio di questo idillio ha perso il suo classico grigiore di regime, non va più alle riunioni di sezione e sostiene persino non aver mai creduto al materialismo storico. Melita si dice conquistata dalle maniere burocratiche di Gustavo. «…Nessuno mi aveva mai fatto dichiarazioni d’amore con parole così commerciali e amministrative…» pare abbia dichiarato alla stampa scandalistica.

Topesio ostenta indifferenza glaciale quando vede Melita e Gustavo paparazzati sulle pagine di “Topaccia 2000” o sulla “Gazzetta del Traghettino”, ma sotto sotto gli rode come un pazzo, anche se non sarà mai disposto ad ammetterlo. E la prossima volta che parlerò con Billie, so già cosa lei avrà da riferirmi da parte di Topesio: «…Wen?...Wen chi?…». Poi, fingendo di parlare da solo per non farsi sentire: «…Wen…bah…io lo odio, quel Wen…».


giovedì 15 gennaio 2015

mercoledì 14 gennaio 2015

Lùkkinlaiksàmfin’ dèt dekètbrodìn


C’è una canzone dei Police che mi è sempre piaciuta tanto, s’intitola «Invisible sun». Forse è da considerarsi fra le minori nella produzione dei tre ciuffi biondi di Newcastle (è del 1981, dall’album “Ghost in the machine”). L’ho risentita per caso in questi giorni. Era parecchio che non mi carezzava l’udito con la sua melodia un po’ strascicata e indolente. 

Come faccio spesso con le canzoni, soprattutto con quelle inglesi o americane, di solito bado poco al senso del testo. Lo so, è un mio limite. Ma la melodia e le sonorità stesse delle parole, prevalgono sempre. Per me le canzoni sono un fatto istintuale, quando le sento la razionalità tende ad affievolirsi dentro, lasciando maggior spazio all’emozione.

Detto questo, in «Invisible sun» è contenuto un verso che mi sta molto simpatico. Proprio per la mia tendenza a distrarmi alquanto dal significato, ho spesso canticchiato questa frase della canzone come fosse un gradevole gioco di parole o poco più. Le frase dice: “…Looking like something that the cat brought in…”, ossia, se la mia traduzione casereccia non va troppo errata, “…assomigliando a qualcosa che il gatto ha portato dentro…”. Di colpo, dopo vent’anni o più che conoscevo la canzone, questo verso un po’ bislacco e affabile mi si è rivelato sotto una luce diversa. Ho forse capito che “…assomigliare a qualcosa che il gatto ha portato in casa…”, potrebbe anche essere uno stupendo programma di vita. 

Mi sono andato a vedere il testo completo della canzone, trovando per intero la frase che contiene il delicato verso prediletto (col mio inglese campagnolesco non l’avevo mai colta bene). I due versi abbinati dicono:

I face the day with my head caved in
Looking like something that the cat brought in

(Affronto il giorno con la testa svuotata
Assomigliando a qualcosa che il gatto ha portato in casa)

Più bello del bello, mi sono detto (sempre se non ho lisciato clamorosamente la traduzione). 

Riflettendo poi con ancor più cura sulle parole, mi è scattata in mente una piccola epifania letteraria. Mi sono ricordato di un bellissimo aneddoto riguardante la vita di Lao-tzu, il maestro del Taoismo. E’ riportato su un prezioso libricino del mistico indiano Osho, intitolato “I maestri raccontano – Storie di saggezza hindu, sufi, tao e zen” (Mondadori, 2008). 

Nel corso di una delle tante peregrinazioni in compagnia dei suoi discepoli, Lao-tzu giunse un giorno al cospetto di un grande bosco, che una squadra numerosa di operai si apprestava a tagliare, per utilizzare il legno nella costruzione di un palazzo. Gli uomini rasero al suolo tutti gli alberi, lasciandone in piedi soltanto uno molto grande, pieno di ramificazioni e dalla chioma così vasta da poter offrire ombra a tantissime persone. Lao-tzu disse ai discepoli di andare a chiedere agli operai come mai avessero scartato il gigante verde. Sentita la spiegazione dei boscaioli, i discepoli tornarono a riferire al maestro: l’albero gigante era stato risparmiato per via dei suoi rami troppo contorti, non erano abbastanza dritti per ricavarne nemmeno un’asse, e per di più il suo legno era vecchio e fradicio, non andava bene da bruciare, avrebbe fatto solo gran fumo.

Le motivazioni fecero scoppiare Lao-tzu in una risata di gioia. Poi spiegò ai discepoli (cito direttamente dal libricino di Osho): «…”Siate come questo albero. Se volete sopravvivere, siate come questo albero […]. Se siete troppo dritti, verrete tagliati, e diverrete mobilio nella casa di qualcuno. Se siete belli, verrete venduti al mercato, sarete ridotti a una merce. Siate come questo albero, completamente inutili, e nessuno vi farà del male. Allora crescerete alti e maestosi, e migliaia di esseri umani troveranno riposo sotto la vostra ombra” …»

Spiega Osho: «…La logica di Lao-tzu è completamente diversa da quella della tua mente. Lao-tzu dice: sii l’ultimo. Egli invita a camminare nel mondo come se non esistesse: a rimanere sconosciuti. Non cercare di essere il primo, o sarai annientato. Non competere, non c’è bisogno di dimostrare il tuo valore: resta inutile, e goditi la vita. […] La vita non è qualcosa che deve diventare un prodotto. La vita non è una merce da immettere sul mercato: la vita dev’essere poesia, una canzone, una danza…».

Ecco, probabilmente i Police non volevano dire queste cose. Ma la loro “cosa portata in casa dal gatto” mi è sembrata molto in sintonia con l’insegnamento di Lao-tzu. Per completezza del discorso, riporto di seguito il testo completo di «Invisible sun», ma da oggi credo di sapere un po’ meglio quale possa essere il manifesto della mia stramberia: “…somigliare a qualcosa che il gatto ha portato in casa…”.

Invisible sun – The Police

One, two, three, four, five, six

I don't want to spend the rest of my life
Looking at the barrel of an Armalite
I don't want to spend the rest of my days
Keeping out of trouble like the soldiers say
I don't want to spend my time in hell
Looking at the walls of a prison cell
I don't ever want to play the part
Of a statistic on a government chart

There has to be an invisible sun
It gives its heat to everyone
There has to be an invisible sun
That gives us hope when the whole day's done

It's dark all day and it glows all night
Factory smoke and acetylene light
I face the day with my head caved in
Looking like something that the cat brought in

There has to be an invisible sun
It gives its heat to everyone
There has to be an invisible sun
That gives us hope when the whole day's done

And they're only going to change this place
By killing everybody in the human race
They would kill me for a cigarette
But I don't even wanna die just yet

There has to be an invisible sun
It gives its heat to everyone
There has to be an invisible sun
That gives us hope when the whole day's done


giovedì 8 gennaio 2015

mercoledì 7 gennaio 2015

Il Capodanno di Lepuri e Gilli


Inventarsi amici immaginari non sarà certo cosa da gente tanto a posto di senno. Ma se proprio lo volete sapere, mi fido ancor meno di quelli che ti vogliono far credere che certe faccende reali siano così belle.

Qualche tempo fa vi ho parlato di un carissimo personaggio della fantasia, il tenero Lepuri Sposu, più affettuosamente Lepuri, per gli amici. Lepuri è nato da certi scherzosi scambi di chiacchiere con la simpatica amica Yumi, appassionata conoscitrice della bellezza linguistica sarda. Anche io, nel mio umile piccolo, mi reputo a mia volta indegno ammiratore della nobile lingua di Sardegna. Questo sonoro, lussureggiante, misterioso linguaggio dalle forti componenti “ctonie”, iniziò ad affascinarmi fortemente, al di là dei toni molto drammatici delle vicende narrate, quando lessi l’intenso capolavoro di Gavino Ledda “Padre padrone”.

Ogni volta che ci sentiamo, con Yumi, il personaggio di Lepuri si affina lungo il filo delle chiacchiere, sempre ravvivandosi attraverso un non dichiarato “facciamo finta che”, vero è proprio nucleo giocoso dell’invenzione condivisa. Lepuri è di fatto un leprotto un po’ fumetto, un po’ piccolo folletto dei prati, nel senso che in lui convivono benissimo sia una modernità un po’ caciarona, sia l’amore per le nobili tradizioni della sua terra (non a caso, l’etimologia precisa del suo nome “e cognome”, Lepuri Sposu, si riferisce ad una forma di ciclamino selvatico diffuso fra le verzure d’erbetta sarde). Lepuri ha idealmente intorno agli otto anni, ma nello stesso tempo anche circa quaranta.

Lepuri abita di solito con Yumi, ma in un nostro recente “facciamo finta”, ci siamo immaginati che l’ineffabile leprottino venisse a passare alcuni giorni a casa mia, appena prima del Capodanno. Io sono stato davvero felice di ospitarlo. Se n’è arrivato, se non ricordo male, nel tardo pomeriggio del 30 dicembre, smotorando gioiosamente sull’aspirapolverina che è il suo mezzo di locomozione preferito, quando deve fare certi spostamenti un po’ lunghi, oppure se decide di non servirsi dei suoi vivacissimi piedini per “scoriattare” in casa o nei prati. “Scoriattare” vuol dire correre un po’ sguaiatamente, manifestando gioia, ed è verbo preso dalla tradizione dialettale di Gillipxiland: Lepuri non corre infatti, ma “scoriatta”, dimostrandomi anche in questo modo il suo affetto linguistico.

Con Lepuri, abbiamo passato l’ultimo dell’anno insieme. Yumi, Lepuri ed io, siamo amici di vecchia data di Maurizio Costanzo e di Maria (sempre nei nostri “facciamo finta che”, s’intende…e non so se sia più folle precisarlo o averlo detto). Da Maurizio veniva organizzato un veglione di gran gala con tanti personaggi famosi e sconosciuti. Lepuri ed io eravamo invitati in quanto rappresentanti della classe dei personaggi non famosi, così siamo andati volentieri. Arrivati a casa di Maurizio, gli ospiti di gran lustro si sprecavano: c’erano infatti il mago Otelma, Vittorio Sgarbi, Gigi Marzullo, Ernesto Sparalesto, Pino dei Palazzi, Shakira, Lello Arena, Mario Marenco, Ginxi, Pixi, Dixi e il Leprotto Marzolino…e sono solo alcuni di quelli che ricordo. Al tavolo del vascone con dentro la sangria, mi pare di aver intravisto anche Lupo de Lupis, il lupo tanto buonino, che armeggiava con bicchieri e mestolone, mescendo il delizioso liquido iberico per tutti i convenuti.

Fra i non famosi, ho invece riconosciuto Edgard Stupenfaust Wilkinson Primo, ereditiere di una nobile famiglia di ortolani decaduti (pare infatti che erediterà soltanto 825 tonnellate di torsoli di mela); poi c’era Sibilla Di Sguincio, la modella non famosa più richiesta del momento, sia da pittori, sia da fotografi all’ultimo grido (Sibilla era accompagnata per l’appunto dal suo fotografo di fiducia, Rirroro Sississello, e dal suo pittore di fiducia, Vevovivo Erdomordario); poi ancora, ho visto Gifraudo Epico Swillington, esperto internazionale di sofisticazioni termosanitarie (suo, il celeberrimo affare del secolo messo a segno nel settore delle tavolette da water riscaldate). C’era inoltre Sovieta Magdalova Soda, fascinosa attrice, grande virtuosa nell’interpretazione del metodo di recitazione del maestro Cagnoslawsky. E poi c’eravamo Lepuri e io.

Maurizio e Maria ci sono subito corsi incontro per darci il benvenuto e fare gli onori di casa. Lepuri era contentissimo di rivedere Maurizio e gli ha scoriattato un po’ intorno, prima di darli la zampa, dicendogli: «…Buonasera, signor Show, che piacere rivederla signor Show!!!...». Lepuri è convinto che Maurizio Costanzo di cognome si chiami “Show”. Poi è stato molto galante, facendo il baciamano a Maria e sussurrando durante l’inchino: «…Buona camicia a tutti!!!...». I baffetti di Lepuri han fatto il solletico sulle nocche a Maria, che ha riso di gusto. Maurizio conosce bene Lepuri e ovviamente si è divertito un sacco a queste sue uscite, dicendoci poi di fare come se fossimo a casa nostra. Lepuri lo ha preso alla lettera, e si è messo ad imperversare nel salone sulla sua aspirapolverina, passando più volte sui piedi del mago Otelma, che urlava un po’ isterico: «…Nooo, che dopo non mi sposooo!!!...».

Quando mi è riuscito di calmare un po’ Lepuri, l’ho lasciato un attimo in compagnia del Leprotto Marzolino, e di Ginxi, Pixi e Dixi. Si conoscono, vanno d’accordo e hanno tanti argomenti di conversazione. Discutono ad esempio del rincaro del prezzo delle carote all’ingrosso, oppure del rinnovo del contratto nazionale per i lavoratori dei cartoni animati. Appena il tempo poi di andare a prendere un bicchiere di sangria (me l’ha servita Svicolone, stavolta…Lupo de Lupis doveva essere andato a spostare la sua Jaguar E-Type in divieto di sosta, nel frattempo), e quando ritorno, Lepuri s’è già aggregato ad un altro capannello: stava discutendo di gran lena con Vittorio Sgarbi!!! Lepuri sosteneva che il Cubismo l’avevano inventato la Star e la Knorr, quando gli venne in mente di concentrare il concetto di brodo nella forma di dado (a casa mia, deve essersi messo a leggiucchiare la storia dell’arte di Argan per digerire i cappelletti, facendo un po’ di confusione, come suo solito). 

Sgarbi s’è inalberato da bestia, andava su tutte le furie, e per fortuna che proprio in quei momenti è partita la musica. Lepuri quando sente la musica viene quasi come trascinato dalle sue zampettine impazzite. Era un tango. Lepuri allora ha ghermito Sovieta Magdalova Soda in un abbraccio plateale, iniziando a ballare con lei. Le ha fatto venire il fiatone a furia di casquè e piroette, fino a che Sovieta gli ha sussurrato all’orecchio: «…Tovarish Liepurrowsky, non provavo più così tanto impeto, da quando leggevo ancora le notizie sulla Pravda!!!...». 

Ormai lo conosco: con cose di questo genere, Lepuri si gasa da matti. Essendo fin troppo vivace di suo, in simili circostanze è meglio frenarlo un po’. Sapevo già cosa fare. L’ho preso gentilmente per la collottola (quando glielo faccio, immancabilmente si mette a ridacchiare: «…Hihihihihihi!!!...») e l’ho portato da Gigi Marzullo. Hanno iniziato a parlare amabilmente, con Lepuri che cercava di fare del suo meglio, ribattendo cose del tipo «…si faccia una risposta e si dia una proposta...», ma alla fine la loquela di Gigi ha prevalso, facendo calare vistosamente la palpebra a Lepuri. 

L’imminente arrivo della mezzanotte ha riscosso gli animi, tutti presi dal fermento generale di stappare le bottiglie di spumante. Lepuri si è riavuto dal torpore marzulliano e ha approfittato per allietare l’ambiente con uno scherzetto. Tutti erano in piedi per il brindisi, ma Tina Cipollari ha proclamato che l’avrebbe fatto da seduta, per essere originale. Si stava giusto adagiando sulla poltrona, proprio pochi secondi prima dello scoccare delle dodici, quando Lepuri le ha infilato sotto il sedere uno di quei palloncini di carnevale che fanno la pernacchia. Il fatidico contatto si è avuto proprio sul rintocco esatto della mezzanotte precisa, cosicché il 2015 è stato accolto da quel sospetto fragoroso frastuono, tra risate sguaiate da parte di tutti.

Poi la musica è ripartita e si è ballato tutti insieme fino a ora tarda, con Lepuri sempre protagonista di frizzi e lazzi vari. Alla fine abbiamo salutato e ringraziato tanto Maurizio e Maria, con anche tutti gli ospiti, e ce ne siamo tornati a casa. Di sangria e spumante ne avevo bevuto un po’ troppo. Così son salito sull’aspirapolverina di Lepuri, che ha guidato fino a casa. A parte rari casi in cui si concede un goccetto di cannonau per scaldarsi le idee, lui brinda infatti sempre a succo di carota. E così aveva fatto anche alla festa del signor Show. 

E mentre rincasavamo sull'aspirapolverina, si poteva sentire nella notte Lepuri intonare: «…Se dal passato arriverà / una leprotta civiltà!!!...». E per fortuna, quello che aveva bevuto ero io...


domenica 4 gennaio 2015

Ricordo e rogito


Il sonno sogna la vita,
sommesso
sussulto
sonnambulo di sé.

Folate di flati fatati
fluitati dal folto flauto.

Oracoli d’ore orfiche
orefici d’auree oralità.

Stelle di stile stillano
dagli steli in stallo.

Fiera di fari fino a fuori
inferta da fiori forti.

Olle d’olio aulente
dall’olivastro onfalo
olezzano d’alloro
l’aula aulica
d’ologrammi olimpici.

Intimi intingoli
d’interiori intrugli
da introduzioni interrotte
a tratti sul tenue
tattile dell’intonso intangibile.

Saremo pur sempre essenti
dei sensi che insieme siamo stati.


giovedì 1 gennaio 2015

L’anticamera dei sogni a spicchi d’arancio


Il modo ottimale per trascorrere l’ultimo dell’anno, a mio avviso è quello di poter stare insieme alla persona amata. Nell’impossibilità eventuale, la seconda opzione è di poter trascorrere qualche ora con alcuni amici cari. Se per una serie di motivi non si può realizzare nessuna delle prime due alternative, rimane solo una terza scelta dignitosa: andarsene a letto. Ed è quello che ho fatto ieri sera.

In queste circostanze, ci si sforza di raccomandare a se stessi che, sì, va beh, dai, la sera dell’ultimo dell’anno è pur sempre un sempre una sera come le altre. Ma alla fine non è mai così: che tu sia in compagnia o da solo, quella dell’ultimo non è mai una sera come le altre. Il punto è che a rimanere da soli, ci se ne rendo conto di più: la differenza è tutta lì.

Me ne stavo leggendo qualcosa sotto le coperte, infagottato nel mio dispositivo invernale brevettato di lettura. I botti di qualcun altro si sono messi a fracassare il buio di fuori. I botti per me, soprattutto quelli di Capodanno, sono un po’ come il tempo per Sant’Agostino. Se non me ne parli, nemmeno io ti dico niente, ma se mi chiedi dove andrebbero infilati, ti rispondo tirando in ballo innominabili sfinteri dei molesti acquirenti dei medesimi. Sottintendendo che dopo averli colà introdotti, si rende praticamente doveroso dar fuoco alla miccia.

Il fragore di quelle flatulenze emesse da minorati mentali (in una parola: “petardi”) mi ha distratto un attimo dalla lettura. Ho posato il libro sul petto, ho portato le mani agli occhi, sfregando delicatamente le palpebre chiuse. E’ bello concedersi questo gesto, centellinandolo ogni tanto per non renderlo scontato. Mi piace osservare lo sfavillio di stelline che si forma lungo la cupa superficie globosa sotto-palpebrale, mentre un senso di distensione para-sensuale si diffonde per tutto il corpo. Poi le mani si sono aperte, allargandosi alla faccia e impugnando praticamente tutta la testa, che così accolta tra i palmi mi ha rievocato qualcosa di molto familiare, benché lontano negli anni. In questo modo, migliaia, se non milioni di volte, ho tenuto fra le mani il pallone da basket.

Chi non ha mai giocato a pallacanestro forse non potrà capire, ma è stata una specie di rivelazione. Solo in quell’attimo ho capito che in ogni partita di basket giocata, per ogni tiro fatto, per ogni palleggio, insomma per ogni gesto cestistico compiuto nei tanti anni in cui ho amato questo sport, non tenevo fra le mani la beneamata palla a spicchi, bensì la mia testa. Il senso zen del basket, ma anche di tutti gli altri sport probabilmente, mi si è svelato. E non solo di tutti gli sport: forse persino il significato di ogni azione intensa nel senso più generale. 

Ricordo infatti che proprio l’azione di gioco, in particolare nel basket, riusciva al meglio quando la testa traslocava al di fuori di sé e prendeva dimora nel pallone per rimbalzare ed essere manipolato, nelle braccia per palleggiare o passare o tirare, nelle mani, nelle gambe e nei piedi per scegliere sul campo le traiettorie più indicate o per danzare al ritmo del palleggio. Meno si pensava e meglio si agiva. 

Intanto i botti hanno continuato ancora un po’, e io mi sono gustato questa piccola scoperta, ho palleggiato immaginariamente con la mia testa, ho tirato a canestro, da 5 o 6 metri, la mia distanza preferita. Ed anche se suona molto bizzarro, la testa rimbalzava lieta sul piano di gioco e poi contro il tabellone, oppure frusciava precisa nella retina del canestro, passava dalla carezza di una mano all’altra. In un modo alternativo di volersi un po’ bene con la fantasia. Al posto della testa avevo il salutare “vuoto” che occorreva, e per alcuni momenti tutto è stato perfetto così. 

Poi ho spento la luce, mi sono girato sul fianco per accogliere il sonno, riflettendo sul fatto che una serata trascorsa con la persona amata sarebbe stata “forse” un po’ meglio. Ad avercela, la persona amata. E poi, l’ultimissimo pensiero che mi ha colto prima di addormentarmi, con ampio sollievo vanziniano, è stato: «…e anche questo ultimo dell’anno se lo sémo levati dalle palle!...».