sabato 30 aprile 2011

Semicerchi sono qui


Siete sempre stati convinti che sogno e scrittura non abbiano nulla a che vedere l’uno con l’altra? Questo è successo semplicemente perché non avevate ancora sentito raccontare ciò che sto per dirvi oggi in questo articoletto.
Come vedete, oggi sono partito sul modesto andante….

Ma la mia blaterata considerazione odierna, nasce più che altro da un secondo “blando” interrogativo. Così, proprio una bazzecola da quattro soldi che ognuno si domanda quotidianamente, appena messi già i piedi dal letto. L’ulteriore auto-quesito in questione è infatti questo: come si esplicitano di preferenza le nostre sensazioni di esserci al mondo? Niente paura, non ho nessuna intenzione, con questa terminologia para-altisonante e trombonesca, di andar a scomodare Martin Heidegger. Mi riferisco semplicemente all’impressione che più ci si impone quando ci riferiamo al concetto della “consistenza di noi stessi”.
In cosa consisto io, con più evidenza, a me stesso?

La risposta più pertinente credo che sia: consisto in un incessante rimuginio verbale interiore. Fate un po’ mente locale a questa cosa e vedrete che non mi sto sbagliando di tanto. Ripensate magari ad un piccolo episodio vissuto qualche attimo prima, non importa se poco significativo. Mettiamo che siete appena stati seduti a tavola a pranzare. In cosa è consistito in prevalenza il vostro percepire voi stessi negli attimi in cui stavate mangiando? Certo, è consistito nell’essere immerso in uno scenario di sapori, suoni, voci magari, profumi, odori, sensazioni al tatto e così via, ma molto più in generale è consistito nel prodotto dei vostri pensieri a proposito di tutti quegli stimoli esterni, a loro volta rimescolati con una quantità altrettanto, se non ben più vasta, di considerazioni riflessive aggiunte, nate direttamente dal vostro repertorio mentale.

«...Ehi, ehi, ferma un attimo…» sbotteranno a questo punto i più attenti fra i miei cari amici viandanti per pensieri, «...ma cosa ci vieni a raccontare, Gillipix? Qui ci stai rifilando il vecchio “cogito ergo sum” cartesiano, solamente un po’ camuffato con un paio di logore braghe da bifolco…».

D’accordo, d’accordo, non vi volevo mica nascondere nulla, né tanto meno avevo la pretesa di venirvi a raccontare qualche nuova teoria filosofica assolutamente inedita. Sono soltanto le mie solite quattro vaccate…

Però sono convinto che ci si renda poco conto di quanto il nostro consistere più che altro in “materiale mentale” sia uno stato talvolta così totalizzante. Ciò che di noi s’impone continuamente è un incessante dialogo interiore. Noi siamo un continuo parlare intimo con interlocutori fittizi dei quali non possiamo fare assolutamente a meno. Essi rappresentano, per così dire, il nostro ossigeno esistenziale.

Avevo tuttavia detto in apertura che avrei parlato di sogno e scrittura. Ecco, per arrivare a quel tema, è necessario fare un altro piccolo passo avanti nella disquisizione. Se nello stato di veglia, il nostro dialogare interiore si costruisce prevalentemente sul contrasto, sul conflitto, nel sogno invece “si ottiene ragione” molto più agevolmente. Nel sogno, gli altri nostri “sé” coi quali intessiamo ragionamenti e discussioni, non sono pedanti e tignosi sostenitori di valori inamovibili, magari sventagliati facendo leva su soffusi sensi di colpa, come accade nel rimescolio mentale da svegli.

Nel sogno i nostri “altri da noi” sono comprensivi, vengono incontro con molta più indulgenza alle nostre esigenze psicologiche e di riflesso anche fisiche. Nel sogno, anche quando l’atmosfera non è delle più piacevoli, ci sentiamo ad ogni modo protagonisti totali, personaggi assoluti della trama. Nel sogno io sono io, ma sono anche tutti quelli coi quali mi ritrovo ad aver a che fare. Nel sogno sono la mia persona e nel contempo sono anche tutto il mio mondo di quei momenti. Nel sogno viene meno quel distacco fra me e gli “altri da me”, percepito invece a volte anche molto duramente nello stato di veglia.

Ecco, a questo punto, mi domando e dico: una dinamica simile non si innesca anche calandosi nella dimensione dello scrivere? E in particolare, non si innesca a maggior ragione quando si tratta di scrivere nelle forme “romanzescamente” intese. Questa considerazione mi è balzata alla mente facendo particolarmente caso a certe diffuse sensazioni derivate spesso dalla lettura di diversi romanzi.

Tutta l’impalcatura narrativa vive emotivamente di una inestricabile fusione fra voce narrante ed entità psicologiche evocate attraverso i protagonisti della storia. Poco importa se sia stata scelta la strada del raccontare in prima, oppure in terza persona. Quel sapore di identificazione dei tanti sé in una unica entità, che è poi l’esito della scrittura, s’impone in ogni caso. Scrivendo, mettiamo nero su bianco i meccanismi del sogno, così come leggere ci offre la possibilità di addentrarci nelle atmosfere di un sogno altrui.

Ogni cosa scritta che possegga una certa profondità tematica, può essere intesa come frutto di un dialogo coi propri “simulacri interiori”, con una schiera di “alter-ego” scaturiti dall’intreccio delle sillabe depositate sulla pagina. Anzi, per essere più precisi salvando la metafora onirica, è più corretto definirli “alter-es”. Non sono infatti “altri da sé” parenti di quelli del rimuginare interno “utilitaristico” nel vissuto quotidiano. Gli “altri noi” scaturiti dall’atto dello scrivere sono più vicini a quelli del sogno, più simpatici ed accondiscendenti, ci offrono la loro complicità in misura più vasta, comprendono meglio le nostre esigenze spirituali, sono più disposti a venire a patti coi nostri capricci, con le nostre debolezze, con le fisime del cuore, dell’anima, e anche della “pancia”

Insomma, cari amici viandanti per pensieri, concludendo, perdonatemi se oggi sono stato un po’ criptico ed ostico anziché no, nel mio argomentare. So anche che in questo momento starete pensando: «...Ma non si faceva prima a citare la famosa frase di Flaubert, “Madame Bovary c’est moi”, in modo da risparmiarci tutto questo pippone di articolo sgangherato?…».

D’accordo, è tutto vero. Però pensateci un momento: che gusto c’è ad affidarsi sempre al senso comune? Non vale forse la pena, ogni tanto, di concedersi il lusso di qualche incursione nel “senso non comune”? Che gusto c’è a dire sempre le cose come stanno, tutte belle lineari, pulitine, palesi e scontate?
Se proprio proprio, quando si ha bisogno di qualcosa del genere, si fa sempre in tempo ad accendere la televisione…

martedì 26 aprile 2011

In the name of the Word


Un po’ tutti noi di casa Pixel siamo sempre stati sensibili alle parole. Con “casa Pixel” intendo la mia stirpe, la mia genia. Il mio parentame vario, insomma.
Sensibili però non nel senso di grandi virtuosi quantitativi del linguaggio. Fra i miei avi ci saranno stati anche dei chiacchieroni abili intortatori verbali, ma perlopiù ho parecchie notizie di diversi rappresentanti antichi della mia famiglia che per cavargli fuori una parola di bocca, se non erano in vena, non sarebbe bastato un argano dei più poderosi.

La sensibilità per le parole, noi di casa Pixel la indirizziamo di preferenza verso le modalità qualitative del comunicare verbalmente. Quello che del linguaggio ci affascina è la bellezza di quell’attimo in cui il significante va ad inchiodarsi senza scampo contro il significato, nella stessa maniera che fa un’ infallibile freccia, quando s’infigge nel centro esatto del bersaglio.

A questa piacevole e leggiadra tradizione non si è sottratta nemmeno la mia nipotina. Lei è sempre stata una bambina buona, ma prova un po’ a farle fare una cosa che non le va a genio e ti pago una cena da Savini in galleria. Questo suo caratterino si è sempre riflesso anche nell’uso delle parole. La sua predisposizione alla chiacchiera risente ovviamente del suo appartenere al genere femminile, ma non è mai stata il tipo da sprecare troppe parole. Quando le dice, sono sempre ben ponderate ed è segno che andavano proprio dette.

Ormai è già grandicella, ma quand’era proprio piccina, a volte mi stupivo fortemente per la straordinarietà dei costrutti linguistici che mi capitava di sentire uscire da quel piccolo individuo roseo e paffutello. E’ vero che i bambini di oggi sono sottoposti a tantissime stimolazioni verbali, molte più di quante ne potevo ricevere io ai miei tempi, quando mi mettevano lì in un cantone con i miei Lego e contento come una Pasqua, mi gustavo i miei fantastici e silenziosi voli dell’immaginazione, costruendo mille edifici, astronavi e veicoli della mia meraviglia.

Adesso hanno la tele con centinaia di canali, mille diavolerie per fare musica, filmati e casini di ogni tipo, sono più coinvolti a frequentare compagnie varie, di diverse età (non vi faccia sorridere se aggiungo anche questo fattore: per un bambino cresciuto in campagna come me, non è un dettaglio da trascurare…). Per cui, può capitare che un bambino finisca per ripetere certe frasi o certe espressioni in maniera piuttosto meccanica, essendo a quell’età una sorta di piccola spugna di informazioni, immagazzinate spesso senza farle passare più di tanto attraverso il filtro di una possibile valorizzazione di senso.

Fatto sta che certe volte, la mia nipotina se ne veniva fuori con delle espressioni che pareva quasi ci fosse dentro un adulto a parlare al suo posto. E’ un peccato che non me le sia annotate in un taccuino di sue “memorabilia fanciullesche”, sarebbe stato piacevole rileggerle oggi. Me ne ricordo tuttavia una molto divertente, che sentenziò quando aveva più o meno l’eta di tre anni e mezzo, o quattro. In quell’occasione era in giro col nonno, seduta sul seggiolino della bici appeso al manubrio. Successe che s’imbatterono in un’altra accoppiata di nonno e nipotina, con quest’ultima più o meno dell’età della mia, e di nome Benedetta.

Come spesso si usa fare fra persone accessoriate di nipotame in simili circostanze, la mini-esponente di casa Pixel venne invitata dal nonno ad imitarlo in un cordiale saluto da rivolgere all’altra piccola bimba: «…Ciao Benedetta…su, dì ciao, dai!...». Al che, la mia nipotina non si accontentò di una semplice espressione di circostanza, ma memore di full-immersion ecclesiastico-oratoriali già subite fin da allora in copiosa misura, e forse leggermente infastidita di quella richiesta alla quale aderire con scarsa spontaneità, se ne uscì con la seguente sentenza: «…Ciao, Benedetta fra le donne!!!...». Chissà se si rendeva pienamente conto del senso di quanto detto. Fatto sta che a me parve un’uscita veramente spettacolare, per ironia e sagacia “non-sensuali”, anche se molto probabilmente involontarie.

Qualche tempo dopo, successe il fenomeno opposto: questa volta, la mia nipotina possedeva il concetto, ma fu l’espressione giusta a venirle meno. Il tutto però sempre con modalità gradevoli ed interessanti al tempo stesso.
Era l’epoca della sua prima elementare e l’apprendimento dell’alfabeto incombeva su di lei. A dire il vero, lei sapeva già leggere e scrivere fin dai tempi dell’asilo (e se vi dico che fin da poco dopo lo svezzamento ha sempre mangiato parole a colazione e merenda, non vi sto a raccontare una balla…).

Sapeva dunque già bene la giusta sequenza ufficiale delle lettere e si stupì non poco quando si accorse che la maestra le aveva presentate alla classe con un ordine diverso, raggruppandole probabilmente in base alle affinità di suono e di posizionamento di labbra e lingua in fase di pronuncia. Alla mia nipotina non tornavano i conti, e una volta che capitai da lei mentre si esercitava, mi fece una domanda con la quale voleva che le spiegassi se era stato usato un qualche criterio di suddivisione fra le lettere, se erano state in qualche modo radunate in quei piccoli mucchietti con una precisa logica.

Come vi dicevo però, stavolta possedeva l’idea, ma non il modo corretto di imprimerle la sua forma. La frase che tuttavia alla fine pronunciò, mi regalò un moto di divertimento altrettanto significativo e il fatto che la ricordo ancora a distanza di alcuni anni, la dice lunga su quanto quel nuovo piccolo miracolo della “fanciullitudine” toccasse le mie corde di appassionato della parola.

Per espormi la sua titubanza riguardo allo strano radunarsi delle lettere in quei piccoli plotoni anomali, mi domandò infatti la mia nipotina: «…Zio…ma abbiamo fatto in un modo?...», intendendo appunto una cosa tipo: «…Che criterio ha usato la maestra, secondo te, per presentarci le lettere in questa disposizione?...».
E quella volta fu non solo divertente, ma anche teneramente molto poetica.
Fu quasi come osservare la prorompente creatività già tutta potenzialmente presente in uno scultore, frenata tuttavia solo dalla sua ancora acerba abilità nel plasmare i materiali della propria arte.


sabato 23 aprile 2011

Molto originalmente: buona Pasqua!


Cari amici viandanti per pensieri…e vai con la terza Pasqua che passo con voi (…metaforicamente parlando, per vostra fortuna).
La mia fase di scarsa vena creativa non si è ancora attenuata di molto, come avrete constatato. Ma sono cose già accadute. So che poi mi passa e le idee ritornano. L’unica cosa da fare è aspettare.

Vi lascio ad ogni modo due pensieri in libertà, senza la pretesa di tirarne fuori un discorso coerente (e quando mai ne ho fatto uno…).

Anche se non c’entra nulla con la Pasqua, in questi giorni passano alla tele uno spot simpatico che pubblicizza un’automobile. Già l’affermazione di per sé è alquanto sospetta: “uno spot simpatico che pubblicizza un’automobile” è una contraddizione in termini bella e buona, ma la questione è presto chiarita se aggiungo che il motivo per cui la apprezzo è esattamente l’opposto del significato che verosimilmente immagino volessero trasmettere i creativi di turno.

Si vede questo omino dal look leggermente rievocante atmosfere dell’ex “oltrecortina”, che si appressa alla sua piccola macchinetta altrettanto fuori moda. Subito fa un gesto che ci introduce alla trovata pubblicitaria, “nucleo di curiosità” dello spot: finge di aprire la portiera con un suo telecomando di fantasia, emettendo con la bocca qualcosa di simile al relativo rumore che sarebbe scaturito dal vero dispositivo di apertura a distanza.
Poi si mette al volante e tutto il resto del tragitto si svolge sulla falsariga della gag iniziale: l’omino simula con la bocca il segnale di mancato allaccio delle cinture; simula il rumore dell’alzacristalli elettrico, mentre sotto sotto smanetta di buona lena con la manovella vecchio stile; simula la voce del navigatore satellitare (del quale ovviamente la sua vetturetta retrò è assolutamente priva…) che lo avvisa ad un certo punto di svoltare; e così via fino a quasi fine spot.

Se la storia fosse finita lì, per me sarebbe stata perfetta. L’idea di questo omino del tutto privo di “optional viabilistici”, che li simula con quella sua specie di poetica e nostalgica attitudine all’inutile, per me bastava a farne un piccolo eroe dei giorni nostri.
Sono però purtroppo gli ultimi pochi secondi della pubblicità che rovinano tutto. La scena cambia radicalmente. Sullo schermo campeggia, aggressiva e competitiva su fondo scuro, la macchinetta pubblicizzata di turno (nemmeno ricordo la marca o il modello: una scatola di latta scoreggiante smog vale l’altra…), “bulleggiandosi” della propria completezza di dispositivi, della propria “universalità accessoriale”.

Ecco, sarò stonato io, questo non lo nego, ma l’effetto emotivo trasmesso da questo spot, per quel che mi riguarda, va a parare precisamente agli antipodi di dove intendevano condurmi i pubblicitari. L’omino “disaccessoriato” mi infonde gioia e tenerezza, mentre la macchinetta finale oggetto della propaganda, tutta precisina e completa, mi fa una tristezza boia.

Non so bene come mai, forse per assonanza di atmosfere più che per un’effettiva correlazione logica fra le due “trame narrative”, fatto sta che questo spot mi ha fatto ricordare un episodio di paese di tanti anni fa.
In ogni piccolo centro di provincia degno di questo nome, c’è sempre stato l’ubriacone di turno. All’epoca, a Gillipixiland se ne saranno contati forse tre, o addirittura quattro. Una sera d’estate, capitò che uno di questi paladini del lambrusco si addormentasse sulla sedia del bar, fuori dal locale. Passa di lì uno dei colleghi bevitori, già con la lingua tarata su un discreto livello d’atmosfere di gonfiaggio, e vedendo l’altro abbattuto da Bacco, prende a canzonarlo, seppur con modi bonari.
Niente: passo ancora una qualche mezz’oretta in chiacchiere coi miei amici, finché la serata volge al termine e ci decidiamo a prendere le bici per tornarcene a casa. Ma passando davanti all’altro bar del paese, sul versante più lontano della piazza, cosa non ti andiamo a vedere? L’ubriacone di prima, quello che aveva irriso l’amico sprofondato nel compimento delle proprie funzioni, si era a sua volta “arronfato” di brutto su una sedia della seconda osteria.

Ecco, una sensazione simile me la procura lo spot in questione. Lo sbeffeggiamento della macchinetta tutta “modernina” e completa, nei confronti dell’omino scarsamente dotato di consistenza automobilistica, mi ricorda proprio quella presa in giro fra ubriaconi di tanti anni fa, ai margini della quale alla fine non si capì bene chi fosse il più beffardo e chi il più beffato dei due.

E detto questo vi lascio con i miei migliori auguri per una serena Pasqua, cari amici viandanti per pensieri. Sia che passiate semplicemente di qua, sia che leggiate soltanto, sia che commentiate, sia che vi piacciano le cose che scrivo, sia che vi facciano schifo, sia di qua, sia di là, siete sempre i benvenuti e vi ringrazio di cuore.


domenica 17 aprile 2011

Te la do io la favola!


Quando si ha poca voglia di scrivere, va praticamente da sé che anche la predisposizione alla lettura non sia poi così abbondante. Anzi, forse è meglio dire che di preciso non si sa bene quale delle due svogliatezze nasca prima dell’altra.

Una faccenda del genere mi è successa nell’ultimo periodo e devo dire che non si è ancora esaurita del tutto. Tuttavia, il mio massimo di astinenza assoluta dalla parola scritta può durare a dire tanto una giornata, due quando si esagera. Poi, anche a costo di avere a disposizione come materiale di lettura solamente le etichette dell’acqua minerale, mi ritorna il bisogno di nutrirmi di parole.

In quei casi però prediligo un ritorno blando alle emozioni concettuali convogliate dalle sillabe messe nero su bianco su di una pagina. I gialli, ad esempio, sono una buonissima soluzione in questo senso. Quello di cui si ha bisogno, più che altro, è una storia pura, ben architettata e ben narrata. Su consiglio di una cara amica, mi è successo infatti di leggere un buon giallo italiano, intitolato «Odore di chiuso» scritto da un giovane autore, Marco Malvaldi, e ne ho tratto buona soddisfazione. Era il libro giusto, al momento giusto.

In generale, per queste fasi poco “leggerecce”, la regola della “storia pura”, del racconto senza troppi fronzoli filosofici o riflessioni esistenziali, rimane sempre valida, qualunque sia l’ambito letterario scelto, giallo o non giallo che sia. Avendo in casa un classicone della letteratura per ragazzi, che da tempo desideravo affrontare, mi sono detto allora che anche un simile testo era l’ideale per i miei scopi del momento, di lettore a ranghi ridotti.

Ed eccomi lì con il mio libro in mano, bello e che immerso nella lettura. Non vi rivelo per il momento il titolo, strafamoso, perché ritengo che fare così giovi all’economia del mio articoletto.
Sulle prime insomma, tutto bene. La storia, arcinota perché sentita raccontare mille volte in mille salse, scorreva liscia. Conoscevo benissimo le vicende in questione, ma non le avevo mai lette nella versione originale, e questo era, fra gli altri, uno dei motivi principali d’interesse che mi avevano spinto a questa lettura.

Poi, ad un bel momento, ecco che incontro il seguente passo (portate pazienza, mantengo ancora il mistero sul titolo, sempre che non abbiate già intuito di cosa si tratta, e sostituisco con “xy” gli indizi più evidenti):
«…”Ho capito” disse allora un di loro “bisogna impiccarlo! Impicchiamolo!”. “Impicchiamolo” ripeté l’altro. Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle e, passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande. Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando che facesse l’ultimo sgambetto: ma il “xy” dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava. Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a “xy” e gli dissero: “Addio a domani. Quando torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la bocca spalancata”…».

Lì per lì non ci ho fatto caso più di tanto, non mi sembrava un passaggio eccessivamente truculento, con tutto quello che si può leggere in giro…ma dopo pochi secondi, ho fatto mente locale e mi sono ricordato: «..Ma minchia!!! Ma questo sarebbe un libro per ragazzi! Eccheccacchio! Roba che quasi quasi a Stephen King gli fa un baffo (...proprio per non dire una pippa)…».

Non vi nascondo insomma la mia perplessità nell’affrontare questo brano del racconto. Mi ero avvicinato a questo testo con in mente gli infiniti elogi sentiti più volte proclamare nei suoi confronti. Ne avevo sentito parlare sempre come di uno dei capolavori assoluti della letteratura per l’infanzia ed ora provavo un senso innegabile di stonatura. Sono stato addirittura tentato di mollare la lettura. Va beh che non sarà giusto nemmeno far crescere i bambini nella “bambagiosa” e “cotoniera” illusione che tutto il mondo e la vita siano soltanto un tripudio senza fine di rose e fiori, ma neanche farli partire in quarta così, con una bella impiccagione grassa grassa, mi sembrava il massimo della salute psico-esistenzial-affettiva.

Per fortuna, tuttavia, che talvolta la perseveranza paga. Non sempre, ma qualche volta sì. Ho così deciso di tenere duro, seguitando ad addentrarmi fra le pagine, e cammin facendo mi è parso di riuscire a calarmi meglio nella logica narrativa di quelle apparenti spietatezze gratuite.

Sì, perché l’episodio dell’impiccagione non era l’unico saggio di frastornante ferocia rintracciabile nel corso della narrazione. Al nostro povero protagonista, andando avanti, ne capitano ancora di cotte e di crude, robe da richiamare alla mente, con spontaneità immediata, la mitica esclamazione inserita da Andrea Mingardi nel suo celeberrimo capolavoro, “Delone”: «…Sòcmél! Che crudeltà mentale…».

Ed è stata proprio l’esagerazione incalzante degli episodi che pagina dopo pagina si susseguivano con ferocia fuori scala, che mi ha fatto scattare la molla di una possibile comprensione, o perlomeno di una mia plausibile interpretazione. Le disavventure nelle quali incappa il personaggio sono infatti tali e tanto grosse, che alla fine il lettore approda nel rassicurante territorio del “non senso”. In questa prospettiva, la genialità dell’autore precorre in un qualche modo lo spirito dei moderni cartoon, anticipa l’essenza di Willy Coyote, di Tom e Jerry, di Silvestro e Bugs Bunny, capaci di passare sotto una pressa o di uscire dalla centrifuga della lavatrice, solo un po’ buffamente malconci, ma altresì in grado di ripresentarsi perfettamente in forma, smacchiati e stirati come nuovi, nella scena successiva, grazie ad una semplice sgrullatina liberatoria.

E tutto ciò, in una prospettiva di senso più ampia, dove ci può condurre?
Può condurre ad una sotterranea esortazione rivolta dallo scrittore all’indirizzo dei giovani lettori, che nelle debordanti peripezie del loro beniamino sulla carta, potranno cogliere l’imbeccata pedagogico-poetica in grado di farli riflettere sulle durezze dell’esperienza umana, aprendo possibilità immense alla forza vitale che percorre i nostri giorni, raffigurata come quasi sempre in grado di oltrepassare persino le situazioni più disperanti, anche a costo di ricorrere all’ausilio di massicce dosi d’ironia ed alla accettazione, sempre posta sullo sfondo, di un vago e generalizzato senso dell’assurdo.

Certo, l’opera in questione possederà poi le altre mille sfumature interpretative ad essa attribuite dalla critica nei tanti anni in cui è stata letta e fatta oggetto di esegesi, ma io, molto umilmente, ho creduto di scorgerci anche questo marginale risvolto significante.
L’avrò pensata giusta? L’avrò pensata sbagliata? Boh!!!

Due cose però credo di averle capite.
Le sconfitte della vita, anche quelle apparentemente più definitive ed irreparabili, in realtà rappresentano praticamente sempre l’altra faccia di una sorta di resurrezione che ci attende dietro il prossimo angolo.
L’altra cosa è che quando incapperò di nuovo in una fase di stanca nella mia carriera di lettore, potrò passare direttamente e senza remore a sfogliare qualche racconto di Edgar Allan Poe o di Howard Phillips Lovecraft, che non mi sbaglierò di molto.

Ah…quasi dimenticavo: il personaggio del mio libro (e per derivazione logica anche il titolo del medesimo…) era ovviamente Pinocchio, di Carlo Lorenzini, detto Collodi.

venerdì 15 aprile 2011

A lì Pucciacci tua e de’ tu’ nonno!


Cosa c’è di più delicato delle smancerie scambiate fra due innamorati?
Cosa c’è di più volatile, di più etereo, di più impalpabile, di più riservato, di più intimo, di più esoterico anche, delle piccole confidenze sdolcinate, delle svenevoli melensaggini che possono passare dalla bocca dello spasimante all’orecchio della sua innamorata, o viceversa, pagando di buon grado il piacevole biglietto di un’andata e ritorno affettiva?

Pochi ambiti dell’umano esistere e sentire sono più di tutto questo, se considerati rispetto a tali specificazioni. Ma al tempo stesso, forse poche cose al mondo sono altrettanto fragili e suscettibili di così immediata e catastrofica “rottura”, quanto lo possono essere quelle medesime carinerie amorose, nell’attimo in cui vengono trasportate al di fuori del loro riservatissimo ambito a due.

I “ci-ci fru-fru co-co” intessuti dall’amante e dall’amata fra gli interstizi del loro edificio amoroso, appartengono ad un codice unico, irripetibile e non trasmissibile all’esterno. Quando un nuovo amore nasce, viene ogni volta fondato anche un inedito linguaggio appartenente alle due persone coinvolte e a loro soltanto. Quell’edificio sostenuto dai pilastri della passione e tenuto insieme dalle travi del suo proprio linguaggio, è solido come una potente struttura d’acciaio, fino al momento in cui rimane insediato e confinato nel mistero della condivisione vicendevole. Nell’attimo in cui, per la sventatezza di uno dei due protagonisti, quel parlare misterico viene lasciato trapelare “fuori”, è come se il costrutto d’acciaio venisse di botto immerso in un violento bagno di azoto liquido, che ne tramuta i possenti legami molecolari in labilissimi collegamenti pronti ad esplodere sotto le forze travolgenti del ridicolo e dell’inopportuno.

Figuriamoci poi quando queste sdolcinature nate per essere vissute nell’esclusività della privatezza più rigorosa, vengono sconsideratamente sbattute sulla strada e sottoposte allo sguardo impietoso di chiunque. In quei casi, io mi sento autorizzato a servirmi del sarcasmo più feroce, della cattiveria ironica che non conosce sconto alcuno.

Eh sì, caro mio: hai voluto infrangere il sacro recinto confidenziale che non andrebbe abitato se non dai quattro occhi che lo hanno creato? Allora adesso sono fattacci tuoi e io ti beffeggio a mio piacimento. Intendiamoci, niente di insensibile o di apertamente offensivo per nessuno: la mia ribellione me la gioco tutta internamente con considerazioni mie. Ma l’atto del solipsistico bearmi qualche secondo in questa mini-crudeltà, mi regala sempre qualche momento di fuggevole soddisfazione da poco.

Perché mai mi sono preso la briga dunque di intavolare tutta una menata siffatta quest’oggi?
La causa scatenante di un simile delirio argomentativo è più semplice di quanto si possa immaginare. Tutte le mattine, nell’ormai famigerato tragitto che mi sbarbo a piedi fra la macchina parcheggiata e l’ufficio, mi tocca infatti sorbirmi due preclari esempi di quell’infrangimento del codice amoroso che ho cercato di sunteggiare sopra.

Si tratta di due meste scritte tratteggiate con la bomboletta spray sopra degli altrettanto squallidi pannelli di legno, che recintano un cantiere di edifici in costruzione. Sarà anche per via del fatto che la mattina presto, con davanti la prospettiva di diverse ore da passare in ufficio, uno non può pretendere di trovarsi nelle condizioni psicofisiche più benevole. Ad ogni modo, va sempre a finire che quelle scritte mi fanno un po’ pena, mi infastidiscono leggermente e mi fanno anche un po’ incazzare.
Perché sono ad un tempo un insulto alla bellezza del mistero amoroso e a quella delle arcane ragioni della parola.

Una delle due frasi in questione dice: «…con te non serve sognare…amore 6 tutto…» ed immancabilmente, ogni volta che me la ritrovo sotto gli occhi, a me viene da pensare: «…sì, e con te non sono serviti neanche secoli e secoli di letteratura mondiale, se eravamo destinati a ridurci così male…».

La seconda perla linguistico-amorosa che mi passa in rassegna quotidianamente, recita invece così: «…Vita mia, ti amo…non voglio perderti…il tuo Pucci…». Ecco, ora vi chiedo se vi è mai capitato di leggere un’accozzaglia di banalità e di frasi scontate, più raffazzonata di questa. Ci mancava soltanto il famigerato «…grazie di esistere…» e a quel punto mi sarei sentito autorizzato ad andare a stanare quel fine dicitore di Pucci fino in casa sua, per rifilargli delle sonore “dizionariate” di italiano sulle unghie dei ditoni dei piedi.

Va beh, mi si obietterà tuttavia che io parlo solo per invidia, solo perché questi anonimi scrittori sono certamente dei ragazzi nel pieno fulgore del loro fuoco passionale, mentre a me non rimangono che alcune sparute fiammelle da centellinare con parsimonia.
D’accordo, non dico di no.
E infatti, è proprio il fatto di presumere che siffatti fraseggi dozzinali siano stati vergati da giovanili mani, che mi fa usare una dose di indulgenza maggiore nel considerarli.

Prima di chiudere però, un paio di consigli in favore dei suddetti giovani mi permetto di agevolarli. Il primo è questo: se per caso incidentalmente non capita che di cognome facciate Shakespeare e di nome William, oppure Salinas e poi Pedro, magari la prossima volta lasciate anche perdere…

L’ultima considerazione riguarda invece le innamorate destinatarie di cotanta poesia metropolitana: potrà anche succedere che il vostro spasimante dia successivamente prova di valentia amorosa in tante altre più nobili forme, però poi, quando dopo un po’ di tempo, eventualmente, vi renderete conte di avere per le mani un emerito fesso, non venite a lamentarvi con me, dicendomi che non vi avevo avvertito che il tizio in questione era uno capace di spiaccicare l’amore sul truciolato di un cantiere edile.



martedì 12 aprile 2011

Aridità-hà-hà…un elemento imprescindibile


Cari amici viandanti per pensieri, avrete notato che non sto scrivendo cose nuove da alcuni giorni. Il fatto è che sto attraversando un momento di aridità creativa prolungata. Lo so che se uno non ha nulla da dire, dovrebbe fare solo una semplice cosa: tacere.

Ma mi sembrava giusto dirvi in ogni caso due parole, così, per un piccolo saluto e per farvi sapere che ritornerò presto, non appena uno straccio di concetto minimamente decoroso si degnerà nuovamente di rimbombare nel vuoto che alberga fra le paratie del mio cranio in questo momento.

A dire il vero, avevo abbozzato un paio d’inizi di articoletti, in questi giorni. Ma riguardandoli, mi sono accorto che partivano da spunti così scarsi e rachitici, che mi son detto: i miei amici viandanti per pensieri non meritano una simile penuria d’idee! Per cui preferisco aspettare quando sentirò di avere ancora argomenti degni di essere raccontati.

Capita a volte che i pensieri, pur essendo presenti nella mente, sembrano quasi chiederti di essere lasciati germogliare nella loro evanescenza. Rifuggono la trasposizione in parole, detestano di essere messi nero su bianco. E coi pensieri, si sa come funziona: bisogna fare ciò che vogliono loro.

Poi magari, un giorno, quando meno te lo aspetti, precipitano nel cuore come acqua condensata dentro nuvoloni concettuali ed emotivi accumulati, e allora torna la voglia di raccontare, di scrivere, di condividere.

Vi lascio tuttavia per il momento con un breve pensiero. Più che un pensiero, una piccola sensazione provata poco fa. Sono andato dietro casa e ho gettato lo sguardo lontano, verso i campi, lungo l’argine, e poi ai nuvoloni che schiacciavano l’orizzonte sotto il loro lieve peso dall’alito fresco e cupo. La zona della golena, il lungo tappeto semi-selvaggio là di dietro, fra il fiume e la cività, era foderata dall’eco del canto di tanti uccellini che amano dialogare con l’imbrunire.

Per un fuggevole lasso di pochi istanti, gettando la mente oltre l’argine, mi è venuto da pensare: «…che bello di là! Niente internet, niente telefonini, niente digitale terrestre, né Emilii Fedi né Bruni Vespi…».

Poi sono tornato in casa, ho acceso la tele su rai5, ho dato un occhio al cellulare se c’era qualcosa di nuovo e mi sono messo al pc per scrivervi queste quattro righe…


giovedì 7 aprile 2011

Arte gattemica


«…In mezzo alla natura selvaggia avevo imparato a guardarmi dai movimenti bruschi. Le creature che si incontrano là sono ombrose e guardinghe; sanno cogliere di sorpresa, sfuggire quando meno ci si aspetta. Un animale domestico sarebbe incapace di stare quieto come un animale selvaggio. Gli uomini civilizzati non sanno più cos’è la vera calma, e devono prendere lezioni dal silenzio del mondo selvaggio, prima che quel mondo li accetti. L’arte di muoversi con delicatezza, senza scatti improvvisi, è la prima arte del cacciatore, soprattutto del cacciatore con la macchina fotografica. Chi sta cacciando non può fare a modo suo, deve vivere col vento, coi colori, con gli odori del paesaggio, adattarsi al ritmo dell’insieme che spesso lo costringe a ripetere più volte lo stesso gesto. Quando si riesce a cogliere il ritmo dell’Africa, ci si accorge che è identico in tutta la sua musica: quello che avevo imparato andando a caccia mi servì poi nei miei rapporti con gli indigeni…».

“Out of Africa”
Karen Blixen – 1937


Questo bel brano di Karen Blixen mi ha fatto subito pensare ai gatti.
Certo, qui si parla di fiere e grandi belve, ma anche quella piccola e familiare pantera in miniatura con la quale tanti di noi possono avere quotidianamente a che fare, ossia il micio di casa, può rappresentare a modo suo la “nostra Africa”.

I gatti che ho conosciuto nella mia vita non sono stati mai tanto domestici. Nel senso che li ho sempre avuti un po’ in giro intorno a casa, magari arrivati un bel mattino da chissà dove e insediati in un battibaleno a pieno titolo come nuovi inquilini part-time. Non avevano mai perso del tutto quel loro peculiare legame con la selvatichezza, insomma, sempre ammesso che anche il più stanziale dei felini d’appartamento lo perda mai.
Questo ha forse influito nel determinare la mia visione del confronto fra uomo e gatto.

I gatti possono insegnare tanto a chi sa ascoltare le loro lezioni. Sotto questo aspetto sono molto orientali e Zen. Se si parte con delle pregiudiziali, supponendo di sapere già tutto sul loro conto e uscendosene con verità preconfezionate del tipo “…bah, non sono affettuosi…”, oppure “…stanno lì nei paraggi solo per il cibo…”, allora non s’imparerà mai nulla dai mici.

L’«epifania felina» nel brano di Karen Blixen sta tutta in questa frase: «…avevo imparato a guardarmi dai movimenti bruschi…». I gatti sono maestri di “tolleranza spaziale”. Se ci tieni davvero a loro, devi dare per scontata la sintonizzazione al ritmo e all’intensità delle loro movenze.

Col gatto si impara a dare molto più valore alla propria “sfera d’influenza prossemica” e a rispettare quella altrui, perché lui in questa specialità ti costringe ad una “palestra” d’intensità praticamente mai raggiungibile nelle dinamiche normalmente intessute con altri umani.

Ogni essere vivente si esprime esistenzialmente attraverso una estroflessione della propria spazialità interiore, proiettandola sulle dinamiche fisiche esterne che lo coinvolgono. Ognuno si porta dietro la sua “bolla d’influenza spaziale” e a partire dal rapporto che s’innesca fra queste bolle vaganti che siamo tutti noi, molto si determina anche del rapporto intessuto fra le nostre esigenze spirituali.

Il gatto c’insegna ad acuire in misura molto raffinata la sensibilità relativa a questi valori.

Non saprei dire il numero delle volte che con un micio mi è capitato di stare in bilico sulla soglia dell’uscio, soppesando a quintalate di pazienza l’interminabile lasso di tempo utile alla sortita di una sua decisione sul da farsi: si entra o non si entra? Ci si gratta? Oppure, che dire di una passatina di zampa dietro l’orecchio?...

Una volta lessi una buffa e saggissima definizione del gatto coniata dal grande designer Bruno Munari. Purtroppo non la rammento letteralmente, per cui rinuncio a riportarvela in una forma raffazzonata che non renderebbe merito alla sua bellezza. Ricordo però che metteva in risalto in maniera mirabile la tattilità particolare innescata dal contatto fra la mano dell’uomo ed il corpo del micio, che Munari riassumeva in questa prospettiva come un misto di morbidezza potenzialmente arrecante improvvise ed inaspettate “pungevolezze”. Il gatto sa regalare le sensazioni di tenerezza più pregiate con la sua pelliccia, ma la sorpresa degli artigli o dei dentini sfoderati può sempre scattare da un momento all’altro, inopinatamente.

Anche questo aspetto della relazione uomo-gatto è molto significativo. E’ proprio carezzando un micio, che ci si ritrova alle prese con un’altra importante opportunità di mettere alla prova il nostro senso di valutazione riguardo a ciò che è fisicamente concesso e ciò che invece cade sotto l’egida di un’interdizione delicata e sottile.

Le dinamiche cambiano anche di parecchio da gatto a gatto, ed in modo particolare possono essere diverse se si tratta di una micia oppure di un micio. Grosso modo, tuttavia, ci si può in genere regolare sapendo che la collottola, la gola ed il capo sono territori franchi: lì è possibile inoltrarsi senza timore, ricevendo in cambio un tributo di fusa e gratitudine. La schiena inizia già ad essere un settore della mappa pellicciosa a porzioni differenziali: più si va verso la coda, più incombe l’automaticità dello scatto delle unghie.

Ma il vero banco di prova sono la pancia e i cuscinetti sotto le zampe. Se il micio concede l’impunità su quelli, significa veramente che con lui si è raggiunta un’intesa speciale. Parlando di faccende umane fra le più rarefatte ed impalpabili, mi sento di dire che poche esperienze al mondo riescono ad avvicinare il senso di beatitudine, di fiducia e di riconciliazione con il Tutto, che sa regalare un gatto quando concede agevole asilo alla nostra mano sulla propria pancia.
In quei casi scatta una sorta di mini-illuminazione, un accesso a dimensioni di ordine superiore, ottenuto attraverso il privilegiato salvacondotto offerto dalla felinità.

Per tutti questi motivi insomma i gatti sanno essere a modo loro “le nostre Afriche”. Perché col pretesto apparente d’illustrarci una “ecologia dello spazio”, finiscono per aprire il nostro spirito ad una “ecologia dell’anima”.


domenica 3 aprile 2011

Ecce bombo!

La differenza fra un normale essere umano raziocinante ed un Gillipixel creativamente sgangherato è presto detta.

Il primo (l’essere dotato di raziocinio) indirizza la propria espressività seguendo solitamente un tracciato progettuale più o meno rigoroso, nell’ambito di un’analisi costi-benefici, possibilmente raffinata attraverso una disamina critica dei pesi di significazione comportati da cause ed effetti in gioco.

Il secondo individuo invece (anche noto nella classificazione di Linneo col nome di “Gillipixellus Casualis”) si affida quasi sempre all’aleatorietà pura, ad uno stato di grazia “potenziale a fase alternata” (in quanto suscettibile di volgere in men che non si dica in “dis-grazia narrativa”…), altresì noto negli ambienti scientifici come la “sindrome di Ndo Coyo Coyo”, il più grande lanciatore di coltelli coreano.

Ad esempio, il fenomeno si verifica senz’altro quando scrivo un articoletto qui sul blog. L’idea di partenza è sempre nebulosa e mal definita, ma potere stare quasi certi che il risultato finale sarà pressoché irriconoscibile rispetto alle premesse iniziali.

Questo preambolo aprirebbe il campo a tutta una lunghissima dissertazione estetica sul discrimine fra intenzionalità espressiva insita nel fare artistico ed effettività dei significati colti successivamente dal destinatario del messaggio creativo medesimo. Ma siccome oggi un’aura di benevolenza ha carezzato la mia di intenzionalità, dando prova di somma clemenza nei confronti dei vostri maroni, vi risparmio il paventato pappone, e vi parlo invece molto più semplicemente del bombo.

Mi è capitato infatti di essere colto da un perfetto attacco di “sindrome di Ndo Cojo Cojo” giusto giusto nel caso di una recente «operazione bombo» intrapresa con la macchina fotografica. Vi avevo già detto qualche tempo fa della mia fascinazione per il bombo. Sin dalla prima volta che mi è capitato di considerare questa mini-bestiola, stretta e panzuta parente dell’ape, la simpatia ispirata è scattata innanzitutto sulla base del suo aspetto.

Ce lo avrete presente: il bombo è una sorta di ape lievitata, una vespa montata a neve giallonera, un’«aponzola» un po’ più goffa ma soprattutto impreziosita da una buffa pelliccetta che lo fa somigliare ad un rappresentante dell’aristocrazia “zonzatrice” dell’aria, ma di un ramo nobiliare un po’ minore, che non prende se stesso particolarmente sul serio.

Insomma: il bombo è il mio piccolo super-eroe entomologico e quando mi capita l’opportunità di osservarlo dal vivo, mi trasmette sempre una sensazione di gradevolezza estetica divertita ed ammirata. Per dire, il calabrone mi ha sempre ispirato una fifa boia, mentre altre grosse “apone” maiuscole dall’addome rossiccio (delle quali non conosco il nome) mi hanno sempre evocato l’idea di cattiveria e di punture terribili.

Il bombo invece mi suscita “gonzezza”, ronzante amabilità bonacciona.

Ma questo cosa c’entra con quanto detto in apertura?
Ecco, sì, vi dicevo per l’appunto della mia fotografica «operazione bombo». Se infatti ammirare il bombo è già di per sé esaltante, riuscire a coglierlo in una foto riserva micro-soddisfazioni ancor più sottili e diffuse. Il bombo tuttavia non è un soggetto facile.

Mi sono informato un po’ su wikipedia ed ho saputo che è di indole molto poco aggressiva, punge solo se viene fatto incazzare parecchio. Tra l’altro non ha l’aculeo seghettato, come la sua cugina ape, conosciuta nel mondo degli insetti anche col nomignolo di “un colpo e basta”. L’attrezzo sforacchiatore del bombo è liscio, per cui può permettersi anche il lusso di crivellare ripetutamente il malcapitato.
Anche in questo particolare, la natura ci è dunque maestra, confermandoci la risaputa verità spesso riportata dal saggio tardomedievale “Plinio lo Stravecchio” con siffatta sentenza: «… assai rara cosa est lo far incazzare lo individuo de’ bonaria indole, sed quando cotesto fatto accade, irti et aciduli virili membri ne conseguon per ciascheduno…».

La cosa più sorprendente poi, leggendo riguardo alla natura del bombo, si è rivelata quando ho scoperto una sua particolarità che fra me e me mi ha fatto esclamare: «…Ma fratello bombo e sorella luna! Questo è proprio il mio alter-ego del mondo degli insetti!…».

Dovete sapere infatti, cari amici viandanti per pensieri, che il bombo, a differenza delle api sempre intruppate in comunità di migliaia di individui, lui no, lui se la “sgavazza” in piccole congreghe bombesche di una cinquantina massimo di esemplari, praticamente delle bomboniere (he-he, ha-ha, hu-hu…).
Questo passaggio delle abitudini bombarie l’ho trovato particolarmente delizioso, ed ha rafforzato in me l’immagine un po’ fumettistica che mi sono fatto di “Sua Micro-Pelosità”.

Se è vero infatti che, da una parte, la società delle api è paragonabile ad un ammirevole esempio di impeccabile socialismo reale metropolitano applicato alla microfauna, felicemente coniugato con un sistema di governo basato sui migliori principi della monarchia illuminata, per il bombo invece è tutta un’altra solfa “socio-politico-insettistica”.

Il bombo è il rappresentante entomologico di un riformismo campagnolesco utopico di stampo ottocentesco, germogliato in seno ad un’aristocrazia di proprietari fiorieri consapevoli della profonda ed insensata iniquità sociale insita nel proprio privilegio di casta. Il bombo insomma è un nobile sempre più dubbioso della propria condizione di privilegiato, che indossa la pelliccia buona della domenica più per abitudine, ma sotto sotto parteggia per una generale riforma agraria in grado di portare ad un’equa suddivisione di nettare e fiori per tutti, con un posto assicurato nel letto della regina anche per l’ultimo e più umile fuco del reame.

Per tornare però alla mia piccola battuta di caccia fotografica, ecco che l’altra sera, verso l’imbrunire, lanciando uno sguardo distratto alla bella e rinnovata fioritura sfoggiata dal ciliegio in giardino, mi è caduto l’occhio proprio su un bombo intento alle sue pingui ricognizioni nei paraggi dei mazzetti di fiorellini.

Sono così subito corso a prendere la macchina fotografica, l’ho armata di zoom tele 70-210 e, impostando la funzione macro mentre invocavo nel frattempo la protezione spirituale di Ndo Coyo Coyo, mi sono messo a sparacchiare scatti verso l’alto, in direzione di dove mi sembrava si stesse posando di volta in volta il nostro pellicciuto eroe.

Di diversi clic fatti, i più belli a mio parere, scaturiti in maniera rigorosamente fortunosa, sono questi tre che vi presento.

Il primo, neanche a farlo apposta, sembra fermare le bombesche movenze proprio nell’atto più consono a coglierne la sua indole un po’ godereccia, da buongustaio delle entomologiche delizie. Wikipedia non lo diceva, ma io ci scommetto che il nostro piccolo eroe pilifero è un tipo piuttosto dedito al corteggiamento delle bombe più graziosette e che non disdegna nemmeno le piccole abbuffate voluttuose di nettare e pollini.


Osservate infatti in questo frangente, come si è buttato a pesce dentro al calice del fiorellino. Un particolare tradisce i suoi simpatici modi di fare da compagnone godereccio: le zampette posteriori sono rimaste leggermente a penzoloni sul limitare dei petali, come se nell’impeto dell’arrembaggio sbafatorio, gli fosse venuto meno l’appoggio, ma lui, non potendogliene fregare di meno, rimane placidamente assiso al suo banchetto, sgambettando delicatamente a capofitto nell’estasi dei piaceri floreali.

La seconda discreta immagine scattata, con demenziale gioco verbal-concettuale costituisce per l’appunto anche un “riscatto d’immagine” per il nostro piccolo eroe. Qui il bombo offre un saggio della sua arte aviatoria, le alette sottili frullano come carta velina aeronautica librata nell’aria e lui si mostra nelle sue evoluzioni in quota, rifulgendo pienamente della sua buffa eleganza pelosa.


Planando a nostra volta sulle ali della fantasia, possiamo osservare questa scena come fosse un futuristico progetto architettonico, visionario di una città del domani. I calici dei fiori di ciliegio sono altrettanti grappoli di terminal aeroportuali o aerospaziali, pronti ad accogliere gli atterraggi e i decolli delle piccole astronavi bombesche. Il flusso di linfe e di fluidi d’interscambio fra terminal e velivoli, scorrendo lungo il rametto che regge le piccole basi di approdo, produce vita per le terminazione urbane poste più in basso, fuori inquadratura.

L’ultimo fotogramma che mi piace presentarvi, ci riporta invece tutti coi piedi per terra. Qui il bombo si è messo praticamente a favore di fotocamera e sembra quasi mormorare fra sé e sé: «…Ma guarda un po’ cosa tocca fare per togliersi dai coglioni ‘sti fotografi da quattro soldi! Se non mi metto un po’ in posa io, col cacchio che ce la tira fuori una foto un po’ decente!…».