sabato 28 agosto 2010

Impressioni d'agosto

Ragazzi, ho il cervello sotto vuoto spinto in questi giorni, e pur andando frequentemente per pensieri, torno spesso con la cesta concettuale completamente vuota.
In questo tardo scorcio di agosto, son riuscito allora a raccattare solamente svariate sensazioni e un paio di foto. Purtroppo sono sensazioni che non riesco a raccontare, tanto sono ineffabili e intime.
Quindi siamo belli e che da capo: avrei fatto prima a non mettermi nemmeno alla tastiera, quest'oggi.

Ma ci voglio provare ugualmente, a dirvi di queste sensazioni. Anche se, per mia insufficienza espressiva, non ci capirete nulla.

Come già ho avuto modo di dire, agosto non l'ho mai sopportato un granchè, ma mi frega spesso verso sera.

Quando la calura della giornata è stata così insistente da divenire ormai dopo tante ore una sorta di parodia di se stessa, capita a volte che, quattro passi prima del tramonto, una sciabolata di luce interiore mi attraversi.
Mi sento come percorso da fiotti di ricordi condensati e ripescati nell'archivio della memoria, in chissà quale cassetto che non sospettavo più nemmeno di avere.
Non sono memorie di episodi specifici, ma sono lampi delle "essenze" di come mi sentivo in determinati periodi della mia vita, anche di un bel po' di tempo fa: l'essenza di me bambino; l'essenza di una certa estate lontana; l'essenza di come era condividere una certa compagnia; l'essenza della pubertà, e così via.

Avete presente la scena finale di "2001: odissea nello spazio"?
Quando l'astronauta lanciato nella sua folle corsa ai confini delle galassie, si ritrova a fare capriole spazio-temporali incredibili?
Beh, è una roba del genere, la mia impressione d'agosto, però meno drammatica, più familiare e casalinga. Per fare le debite proporzioni: immaginate un "2001: odissea nello spazio" con Renato Pozzetto nel ruolo dell'astronauta, e vi avvicinerete un po' di più al senso delle mie "impressioni d'agosto".

Ve lo dicevo che non sarei riuscito a spiegarmi...così faccio ammenda con un paio foto, che c'entrano fin là con quanto detto sopra, ma queste almeno sono chiare.

Non riuscendo dunque a cogliere pensieri degni di questo nome, mi son limitato ad acchiappare farfalle.
Sono piccole farfalle cerulee e strane, perchè in quanto tali si confondono con certi fiorellini celesti che sembrano prediligere. Il bello è che se metti il piede fra l'erba in cui si posano, credendo di fare due passi fra i fiori, ne vedi alzarsi in volo piccoli nugoli, senza capire lì per lì, per una frazione di secondo, se il decollo sia da addebitarsi a quei fiorellini improvvisamente impazziti.



Anche queste farfalline ci stanno bene allora fra le impressioni di agosto.
Perchè sono un po' ingannevoli anch'esse, sono come quei ricordi di vita creduti fiori ormai depositati innocui e innocenti nelle praterie della memoria, ma che inopinatamente sanno ancora levarsi in volo, disorientandoti, certe sere d'agosto.


(...ah...in questa seconda foto, potete apprezzare anche una piccola ape prodursi in un delicato e sfocato cameo, come un Alfred Hitchcok del mondo degli insetti...).

E adesso, beccatevi questo bel settantume:



lunedì 23 agosto 2010

Scarugar per rudarole (*)


“…e capì tardi che dentro quel negozio di tabaccheria
c'era più vita di quanta ce ne fosse in tutta la sua poesia
e che invece di continuare a tormentarsi con un mondo assurdo
basterebbe toccare il corpo di una donna, rispondere a uno sguardo
e scrivere d'amore
e scrivere d'amore
anche se si fa ridere
anche quando la guardi anche mentre la perdi
quello che conta è scrivere
e non aver paura, non aver mai paura
di essere ridicoli
solo chi non ha scritto mai lettere d'amore
fa veramente ridere.…”

Le lettere d’amore
Roberto Vecchioni - 2005

*******

Il bello, con i pensieri, è che ci si può fare anche la raccolta differenziata, riciclandoli ai fini di un riuso mentale ecocompatibile. Non stupitevi allora se oggi vi parrà di sentir parlare di cose già dette proprio qui: è esattamente così, le ho già dette, ma con un’operazione di compostaggio apposita, spero di riuscire a cavarci fuori ancora un po’ di energia concettuale residua.

Il primo concetto che riciclo è quello di “protesi”. Tempo fa ne parlai metaforicamente per indicare ogni tipo di strumento ideato dall’uomo per meglio muoversi nel mondo
In questo senso, il coltello e la zappa possono considerarsi protesi delle mani e delle unghie, oppure gli occhiali e altri strumenti a lente le vediamo come protesi degli occhi, il computer come protesi della memoria e del cervello, e così via metaforizzando. Protesi non è però un gran termine, fa venire in mente cose poco piacevoli. Invece di protesi diciamo allora “prolungamento”.

Un’altra cosa che non vi suonerà nuova è il mio frequente parlare di parole.

Una volta condivisi con voi lo stupore per il modo in cui le parole vengono gestite “sotto traccia” dalla nostra mente. Quando dobbiamo formulare una frase, anche quelle di una certa complessità, se ci fate caso, non si verifica mai un esteso e preventivo ordinamento mentale di tutte le parole che ci servono, per poi passare alla pronuncia vera e propria del periodo così pre-formulato.
Ossia, non prepariamo mai la frase prima nella mente, tutta bella ordinata e palesata, per poi passare a dirla solo quando è pronta. Niente di tutto questo: pensare e dire si svolgono invece quasi in simultanea. Fate pure un po’ mente locale su voi stessi mentre parlate, e sbalorditevi con calma.

Allora avevo detto che doveva esistere nel nostro database mentale un qualche modo di impacchettare ogni vocabolo in un formato, per così dire, “zippato”. O meglio, suggerii che doveva trattarsi non solo di una “compressione” di ogni vocabolo (come avviene appunto per i file informatici “zippati”), ma anche di un modo di “ri-marchiarli”’, ossia di dotarli di un segno di riconoscimento rapidissimo.
Se devo cercare, metti caso, nel mio hard disk cerebrale la parola “zuzzurellone”, per inserirla in un dialogo che sto sostenendo, quello che si innesca non è una scansione completa di tutto il mio vocabolario mentale, setacciando sillaba per sillaba ogni parola utile. Ciò che si mette in moto è invece una fulminea panoramica sull’orizzonte di tutte quelle forme di parole super-sintetizzate e riconoscibili dalla mente a velocità spropositate.

E qui comincia l’avventura del Signor Riciclatura.
State un po’ a sentire, infatti, cari amici viandanti per pensieri, come ho riciclato tutte per voi quelle idee già visitate in passato e ricordate sopra (sarò o non sarò un amico?...).

Rimunginando fra me e me, in sostanza mi è venuto da ipotizzare che le parole potrebbero rappresentare delle “protesi”, dei “prolungamenti” delle cose. Tuttavia, se la faccenda fosse tutta qui, non sarebbe una gran conquista. Perché la “comodità” derivata da queste protesi sarebbe praticamente nulla. A cosa mi serve uno strumento per sollevare, ad esempio, un peso di 300 kg., se quando mi accingo ad utilizzarlo, lo sforzo risultante rimane esattamente equivalente ai 300 kg. di partenza? Questo succederebbe se pensassimo le parole come meri suoni (o i segni, nel caso della scrittura) appiccicati alle cose, in una asettica tassonomia.

Invece, il fattore nobilitante che entra in gioco è il “mistero del nominare”.
Non chiedetemi di darvi una dimostrazione razionale di quello che sto per dirvi, ma io credo che tutte le volte che l’uomo si è preso la briga di dare un nome a ciascuna cosa, in qualche modo, tramite la parola, si è appropriato dell’essenza di quella cosa.
Ed è proprio questa essenza (per ricucire tutto il discorso con le premesse iniziali), è questa misterica sintesi tra pensiero e realtà, che la mente utilizza per andare a riconoscere e pescare ciascuna parola ogni volta che ne ha bisogno. E’ per questo che la scansione fra i meandri del database della memoria risulta così rapida, fulminea: perché non è la nostra mente a ricercare suoni o sillabe, ma il nostro cuore a mettersi in risonanza col battito del cuore di ciascuna parola.

Ripeto: non chiedetemi di spiegarvi come faccio a sapere queste cose. Posso dirvi solo che se in questo modo non fosse, non sarei così perdutamente innamorato delle parole.

*******

(*) = Il titolo di questo scritto, “Scarugar per rudarole” (un’auto-presa in giro riferita al titolo del mio blog), è una buffa italianizzazione di due termini dialettali in uso a Gillipixiland e paesi limitrofi: “Scarugare” sta per “rovistare”, mentre “rudarole” sta per “pattumiere”.



sabato 21 agosto 2010

aifargonroP <------


Oggi si parla di pornografia.
«Oooh làh!» mi par quasi di sentire esclamare all'unisono i miei quattro lettori, «...finalmente qualcosa d'interessante su questo blog...».
No, no, scusate, non volevo creare false aspettative. Non si narreranno qui le vicissitudini di capitoni in bella vista divorati da famelici passeracei, non è del porno comunemente inteso che mi accingo a discettare, ma di un significato della parola “pornografia” più sottile e sfumato, quasi metaforico.

Come si definirebbe ordunque la pornografia, stando a questa novella gilipixiana accezione? Ecco, suonerebbe grosso modo così: la pornografia è l'atteggiamento deliberato di rifiuto delle complessità sotterranee della vita.
La pornografia porta tutti gli aspetti della vita in superficie, dando origine ad una dittatura del banale, ad una supremazia della semplificazione, ad una falsificazione sostanziale della realtà.
Ma non è tutto qui. Quanto detto rappresenta solo la metà della “torta pornografica” come io la intendo.
Il resto delle fette consiste in una riduzione del mondo a stimolo puro: la pornografia è sollecitazione di appetiti fini a se stessi, titillazione assoluta, è una full-immersion nella dimensione pavloviana più radicale.

E ancora: come ogni torta che si rispetti, anche questa ha la sua brava candelina sopra. Quindi aggiungo che è prettamente pornografica la tendenza all'appiattimento della vita sui suoi soli significati quantitativi.
Pornografia è la vita un tanto al chilo, e un animo normalmente sensibile non può non sentire che c'è qualcosa che stona, non può non subodorare l'inganno.

In questo senso, risulta quasi accidentale che in un film pornografico, ad esempio, si faccia gran dispiegamento palese di fave, patate ed altri articoli d'ortofrutta pronti al pinzimonio più sfrenato. Le componenti fondamentali della “pornograficità” stanno a mio parere invece nei significati che ho cercato di raffazzonare qui sopra, tanto che alla fine la gran parata di genitali risulta quasi la cosa più innocua e, per paradosso, pudica.

Ma come mai mi è passato per la capa di parlare di questa roba?
Perché a questo punto, sempre ammesso che la mia definizione sia valida, mi sembra di poter dire che è possibile imbattersi frequentemente in forme espressive pornografiche malcelate, più di quanto non si pensi.
Proprio perché le braghe espressive rimangono rigorosamente non calate, ma le intenzione sono spesso le più denudate del mondo.

Recentemente sono incappato in un sito fra i cui vari banner figurava anche un simpatico specchietto per le allodole, che mi è parso subito intriso per bene di discrete dosi di pornografia nella forma sopra annoverata.
Sotto le sembianze di una finta chat, era riportato un finto dialogo, già semi-iniziato su questi toni:

“...Ciao, ci sei?
Chattiamo?
Sono sicura che abbiamo molte cose in comune...”.

Direte che esagero, ma per me questa è pornografia velata (ripeto: sempre nel senso che ho cercato di dire prima).

Non c'è nessuna barriera all'immediata conoscenza personale, reciproca e completa. Laddove, fra le durezze del mondo reale, ci son coppie che hanno vissuto per decenni gomito a gomito, giorno dopo giorno, con lui e lei che dopo tutto quel tempo non sono ancora ben sicuri di conoscere forse nemmeno un centimetro della vera, più intima essenza della personalità dell'altro, qui invece siamo già “amiconi veri”.
Lo siamo da subito, lo siamo da sempre.
All'epoca del mito dell'androgino, stando alle promesse di questa chat, eravamo noi due ad essere attaccati, siamo noi due che Apollo divise di netto con la sua spada, ricucendoci alla bene meglio dalla parte degli ombelichi. Per ricongiungerci non ci resta che entrare a piè pari nella alchimia irresistibile di questa chat.

“...Ciao, ci sei? Chattiamo?...”.
“...Ciao, dove vai? Parliamo?...”
Ma a chi? Ma dove? Ma quando mai succede una cosa così per strada, in un bar, su un autobus?
“...Sono sicura che abbiamo molte cose in comune...”, sì, sì, ne sono sicuro anche io: in Comune abbiamo tutti e due il certificato di residenza e lo stato di famiglia in carta libera.
E' la realtà che viene pretesa essere esattamente come quella d'un film porno, dove due persone sconosciute fino a quel momento passano dal bere un drink insieme alla reciproca ispezione gineco-andro-logica, in 2 minuti e 19 secondi netti.

Forse son cose che vedo solo io, cosa volete che vi dica, forse sono allucinazioni causate dalla coda di calura tardo estiva, ma credo che intorno a noi ci sia molto di pornografico, nel senso che ho spiegato.

Per dire: un altro esempio di un simile “pornografismo” in senso lato l'ho riscontrai in un ambito del tutto insospettabile, ossia nel film “The passion” di Mel Gibson.
Quando vidi il film, non me ne resi conto subito: non mi convinceva fino in fondo, c'era qualcosa che non quadrava, ma non riuscivo a spiegarmi cosa fosse.
Poi capii, o almeno credo.
Qual era in fin dei conti la tesi del film? Gesù ha sofferto tanto, per espiare le colpe dell'umanità. E fin qui niente di strano, si tratta né più né meno di uno dei messaggi basilari del Cristianesimo.
Ma poi il passaggio “pornografizzante” era questo: siccome Gesù ha sofferto tanto, noi lo dobbiamo fare vedere, concentrandoci sull'aspetto quantitativo di quella sofferenza.
In pratica, la questione della fede veniva misurata da quel film proprio con la bilancia: quanto più ti faccio vedere la violenza e la possanza delle mazzate inferte a Gesù, tanto meno puoi esimerti dal credere.
Con buona pace di diversi secoli di arte sacra, di quegli sprovveduti di Giotto, Michelangelo, Beato Angelico e Raffaello, della delicatezza di Pasolini o di altri registi che si sono confrontati con il mistero della figura di Cristo e della questione religiosa.

Cosa rimane infatti nel film di Gibson della pluricententenaria storia della riflessione su questi temi? Solo la totalizzante titillazione di meccanismi emotivi estremi, e nulla più...al pari dell'ortofrutta messa in esposizione sugli scaffali d'un film porno.

Va' buono, cari amici viandanti per pensieri, anche per oggi mi pare di aver forzato concetti a sufficienza e quindi vi saluto: see you soon!



giovedì 19 agosto 2010

Madeleine gillipixiane


A volte ho l’impressione che la vita sia tutto un appiccicare pensieri e sensazioni ai vari “pacchetti” di tempo che ci ritroviamo a trascorrere. Altre volte ho altre impressioni sulla vita, ma questa ricorre spesso e non mi sembra così male.
Succede di provare certe emozioni in concomitanza con determinati eventi. Se l’associazione si ripete con una certa frequenza e regolarità, nasce quello che poi, a seconda delle esigenze, chiamiamo abitudine, o esperienza, oppure memoria, o altro ancora.

Non deve essere un concetto così balordo, se considerate che Proust, Bergson e, volendola vedere un po’ alla larga, anche lo stesso Wittgenstein, ci hanno speso intorno buona parte dei loro sforzi intellettuali e creativi.

Se non vi fidate di me (e fate bene…), sentite un po’ cosa dice ad un certo punto wikipedia:
«…Il tentativo di Bergson di andare oltre sia il realismo sia l'idealismo si concretizza nella definizione della percezione come di una forma di coscienza inglobante sia il soggettivo che l'oggettivo. L'immagine si pone come saldatura fra la materia e la memoria…».

E se non vi fidate nemmeno di wikipedia, più che lasciare la parola al diretto interessato (in questo caso Wittgenstein), non so proprio cosa fare:

«…1) Il mondo è tutto ciò che accade
2) Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose
3) L’immagine logica dei fatti è il pensiero.
4) Il pensiero è la proposizione munita di senso...».

"Tractatus logico-philosophicus"
Ludwig Wittgenstein - 1918

Insomma, che la giriate da una parte o dall’altra, la faccenda pare consistere sempre nell’appiccicare materiale mental-spirituale sopra al materiale spazio-temporale.
E pazienza poi se ognuno si ritrova in tasca le madeleine che si merita. Com’è successo a me, che mi sono ritrovato in tasca una “Guida Tv”.

Ma andiamo per gradi della memoria. Tutto inizia che ero ancora sbarbatello e di canali tv ce ne saranno stati due e mezzo, tutti rigorosamente di proprietà statale (…ebbene sì, cari bambini, un tempo succedevano anche queste cose, tutti andavamo a letto dopo Carosello e la mamma non poteva dire: “Fai il bravo, se no ti mando il babau mediatico”, perché non avremmo capito…).

Capitò che nelle edicole venne presentato il primo giornalino italiano dedicato esclusivamente ai programmi televisivi. Lo intitolarono «Guida Tv» (…ma vàh!...), ad imitazione dell’omologo americano “Tv guide”, del quale ricalcava anche la grafica di copertina e il formato ridotto.
Ricordo ancora il primo numero uscito, con Mike Bongiorno in copertina (e chi altri se no?) e una particolarità che nella mia permeabilità immaginifica di bambinetto campagnolesco mi regalò non poco stupore: pur essendo il primo numero, veniva battezzato come “numero zero”. Davvero non so dirvi come mai, ma questa cosa mi meravigliava da matti.

Dopo aver apprezzato questo numero sperimentale, in casa si decise di acquistare regolarmente la “Guida tv”. La pubblicazioncella si distingueva per uno stratagemma grafico semplicissimo ma efficace, escogitato per facilitare la consultazione: le pagine dedicate ad ogni giornata televisiva avevano il bordino colorato diversamente, così uno, sfogliando, poteva andare direttamente, per dire, al giovedì o al sabato, nella maniera più immediata.
Quello sfogliamento di “Guide tv” divenne per me una delle abitudini più frequenti della mia fanciullezza televisionaria, fino al punto che le giornate cominciarono ad assumere ciascuna il colore ufficiale di “Guida tv”.
E questa è la mia buffa e personale madeliene cui facevo riferimento prima, e che ancora oggi, in parte, mi porto appresso come lascito di quel periodo di formazione psico-emotiva, come mia privata «…saldatura fra materia e memoria…».

Non di rado, anche adesso, mi capita infatti di pensare ad un giorno ed immaginarmi la sua gradazione cromatica, che ovviamente corrisponde all’allora ufficiale colorazione del rispettivo bordino di “Guida tv”.
Il lunedì è di un giallo piuttosto denso, quasi arancio. Il martedì è giallo sole splendente. Il mercoledì verde. Il giovedì è blu chiaro. Il venerdì una metà via fra il rosa e il fucsia, mentre il sabato è blu, ma più scuro del giovedì.

Questi sono perlomeno i colori di “Guida tv” come li ricordo io.
Sono passati secoli da quando ho sfogliato l’ultima “Guida tv”, e forse la memoria mi inganna, ma fatto sta che ancora adesso, a volte, i giorni me li immagino ciascuno di quel colore. L’unico che non ricordo, chissà come mai, è il colore della domenica.
Quella proprio non la ricordo. Probabilmente perché per me è sempre stato un giorno smunto ed opaco, e nemmeno il fascino della “Guida tv”, con la promessa arcobaleno dei suoi tre programmi in bianco e nero, è mai riuscito a farmela vedere con un minimo di colorito in volto.


sabato 14 agosto 2010

Otto Ferragosti a settimana


Ricordando ai più audaci, ai più sprezzanti del pericolo caduta massi sui maroni, che, per chi ancora non avesse avuto il “piacere”, appena sotto ci sarebbe da leggere un mio sfavillante scritto ancora caldo caldo, non potevo nel frattempo esimermi dal fare gli auguri di un Ferragosto sereno a tutti voi cari amici viandanti per pensieri.

Come forse già saprete, Ferragosto e Capodanno, per dirla alla maniera di un mio vecchio amico bolognese, mi stanno simpatici come un gatto attaccato alla borsa.
E non credo si riferisse a Wall Street e dintorni.
Però ormai mi sono affezionato a questo periodico sottolineare i finali e le mezzerie dell'anno insieme a voi, e la cosa mi fa bene all'animo.

Ma soprattutto è sempre più un piacere per me, e un privilegio, scrivere per voi. E ancora una volta vi ringrazio per essere miei fedeli, o anche solo occasionali, lettori e viandanti per pensieri in mia compagnia.

E anche correndo il rischio di essere ripetitivo, vi rinnovo l'invito-auspicio che più mi sta a cuore, valido per i giorni festivi, per i feriali, per i prefestivi, per ogni giorno, otto giorni alla settimana: per Ferragosto, fate all'amore, con una donna, con un uomo, o anche da soli!

E per chi vuole, la lettura continua appena sotto... :-)


Disimpegno e nobiltà


A leggere certe fregnacce che scrivo qui su, uno potrebbe farsi una mezza idea di me, come di un intellettualoide filosofardo dalle spiccate velleità snobistico-elitarie, nonché di un culturalante auto-abbindolato da presunti esoterismi gratuiti, e sommamente inpuzzettato sotto il naso.
E può anche darsi che sia così.
Però per dimostrarvi che anche io, nella scalata all'imponente vetta dell'interesse culturale, so approdare talvolta a certe quote meno elevate ed impervie, a certi alpeggi di mezza quota più rassicuranti ed accessibili, vi basti sapere che mi sono appena letto «Il giro del mondo in ottanta giorni», di Jules Verne.

Arrivato all'ultima pagina, dopo essermi gustato fino in fondo la bellezza del racconto, poteva succedere che mi astenessi dall'andare a fracassare le fricassee ai miei cari amici viandanti per pensieri, proprio prendendo spunto da quel libro?

Non poteva.

Dopo aver rimuginato un po' sulla faccenda dei “prodotti culturali” cosiddetti “alti”, contrapponibili a quelli cosiddetti “bassi”, dopo aver menato il cane concettuale per l'aia mentale riguardo alla creatività più o meno “impegnata” o “disimpegnata”, eccomi dunque qui a ragionare ancora una volta sugli elementi formali e sostanziali di un libro che fanno scattare in me la molla della “sintonia estetica” con quell'opera stampata medesima.

Tradotto dal Gillipixese stretto all'italiano: quali sono gli ingredienti che un libro deve contenere per piacermi?
Già in altre occasioni ho affrontato l'argomento da diverse angolazioni, ma oggi la metto giù in questo modo: un libro alla fine risulta piacermi se possiede intelligenza, passione, onestà, ironia e autoironia. In altre parole, se da uno scritto traspira evidente la presenza di mente, cuore, fegato, pancia e genitali, ebbene, per mio conto quello è un testo “nobile”.

Mente - intelligenza.
Il libro deve farti sentire che l'autore non si è accontentato. Si deve assaporare il fatto che sui propri temi e sul modo di trasmetterli, ci ha lavorato su, è andato a fondo, non ha preso per buona la prima soluzione, ma ha scavato, costruito, limato l'eccesso e colmato il vuoto. Ha sondato, ha esplorato, ha aperto la mente a infinite possibilità, ha lasciato le porte spalancate allo stupore e alla curiosità.
Si è poi premurato di passarti un materiale creativo del quale ha provato e riprovato l'efficacia; come un cuoco della parola, ha assaggiato le sue pietanze innumerevoli volte, le ha scartate se era il caso, e cucinate di nuovo, sino a riuscire a trovare la sintesi migliore dei sapori.
Ancora: l'autore deve aver agito come un dirigente di azienda che sa coordinare al meglio i propri dipendenti non sulla base di un autoritarismo di facciata, ma perché conosce alla perfezione il ruolo e i compiti di ciascuno, dal più alto impiegato al più umile operaio, e sa come orchestrarli insieme.
La cosa curiosa però è che, se fatto come si deve, a testo definitivo, tutto il lavorio non traspare sulla superficie del narrato, la quale anzi risulta leggera ed aggraziata, agevole e carezzevole, come a passare la mano su di un tessuto in seta.

Cuore – passione.
Gli argomenti che lo scrittore affronta devono essere molto importanti per lui. La dico meglio: questa è l'impressione che si deve cogliere leggendo. Che ci teneva in modo particolare a raccontarci quelle cose e che lo ha fatto con gli strumenti espressivi migliori che è riuscito mettere in gioco, con il solo obiettivo finale, in pratica, di farci sentire il medesimo trasporto da lui provato per i temi raccontati.
Lo scrittore lo dobbiamo sentire alla fine quasi come un caro amico che si confida con noi, che ci apre il cuore, per l'appunto, e ne trae fuori quello che di più bello egli crede debba esserci riservato.

Fegato – onestà.
Forse in questo caso l'immagine risulta leggermente fuorviante, perché il fegato è tradizionalmente abbinato piuttosto alle doti di coraggio. Ma se mi è concesso di forzare leggermente l'immagine, mi andava di abbinare fegato e onestà, perché mi sembra di poter dire che non si può essere leali senza anche una buona dose di coraggio.
Lo scrittore in questo senso deve possedere il coraggio della lealtà in due direzioni.
Primo, verso se stesso: non deve mai pretendere di andare oltre i limiti del proprio talento, deve sempre cercare di dare il massimo nell'ambito delle sue capacità, e solo così potrà dar vita ad esiti degni di nota.
Secondo, verso il lettore: non c'è a mio avviso atto di slealtà verso il lettore più subdolo e fastidioso dell'«artificio sentimentale», lo sfruttamento dell'emozione e del sentimento fini a se stessi per provocare facili effetti. Ecco che così forse si chiarisce meglio il mio abbinamento fra fegato ed onestà, perché la ricerca del “facile effetto” è nel contempo atto di slealtà e di codardia narrativa, e lo scrittore leale deve evitare come la peste il “facile effetto” fine a se stesso.

Ironia e autoironia - pancia e genitali.
La pancia, con tutte le sue colorite funzioni e gli stravaganti frangenti che provoca ed evoca, è un promemoria che ci portiamo appresso per mai dimenticare che la vita è anche parecchio buffa, e che saperne ridere, quando è il momento, è solo sintomo di saggezza.
I genitali invece non saremmo quasi degni di portarli appresso a noi, ogni giorno in mezzo alle gambe, se fra le pieghe del senso d'onnipotenza che talvolta sanno ispirare, non fossimo capaci di scorgere anche l'ineffabile incombenza di una comicità inevitabile.
A colei o a colui che non sa fare anche un sorriso guardandosi in mezzo alle gambe, probabilmente sfuggiranno per sempre certi significati della vita e dell'essere donne e uomini nel senso più completo del termine.
Un libro privo d'ironia e autoironia fa proprio questo: innanzitutto nega di avere una pancia, con tutti gli annessi e connessi, e poi si guarda fra le gambe, non trovandoci mai e poi mai nessun motivo al mondo per sentire affiorare sulle labbra il non senso liberatorio di un sorriso.

Dice: sì, va beh, ma non dovevi parlarci di Verne, «Il giro del mondo in ottanta giorni»?
Lo ammetto, cari amici viandanti per pensieri, ho divagato, ma in modo innocuo, un po' come quell'ubriacone che rincasando spesso ad orari indegni, soleva ribattere ai rimbrotti della moglie: «Mia cara, io rientro sempre presto, ma poi inciampo mille volte lungo le scale...e così...guarda lì dove si perde del tempo...».

Ad ogni modo, del «Giro del mondo in ottanta giorni» spero di aver modo di parlarvi ancora. Per il momento chiudo dicendo che tutto questo ragionamento, almeno ad una conclusione mi ha portato. Ossia che forse è inutile interrogarsi sull'impegno o sul disimpegno di un'opera letteraria, sul suo appartenere alla cultura “bassa” o a quella “alta”. La questione è secondaria, sotto certi aspetti, perché quando ci si rende conto che un'opera ha mente, cuore, fegato, pancia e genitali, ci si può ritenere fortunati di leggerla e soddisfatti nel definirla “nobile”.
Come senz'altro mi sento di fare con «Il giro del mondo in ottanta giorni», di Jules Verne: un libro dalla disimpegnata nobiltà.



mercoledì 11 agosto 2010

Walt Gilliarmpitman


«...Rovistando fra il perfido ghiaietto e l'erbaccia arcigna,
vi rinvenni solo soletto un piccolo cucciolo di pigna...».

*******

“Aprile è il più crudele dei mesi”, ci metteva in guardia T.S. Elliot.
Ed anche se poi non ce l'ha mai detto altrettanto chiaramente, son certo che anche lui s'era accorto che agosto è invece il più ingannevole. Se giugno e luglio sono un po' come “i mesi del villaggio”, per atmosfere ed aspettative goderecce di cui sono carichi, agosto è la domenica dei mesi.
Agosto ha un sapore post-orgasmico ed è un frutto troppo maturo. Ha ancora la buccia bella tesa e in questo modo salva le apparenze, ma sotto, la polpa è già un po' fradicia e foriera del rivivificante marcimonio tardo estivo, che aprirà le porte ai letarghi autunnali e alle loro germinazioni sotterranee.

Per la tribù Lakota (“Popolo degli Uomini” - Pellerossa nativi americani) Agosto era “la luna in cui le ciliege diventano nere”, e detto questo potrei anche smettere di scrivere qui, perché quando la bellezza del dire è perfetta, nessuno dovrebbe osare più turbarla con altre parole.

«...Divine am I inside and out, and I make holy whatever
I touch or am touch'd from.
The scent of these arm-pits aroma finer than prayer,
This head more than churches, bibles, and all the creeds..».

«...Sono divino all'interno e all'esterno, e santifico ogni
cosa che tocco o da cui sono toccato.
L'odore di queste ascelle è un aroma più soave delle preghiere,
E questa testa vale più delle chiese, e delle bibbie, più di tutte le fedi...».

Song of Myself – Leaves of grass
Walt Withman – 1855

Agosto è anche il mese che fa la muta degli odori.
Me ne sono ricordato stamattina, sempre con la mia zappa in mano, sul sentierino ghiaiato, constatando come “the scent of these arm-pits” non risultasse poi così tanto “aroma finer” di un bel niente.
Agosto ha un odore dolciastro e camuffato, ricorda quelle dame o quei cicisbei seicento-settecenteschi che si sommergevano di ciprie, unguenti e belletti aulenti, ricacciando le proprie puzze sotto la coltre di vesti e palandrane, come la polvere sotto al tappeto (ah...per la cronaca, io, finito di zappettare, mi sono lavato, eh...).

Ma prima di lavarmi, fra la siepe e il sentierino, ho fatto in tempo a veder sbucare una pigna bambina.
Chissà, pure lei un tempo avrà sperato, ancora aggrappata a “mamma Pina”, di diventare un giorno capostipite di una progenie di maestosi pini, ma ha poi incontrato l'agosto della sua vita, e si è dovuta limitare a lasciar sfiorire la sua bellezza, giungendo a smuovere solo l'immaginazione d'uno sfaccendato zappatore per sentieri.

Così ho pensato di donare alla pignetta un piccolo risarcimento estetico: l'ho posata in mezzo al fulgore cromatico floreale, tanto che nella composizione risultante si faticava a capire chi riceveva grazia e chi la donava.

E fra un fotogramma e l'altro, un pensiero mi ha folgorato, palese palese: «...Ah Gillipì ma che sta' a fa'? Ah Gillipì ma che sta' a dì?...'Na pigna è 'na pigna...e agosto è solo un mese!...».



martedì 10 agosto 2010

La roba


Se un giorno vi andasse di conoscere un tizio che di economia ne capisce esattamente una lussureggiante fava, non dovreste far altro che farmi un fischio e dirmelo.
Arriverei lì in un battibaleno per i convenevoli di rito: «...Permette? Mi presento, so' er sòr Gillipixel: ignorante in economia, summa cum laude!!!...».

Prendete dunque, se volete, quanto sto per scrivere come una serie di candide frescacce di un ingenuo. So che ci siete abituati, perché è così per ogni cosa che scrivo, ma ogni tanto è bello anche ricordarlo.

Tutto è iniziato dalla delusione cagionata da un prezzo troppo basso. Siamo a questo paradosso ormai. Vai in un negozio, che ti serve “una roba”, e in testa ti fai un piccolo preventivo, un'aspettativa di quanto pensi di spendere. Anche se si tratta di un articolo di minimo valore, è un meccanismo che viene spontaneo, tutte le volte.
Ora, da che mondo era mondo, succedeva così: giungevi nella bottega e quasi regolarmente trovavi un prezzo più alto di quello che credevi. Era quasi nella logica umana e delle cose.

E invece no, stavolta è stato l'opposto: il prezzo era molto più basso di quanto pensassi e la faccenda, invece di rincuorarmi, mi ha messo addosso un po' di mestizia. Si trattava di uno di quegli aggeggi per l'auto, quei parasole in pellicola d'alluminio, per il parabrezza (in pellicola di vetro, questo...ehehehehe, battutona!).
Avevo ipotizzato una decina di euro. E invece ne hanno voluti solo tre. Ovviamente era “made in China”.
Si obietterà: e che? Hai pagato poco e ti lamenti pure? Ma no, non è questo il punto. Non sono certo il tipo che ama sbattere via i soldi, e tanto meno scialare per il puro gusto di farlo. E' che questo non mi sembra più nella logica umana e delle cose.

Delle cose, o anche della “roba”. Prima non ho usato a caso questo piccolo vocabolo così denso di sfumature, nella nostra bella lingua italiana. Nella mia confusione mentale, questa parolina mischia insieme reminiscenze verghiane (nel senso di Giovanni Verga) con remote eco delle teorie di Marx.

Non ho mai avuto uno spiccato fiuto per il realismo materialistico, anzi, per mia natura tendo di preferenza a perdermi fra le nuvole di un mondo di elucubrazioni tutte mie, fumose e poco concrete. In altre parole, Pindaro ed io ci serviamo spesso della stessa compagnia aerea.
Ma il mio “pindareggiare” non è così pervasivo da farmi perdere di vista l'importanza della “roba”.

La “roba” è il nostro mondo, in fin dei conti.
Tutte le cose che ci circondano, a partire dai piccoli utensili quotidiani più immediati (le posate, per fare un esempio banale, oppure tutti gli aggeggi per l'igiene personale, o gli oggetti non direttamente utili a scopi pratici, ma carichi di valenze affettive, e così via...), per arrivare agli artefatti più complessi e riccamente carichi di un alto “valore intellettivo e tecnico aggiunto”(il pc che avete dinnanzi, la casa che vi accoglie in questo momento, la vostra bici, il vostro scooter, la vostra auto, ecc.), tutte le cose che ci circondano, dicevo, non solo ci circondano, ma sono in qualche modo parte di noi stessi e della nostra identità, sono “significati diffusi” nello spazio e nel tempo della nostra esistenza.
In questa prospettiva, mi sento di poter dire che alla “roba” bisogna voler bene. Non mi si fraintenda, il riferimento non è ad una sorta di neo-feticismo, di morbosità paranoide, da rivolgere verso le cose. No, quel che intendo invece è che portare rispetto alle cose equivale al portare rispetto alla nostra esistenza stessa. Sto parlando di una sorta di “ecologia delle cose”.

Ma cosa c'entra tutto questo con dei parasole per auto schivati quasi per miracolo, mentre me li tiravano dietro, tanto erano a buon mercato?
Credo che c'entri qualcosa, perché fra i vari aspetti che conseguono a questa globale “cinesizzazione” dell'economia, a mio avviso si affaccia anche questa conseguenza umiliante: il venir meno del rispetto per la “roba”.

Non che nei decenni addietro questa tendenza fosse sconosciuta, anzi.
Il meccanismo dell'usa e getta, soprattutto quando in combutta con la strategia dell'obsolescenza programmata (tanto per citare solo due fra le più clamorose “distorsioni” della modernità), mica lo avevano inventati i cinesi.

Ma la “cinesizzazione” economica del mondo mi pare che abbia dato un'accelerata vertiginosa verso il baratro della completa mancanza di rispetto per la “roba”. Non so se succede solo a me, ma mi è capitato a volte di acquistare roba rigorosamente “made in China” e di provare la sensazione di aver comprato direttamente già un rifiuto. Certo, mi riferisco a quei particolari articoli a prezzi stracciatissimi, tipo, una volta, un paio di guanti da pochi euro, che non tenevano il freddo per niente e dopo una settimana cominciavano già a cedere clamorosamente nelle cuciture, tanto da essere praticamente già pronti per la pattumiera dopo soli pochi giorni di utilizzo.

Dice: ma non comprare cinese. Eh, va beh, faccio il possibile, ma è una parola con l'invasione che si profila.
Che poi uno (e qui entrano in scena stralci dispersi delle mie confuse nozioni marxiane), pensando a tutta questa valanga di merci a prezzi così irrisori che sommerge il pianeta, riflette anche su quanto poco sia tenuta in conto la dignità umana dei milioni di individui coinvolti nella produzione di questa “roba” ingiuriosamente svilita.
E viene pure in mente che allora tutto si gioca esattamente lì, nel valore del lavoro, della mano d'opera, ossia, ancora una volta, il nodo cruciale ruota attorno all'esistenza umana.
Si ha la sensazione che il “non rispetto” della dignità umana che produce, si rifletta alla fine nella dignità perduta di questa “roba” inflazionata, che sembra non esigere più nemmeno una minima parte del rispetto un tempo richiesto a chi la utilizzava.
Cose prodotte pagando pochissimo il lavoro, sono vendute a pochissimo, ma l'uomo è completamente sparito, da un capo all'altro di questa degradante sequela di “non rispetto”.
L'amore per il fare, completamente spazzato via, è precisamente rispecchiato dal disamore finale per la “roba” stessa che non vale più nulla.
Certo, lo stesso discorso valeva e vale pure per un paio di scarpe da ginnastica pagate 200 euro nel negozio ganzo e alla moda: sempre gente pagata niente c'è dietro!
Fatto sta che alla fine, ti vien da sbottare: «...Ma minchia, quel gran barbone di Treviri! E mica c'aveva tutti i torti...».

Ma forse questi sono pensieri e meccanismi troppo grandi, per le sgangherate dissertazioni d'un modesto viandante per pensieri. Nel nostro piccolo tuttavia, una cosa possiamo probabilmente ancora fare: cercare di volere bene alla nostra “roba”, pensando sempre che non è mai un'entità del tutto inerte e neutrale, ma significa sempre anche vita viva di donne e uomini.



lunedì 9 agosto 2010

Kiss me, kiss me, Licia


Oggi faccio un tuffo nel fatuo.
Oggi mi immergo nel vacuo.
Oggi praticamente evacuo.
Ossia faccio il mio outing personalizzato. Niente di clamoroso, s'intende, né da confondere con cose ben più serie, verso le quali non vorrei mai mancare di rispetto.
Il mio outing è pecoreccio e un po' strambo, e suona più o meno così: a me la Belen, con rispetto parlando, mi fa un po' schifo!

Eccolo, eccolo, lo sapevo che a questo punto si sarebbe levato inesorabile come una cambiale il coro imperituro dei miei cari amici viandanti per pensieri, che all'unisono, equiparandomi a Brancher, con voce ferma inneggiano: «...Ah Gillipì, ma va' a caghèr!!!...».

Lo so, lo so, è sottinteso che sto parlando in via del tutto teorica, teoricissima. E quando mai!...Anche solo a pensare di riuscire a sfiorare l'unghia del dito d'un piede di una topa siderale del genere, per uno come me, nemmeno 423 reincarnazioni sarebbero sufficienti.
Lo so, non c'è bisogno d'infierire così.

Ma proprio qui casca l'asino consumistico. Gli occhi ce li ho pure io per vedere che è una donna molto bella.
In teoria.
Perché in pratica, per sommo di paradosso, tutto il gonfiaggio d'immagine ed il senso del fasullo che sta dietro a questa donna, mi risulta talmente nauseabondo e fetido, da farmi sembrare una schifezza persino tale e tanta venustà femminile.
E' più forte di me, quando la vedo mi soffoca l'associazione d'idee col sotto vuoto spinto mentale di Fabrizio Corona e Christian De Sica.
«...Fidanzata d'Italia..» continuano a definirla sui giornali e in tele. Ma sarà la fidanzata tua, coatto giornalista di scuderia, imbolsito, labirintico mono-scrivente “per inerzia” (tanto per citare il gran maestro “Skiantato”, di cui riporto in seguito una celeberrima melodia).

Così, finalmente lo posso dire a tutti con fierezza: a me mi piace la Licia Colò! Cento Belen, non fanno un grammo della femminilità della Licia.

Mi piacciono il suo garbo, la sua delicatezza e la sua discrezione. Non c'è neanche il rischio che diventi fidanzata d'Italia, perché è bell'e che sposata, ma parafrasando una famosa battuta di un capolavoro della cinematografia di tutti i tempi («Grease», ehehehe), sono certo che con lei sapresti cosa fare anche nelle rimanenti 23 ore e mezza della giornata.


sabato 7 agosto 2010

And you could beat him up with a baseball bat whenever you felt like it


«...What really knocks me out is a book that, when you’re all done reading it, you wish the author that wrote it was a terrific friend of yours and you could call him up whenever you felt like it...»

«...Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira...»

The Catcher in the rye
J. D. Salinger - 1945

Ho già citato in altre occasioni questo bel passo di Salinger, perché è uno dei miei prediletti e poi perché se esistesse un mestiere chiamato «Citatore del giovane Holden», sarebbe il mestiere che mi piacerebbe fare nella vita.
Ma stavolta rinnovo la citazione perché il brano mi è tornato alla mente, per contrasto, in questi giorni di lettura di un altro romanzo americano.

Per contrasto: perché se da una parte la freschezza e l’immediatezza di Salinger sono agli occhi del lettore una meraviglia di sintesi che pare fluire dalla logica della realtà stessa, con la medesima naturalezza di una mela nello scaturire dal suo fiore, nel caso del romanzo che dicevo invece, mi è toccato di incappare in dialoghi così legnosi e stucchevoli, frutto di una “artefazione” così fastidiosa, che non so cosa mi abbia trattenuto dallo sbattere il libro contro il muro.

Se mi sono trattenuto forse è stato solo per il fatto che alla fine, paradossalmente, rimane comunque un buon libro, e la lettura sta proseguendo anche con buona soddisfazione da parte mia.
Non rivelerò il nome del romanzo in questione, e riporterò di seguito i brani incriminati “criptandoli” in qualche modo.
Non ho autorità alcuna per stroncare un libro, non è ciò che mi interessa: «…chi siamo noi per dire chi è Caino e chi è Abele?...», sentenziava il buffo avvocato difensore radiofonico interpretato da Fiorello, ma soprattutto «…Chi siamo noi per dire chi è Dolce e chi è Gabbana?...».
E poi, come vedrete, i miei presupposti critici sono talmente labili e singolari che probabilmente alla fine, quello messo dialetticamente peggio risulterò ancora una volta io.

Quello che mi piaceva fare qui oggi è invece rendere semplicemente conto di un fenomeno narrativo, in qualche modo anch’esso legato al brano di Salinger. Quando infatti mi imbatto in certi passaggi irritanti come quelli che vi citerò poi, ecco come vedrei bene rivisitata la frase del vecchio Holden Caulfield:

«...Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo prendere a bastonate tutte le volte che ti gira...».

Ora vi riporto i promessi brani “cripati” e poi mi direte voi se la brama “bastonatoria” non vi chiama urgente e impetuosa dal vostro intimo.
Chiamerò con F1 e F2 i due personaggi femminili che parlano nei diversi brani, con M1 e M2 quelli maschili, e con G la famiglia citata.
State un po’ a sentire:

«...”Questo terreno è di vostra proprietà?” chiese M1.
“Sì” disse F1. “Abbiamo provato a venderlo, ma non lo vuol nessuno”.
“Quanti ettari sono?”.
“Non so. Un mucchio, credo. Un centinaio. E prima erano ancora di più, quando i G erano proprietari della miniera”.
“Quando l’hanno venduta?”.
“Non lo so. Negli anni Cinquanta, credo, ma non sono sicura”.
“E’ ancora attiva?”.
“No”, disse F1 “è chiusa da secoli”.
“Cosa produceva?”
“Bauxite”.
“Che roba è?”.
“Non so, serve a fare l’alluminio”.
“Queste cose sono un mistero per me”.
“Anche per me” disse F1....».

Ecco, cari amici viandanti per pensieri, sarò fissato io, ma giunti al passaggio della bauxite, non vi è quasi parso di sentire i polpastrelli che già carezzavano con voluttà una nodosa verga di rovere, vogliosa oltremodo di andarsi a schiantare, in prima ideale istanza, sulla schiena dei due personaggi dialoganti, ed in seconda concreta convocazione sulle terga dello scrittore medesimo?

Per la Suprema Minchia Onnipotente che tutto vede e a tutto provvede, ma nemmeno io so di preciso cosa sia la bauxite, ma non per questo mi metto a parlarne come fosse un ammasso di merda radioattiva! Tanto per far vedere che te sei uno snob e non ti abbassi nemmeno, a trattare di certi dettagli prosaici della vita...Ma vedi un po' di andartene a “hahare”, vai!...per dirla in italiano dantesco.

Per non parlare poi di questi altri irritanti scambi di battute.
F2 si reca da M2 per parlargli e capita in casa sua inaspettatamente:

«...”Sì,” disse F2 “ma posso tornare in un momento più opportuno se crede”.
“No, sono disperatamente libero per il resto della mia vita”, disse M2. “Ora va benissimo...”...».

Ah M2, ah coso! Che niente niente è arrivato er Lawrence Olivier de noantri? Ma calati le braghe pure te e vai dietro 'na siepe a concimare le aiuole, vai, vai che ci sono già i due di prima...

E ancora, è sempre M2 che ci fa strabiliare, sorprendendo F2 con questa impareggiabile battuta da antologia della comicità mondiale:

«...F2 lo seguì nella sala.
“Vuole bere qualcosa? Qualcosa di freddo? Qualcosa di caldo? Qualcosa di tiepido?...”...».

Ah – ah – ah...e m'hai fatto proprio sbellicare, m'hai fatto, orpo d'un bove illuminista! Ma lo sai che c'hai talento, caro M2? Ho sentito che si sono liberati dei posti a Zelig, perché non vai a fare un provino?

Insomma, cari amici viandanti per pensieri, ad un certo punto della lettura del romanzo mi sono domandato: ma perché uno scrittore corre il rischio di rovinare un libro per altri versi anche bello, con simili perle di irritabilità narrativa?
Anche ammettendo che la cosa sia voluta, per creare intorno a certi personaggi una qual aura di antipatia, non saprei dire se il gioco vale la candela romanzesca.

Ripeto, non ho voluto dire per filo e per segno di quale romanzo preciso si trattasse, un po' «...per lo buonismo mio che nol consente...»; un po' perché immaginando quante bastonate vorreste darmi voi quando leggete certi miei spropositi qui su, è già per me un enorme lusso la possibilità di sollevare umilmente tali appunti.
Ma soprattutto anche perché il medesimo libro in questione è poi capace di riservarti brani come quello che segue, facendosi perdonare ampiamente le caga...ehm, le irritanti frasi riportate prima:

«...A volte penso che si nasca con una scorta limitata di emozioni. Da bambina, se mi capitava di fare un viaggio per nave, pensavo ai viveri, all'acqua, alle scorte immagazzinate da qualche parte, con l'ansia che potessero esaurirsi; ogni giorno la nave diventava sempre più leggera, il cibo passava attraverso di noi e veniva scaricato nell'oceano. E la nave saliva sempre più a galla perché era sempre più vuota. Pensavo che crescere fosse una cosa simile: un progressivo svuotamento. Che gli adulti fossero sbrigativi e cattivi perché le loro emozioni erano state consumate. E la ritenevo una cosa buona da perseguire...».


domenica 1 agosto 2010

Primo: Svegliati bene


Se la nostra nazione fosse una democrazia di senso compiuto, la sua Costituzione dovrebbe iniziare così: Articolo 1: «L’Italia è una repubblica fondata sulla possibilità di non vedere anima viva prima delle undici di mattina».
Badate che ho scritto “possibilità”, non diritto, né dovere. Semplicemente dovrebbe essere garantita a ciascuno la facoltà di poter scegliere di non vedere nessuno prima del ripristino completo di una dignitosa presentabilità “post-dormitoria”.

Il ritorno dal mondo del sonno è una faccenda seria.
Dormire vuol dire anche un po’ addentrarsi in una sorta di metamorfosi di noi stessi. Siamo degli “altri”, quando dormiamo, la nostra identità normalmente riconosciuta viene meno, per lasciare spazio ad un’altra più misteriosa, intima, remota rispetto alle dimensioni della fase di veglia.
E sul corpo, soprattutto sul viso, le tracce di questa metamorfosi rimangono visibili, ma molto più indelebili sono i segni lasciati dentro l’animo, dal sonno.

Dando come sottinteso che si considerino solo casi di “normo-dormitori” (lasciando dunque in sospeso il discorso per chi ha disturbi ad accedere a quel regno così importante per le umane distribuzioni d’energia vitale), si può dire che il sonno è l’altra metà di noi. E’ un concetto così bizzarro che solitamente non ci si pensa, ma ogni volta che incontriamo una persona dovremmo sempre ricordare che in qualche modo l’essere che ci troviamo dinnanzi è incompleto, è dimezzato, perché l’altro fondamentale 50% di sé l’ha lasciato nel suo letto, la mattina quando si è svincolato dall’abbraccio di Morfeo.
Il “sé” addormentato è fragile ed indifeso, è la nostra identità messa fra parentesi, è il nostro spirito uscito per qualche ora dalla vita per addentrarsi in un ignoto che anche agli occhi della scienza conserva tuttora mille ed una sfumatura ancora inspiegate.
L’atto dell’addormentarsi livella l’umanità: da un bastardo figlio di mignotta trapela il medesimo candore di una brava persona, quando sono immersi nel sonno.

Stare in presenza di una persona non ancora ben sveglia, specularmente al presentarsi per forza di cose non ancora ben svegli agli altri (fenomeno che capita a ciascuno, quasi tutti i giorni, entrando nel posto di lavoro, a scuola, sul treno, sul bus, ecc.), sono atti di profanazione dell’epilogo di un rito sacro che dovrebbe essere di pertinenza esclusiva dell’intimità del singolo.
Per dirla in termini assai più prosaici, è un po’ come cacciare fuori a calci un tizio dal cesso, con ancora le braghe e le mutande calate a mezza gamba.

L’eventualità di vedersi con ancora i segni del sonno siglati sul corpo e nell’animo, dovrebbe essere prerogativa solo degli amanti, perché solo la vastità dell’amore o la vertiginosa magia di una profondissima passione fisica e spirituale, contemplano il lusso di riuscire a ritrovare bellezza anche nella vulnerabilità dell’altro e nell’effrazione dei suoi pudori.
Già l’amicizia, in questo senso, si rivela “leggermente più impotente”: vedere l’amico o farsi vedere dall’amico coi postumi del sonno indosso, mette un po’ a disagio, crea imbarazzo, oppure può fare anche malinconia, per il disinganno che soggiace al constatare disvelata la “delicatezza aggredibile” di una personalità che si pensava più integra, più tetragona ed inattaccabile.

Per questo, una democrazia moderna che a testa alta intendesse chiamarsi tale, dovrebbe garantire ad ognuno la possibilità di ritrovarsi attorniato solo da gente perfettamente sveglia, agli orari debiti.

Dovrebbe garantite tutto ciò…se solo non fosse che questa era soltanto un’altra stravagante favola raccolta andando per pensieri…