lunedì 28 aprile 2014

Scommessa con l’ignoto


Certe volte vale la pena affrontare libri ostici. Sia quando sono raccomandati da una tradizione di sapienza assodata, sia nel caso di autori meno noti, ma che si distinguano per una loro certa qual forma di “oltranzismo” intellettuale. 

La lettura, in quei casi, spaventa e disorienta, ci si capisce poco, si è costretti a combattere di continuo contro un vago scoramento in sottofondo. La stizza derivata dall’ardua comprensione e la forte tentazione di abbandonare sono sempre dietro l'angolo. Le righe vanno lette e rilette più volte, per riuscire a carpire perlomeno piccoli lampi di senso qua e là. Ma poi, se il libro è davvero “custode di profondità”, in qualche modo ti ripaga. Insomma, conviene affidarsi ogni tanto ad un autore che sa “spingersi oltre”.

Nella vita, conoscendo persone di ogni tipo, carattere ed indole, mi è successo molte volte di incasellarle inconsciamente in due generalissime categorie umane: ci sono coloro che affrontano le cose con sguardo filosofico, e coloro che sono esenti da tale sguardo. Naturalmente è più probabile che sia dotato di sguardo filosofico chi ha effettivamente affrontato lo studio della filosofia a scuola. Ma questa non è una condizione rigorosamente necessaria a tutti i costi. 

E' buona cosa aggiungere poi che questa classificazione non va intesa come riferimento a due compartimenti stagni. Come spesso accade, è difficile che un individuo rientri completamente nelle caratteristiche di un “tipo distintivo” precisamente definito. La realtà funziona più per sfumature, che non per nette separazioni fra bianco e nero. Non ci saranno dunque “ciechi filosofici completi” da una parte, e “vedenti filosofici assoluti”, dall'altra. Sarà opportuno invece parlare, di caso in caso, di “miopia filosofica”, di “presbiopia filosofica”, di “astigmatismo filosofico”, oppure di “lungimiranza filosofica a tratti offuscata da nubi e nebbie”, e così via.

Un bellissimo condensato di definizioni riguardanti cosa significhi possedere uno sguardo filosofico sul mondo, l'ho rinvenuta in un libro molto ostico (tra l'altro da me già citato la scorsa volta), ma altrettanto soddisfacente e “nutriente”. Il libro in questione è “Terminologia filosofica”, di Theodor W. Adorno (edizione, nella fattispecie, Einaudi, del 2007), una raccolta di lezioni universitarie tenute agli allievi di Francoforte fra il 1962 ed il 1963. Nella sua lezione numero 11, intitolata “Filosofia e saggezza”, Adorno afferma:

«...La filosofia può essere addirittura definita come un atteggiamento che cerca, per quanto può, di spezzare l’universale contesto di accecamento; secondo questa interpretazione – che in nuce si trova già in Eraclito – la filosofia è resistenza contro l’opinione costituita, che si identifica in larga misura con la colpa universale...[...]...nella misura in cui la filosofia rappresenta effettivamente la resistenza intellettuale organizzata, essa è opposizione contro le convenzioni e i clichés che sono coniati dalla società. Un individuo che non ha mai provato disgusto per quello che tutti pensano e tutti dicono, per quello che gli è messo davanti senza che l’abbia chiesto, un soggetto simile non può giungere alla filosofia. Bisogna vedere la costrizione, l’ingiustizia e la menzogna che stanno dietro l’ovvietà, bisogna vedere come certi modi individuali di comportamento che considerati isolatamente appaiono giusti e ragionevoli meritino invece valutazione completamente diversa se considerati nel tutto sociale a cui appartengono. Bisogna far luce sul contesto di accecamento, come si sono sforzati di fare Eraclito nell’antichità e Schopenhauer nella filosofia moderna. La filosofia è resistenza contro tutti i clichés, che è diventata consapevole…».

Ci sono, in queste poche righe, alcune espressioni che rifulgono di una potenza estrema, straordinari “poli di condensazione significativa”. Ho riportato tutto il passo, per ovvi motivi di completezza, ma i punti in cui l'intensità si esprime nel suo fulgore massimo, sono secondo me ben precisi, ed offrono uno spettacolo intellettuale mirabile, nell'evidenza dell'isolamento:

«...spezzare l’universale contesto di accecamento...»;

«...resistenza contro l’opinione costituita, che si identifica in larga misura con la colpa universale...»;

«...resistenza intellettuale organizzata...»;

«...opposizione contro le convenzioni e i clichés che sono coniati dalla società...»;

«...Un individuo che non ha mai provato disgusto per quello che tutti pensano e tutti dicono, per quello che gli è messo davanti senza che l’abbia chiesto, un soggetto simile non può giungere alla filosofia...»;

«...la costrizione, l’ingiustizia e la menzogna che stanno dietro l’ovvietà...».

Guardandosi intorno, ci si rende conto di come invece l'accecamento e l'ovvietà prevalgano. La “passività intellettuale organizzata” è preferita dai più. Mentre si è fatto fortissimo il “senso di colpa universale” che attanaglia, come una camicia di forza esistenziale, il soggetto al quale capiti, per i più disparati motivi, di ritrovarsi deragliato dagli standard di vita (materiali, ma soprattutto riguardanti lo “status sociale”) dettati dall'opinione costituita.

Gioverebbe alla realtà quella particolare incoscienza-coraggio (che solo uno sguardo filosofico sul mondo sa fornire) di spingersi alle più elevate quote del pensiero. Sospettare sempre di quello che ci è “messo davanti senza che lo abbiamo chiesto”. In poche parole, servirebbe più capacità di saper guardare alle cose con “sguardo filosofico”, nell'accezione complessa di questa espressione suggerita da Adorno (che non si esaurisce alla mia breve citazione, ma è estesa per tutto il bellissimo tomo da cui l'ho estrapolata).


venerdì 25 aprile 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Sir Herbert James Gunn (1893-1964)

Dopo la mini-pausa pasqualina, ecco di nuovo a voi “Le muse di Kika van per pensieri”, la  rubrichetta d'indagine artistico-fisiognomik-tuttologica, gemellata con il settimanale appuntamento di Kika a base di “Arte & Moda”.

Kika ci propone oggi un artista poco noto, Sir Herbert James Gunn (1893-1964), pittore scozzese (nato a Glasgow), ma talmente inglese nella sua espressività (sempre rispetto ad un certo modo iper-tradizionale d'intendere la “Britishness”, ovviamente), che più inglese non si potrebbe. Gunn è stato infatti il pittore dell'alta società, da un certo periodo in poi specializzato in ritratti di dignitari, esimi esponenti della nobiltà, dell'esercito e degli esclusivissimi ambienti giuridici, con i loro notabili, notabiloni e maggiorenti di ogni risma. L'esempio più lampante ci è fornito proprio dall'opera scelta da Kika per l'occasione, un sontuoso dipinto della regina Elisabetta II (sì, proprio lei, quella attualmente ancora sul trono), realizzato da Gunn fra il 1953 ed il 1954, per commemorare l'incoronazione della sovrana britannica, avvenuta il 2 giugno 1953.
Volendo ripescare la solita distinzione, già visitata in varie occasioni, fra artisti “testimoni” ed artisti “precursori”, Sir Herbert James Gunn va annoverato senza dubbio fra i testimoni, anzi, fra i “super testimoni”. C'è scarsa traccia di sperimentazione nel suo fare espressivo, il suo modo di porsi nell'ambito del discorso dell'arte è improntato al più solido tradizionalismo: Gunn prende atto della realtà senza farne soggetto “critico”, cercando di raccontarla in misura assai elegante ed ufficiale, laddove invece i “precursori” la problematizzano, insinuano dubbi, si arrovellano, rovistando il sottobosco dell'ufficiosità esistenziale. 

Eppure non mi sento in diritto di derubricare l'opera di Gunn come quella dell'ennesimo artista minore. Non conoscevo i quadri di Gunn, lo ammetto (per questo ringrazio ancora una volta Kika, che con le sue scelte, mi, e ci, fa scoprire sempre autori nuovi), e, d'accordo, il mio giudizio “vale fino a là” (là dove? Là, là, guarda bene...), ma sbirciando un po' di suoi quadri sul web, beh...devo proprio dire che mi è garbato parecchio. 
Dopo gli studi a Glasgow, Gunn si era formato a Parigi negli anni '10 del '900, dove ebbe modo di assorbire tutto il fervore creativo di quell'ambiente. Nei suoi quadri “meno ufficiali”, possiamo infatti andare a scoprire una leggerezza ed un'eleganza mirabili, miste a velati cenni di una certa qual malinconia sussurrata fra le righe. 

Si coglie evidente tutta la lezione degli impressionisti, in questi lavori di Gunn, unitamente alla freschezza d'impronta “Art-nouveau-Secessione-Liberty”, assorbita evidentemente in ugual misura. Notevole poi la sensibilità e la delicatezza infuse da Gunn, nel tratteggiare i lineamenti e le espressioni delle persone ritratte. In fondo, il più enigmatico ed impegnativo soggetto per gli artisti di tutte le epoche è sempre stato, e rimarrà sempre, il volto umano. E la maestria di Gunn in questo senso va riconosciuta pienamente.

Detto ciò, vi avrei raccontato già tutte le cose che sono in grado di dirvi su Sir Herbert James Gunn. Ma dal momento che ho in serbo ancora un pizzico di “vis narrativa” (da leggersi altresì: “ars frangendi maronorum”), mi scappa di arrotondare il ragionamento con alcune note, estemporanee ma non troppo. Aggiungerei infatti quello che a mio parere Sir Herbert James Gunn, come artista, tende a “non essere”, o perlomeno ad essere in tono ridotto.

Mi è capitato di leggere nei giorni scorsi due illuminanti, bellissime, frasi del celebre filosofo tedesco Theodor W. Adorno. Una, tratta dall'opera “Minima moralia – Meditazioni della vita offesa” (1951), riguarda propriamente l'arte, e dice: «...L'arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità...» (“Minima moralia” - Parte terza – par. 143, intitolato “In nuce”). 

Ecco, mi pare che il nostro ormai familiare discorso su “precursori” e “testimoni” trovi una sua specificazione felice proprio in questa adamantina sentenza di Adorno. Più un artista sperimenta, esplora il nuovo, indaga fra le pieghe della realtà, più si può affermare che vada ricercando un'ampia emancipazione dalla “menzogna” di dover imbrigliare una qualche “verità”, rinunciando a “conchiuderla” all'interno di un pacchetto di finitezze chiaramente delimitabili e circoscrivibili. 

Roberto Calasso, nel suo enigmaticissimo “La rovina di Kasch” (Adelphi, 1989), chiosa le parole di Adorno aggiungendo che «...l'arte è inafferrabile per costituzione...». Dunque, più un'opera è in grado di evocare, sfiorare asintoticamente, tale inafferrabilità, più si sarà avvicinata all'essenza intima del fare arte. 

L'altra stupenda affermazione di Adorno che riporto è tratta invece da un esaltante ciclo di sue lezioni (tenute fra il 1962 ed il '63 agli allievi dell'Università di Francoforte), raccolte in un pregevole volumetto dal titolo “Terminologia filosofica” (Einaudi, 2007). Qui si parla più propriamente di filosofia, ma queste parole sembrano la perfetta continuazione di quelle riportate sopra riguardo all'arte: «...ciò che soltanto importa in filosofia […] è appunto la paradossalità […] di dire con lo strumento del concetto ciò che con lo strumento del concetto a rigore non può essere detto, di dire ciò che è propriamente indicibile...» ( “Il concetto di filosofia”- Lezione n. 4 del 17 maggio 1962).

Insomma, per chiudere un po' il britannicheggiante cerchio odierno, mi pare di poter sostenere che Sir Herbert James Gunn era posizionato molto, ma molto più distante dal “dire l'indicibile”, di quanto non fosse magari un Picasso, tanto per fare il più eclatante esempio di un suo “collega”, praticamente contemporaneo.
Ma veniamo ora alla mia usuale indagine “facciosa”, alla ricerca di volti noti della modernità, da abbinare alla fisionomia ritratta nell'opera in questione. Devo fare due piccole premesse: una, è che nel caso della mia miglior somiglianza, ho barato spudoratamente (poi capirete in che senso), mentre con l'altro mini-preambolo vi avverto che la crisi di astinenza pasquale da indagini fisiognomiche, deve avermi dato un po' alla testa. Ne ho scovate infatti anche troppe, ma più che somiglianze, si tratta di candide speranze imbastite attorno a vaghe suggestioni mal campate in aria.

Si parte con la mia suprema mossa da gran baro fisiognomico:
 
 «...E grazie al cactus di Spike, fratello di Snoopy...», mi direte voi: questa non è altro che la fascinosa Helen Mirren, anche interprete della pellicola “The Queen” (2007), in cui ha vestito giusto giusto i panni di Elisabetta II, aggiudicandosi addirittura l'Oscar ed il “Golden Globe” come migliore attrice protagonista. Lo so, lo so...mi sia concessa almeno l'attenuante generica, per il fatto di essermi autodenunciato in anticipo.

Proseguiamo con le altre ipotesi, che tutte messe insieme non fanno una somiglianza degna, ma vi chiedo anche qui un minimo di comprensione per un povero “detective di volti” in preda alle allucinazioni da digiuno facciale:

In questo caso, ho voluto giocare un po' col paradosso: si tratta infatti di Indira Gandhi (1917-1984), altra grande donna del '900, primo ministro per alcuni anni proprio di quella vastissima porzione dell'ex Impero Britannico che fu il subcontinente indiano. La somiglianza, sempre ammesso che ci sia, è vaghissima, o forse sta solo nella mia immaginazione di voler mettere in parallelo due paia di occhi che hanno osservato, da diversi punti di vista, le sorti di milioni di persone.

E adesso briglia sciolta alla fantasia più spudorata:
Questa è la giornalista Barbara Alberti, la quale mi ha ispirato soprattutto per la sottigliezza del viso, ma diciamo che forse mi è piovuta fra i piedi "via Helen Mirren". E a seguire, ecco ecco un'altra giornalista:
 
Però televisiva stavolta, Maria Concetta Mattei, notissimo volto del Tg2.

Insomma, le mie somiglianze risultano per l'occasione un bel po' traballanti ed assai johnny-stecchinizzabili, ma almeno ho sfogato un po' la mia fame di comparazione fisiognomica. E adesso sono curiosissimo di andare a vedere quali stupefacenti sorprese ha tirato fuori Kika dal suo sempre sfavillante cilindro di maghetta artistico-modaiola.

sabato 19 aprile 2014

Buona Pas…qui, quo, qua!


Allora: «...Pasqua bagnata, Pasqua fortunata...». Spetta spetta, no no, un momento che ci penso: «...Moglie coi tuoi, buoi con chi vuoi...». Ma non era neanche così, uffa....«...Chi Pasqua da sé,  Pasqua per tre?...»...bah...niente, ci rinuncio...

Ad ogni modo, ci è mancato un pelo che quasi mi scordavo («...Meglio un pelo oggi, che una gallina domani?...»...lasciamo stare, va...). Per gli auguri, dico. Mi erano quasi passati di mente.

Questo vecchio blog rattoppato continua a rimanere in piedi, nonostante tutto. Da una rapida verifica sommaria, mi sono reso conto di aver messo qui sopra, ormai più di 600 scribacchiate di varia natura. Ci sono certe volte che vengo colto da un'idea. Mi sembra degna di esser tradotta nero su bianco, ma poi, due secondi dopo, un dubbio atroce mi assale: «...Non è che di questa cosa ho già parlato in un qualche vecchio articoletto del blog, vero?...» (esempio lampante: il giochetto di parole di “qui, quo, qua” l'avevo usato giusto qualche giorno addietro, ma sul momento non mi è venuto un titolo migliore...).

A tratti ho come l'impressione di aver scritto ormai tutto quello che sapevo, ogni cosa che potevo scrivere. Il che potrebbe avere anche i suoi lati positivi. Pensate alla comodità di aver tutta la propria conoscenza impacchettata in un blog. Basta, con la fatica di andare a rievocare, ricordare, rivangare. Quando qualcuno mi chiede una cosa, mi basterebbe rispondere: «...Boh, prova a fare una ricerca con google digitando “Andarperpensieri” più l'argomento: se trovi qualcosa, è tutto quello che so, se non ti dà risultati, non ne so proprio nulla...».

Oppure mi succede di sentire in giro parlare di qualche questione, e subito mi si illumina la lampadina: «...Ma di questa cosa, nel blog io ho già parlato!...». Andarperpensieri sta diventando insomma un piacevole fardello sempre più difficile da rimpinzare, un moloch affamato di novità, che tuttavia io stento sempre più ad andare a scovare.

Detto tutto quanto avevo da dire, come naturale conseguenza ne deriverebbe una chiusura di baracca in grande stile. Ma cosa volete mai...ci sono affezionato, a questo mio spazio di vaccate lievi, e anche se in varie occasioni rischierò sempre più di fare la figura del vecchio rintronato che ripete cose già dette, ci sto ancora a correre il rischio.

Tra l'altro, la recente, bella collaborazione con Kika ha portato una nuova ventata di energia a questo mio regno narrativo un po' asfittico, ed anche questo è un piacevole sprone a continuare. Le statistiche mi confermano poi che un piccolo stuolo di fedeli viandanti per pensieri si mantiene costante nel tempo (sempre che non si tratti di un commesso viaggiatore, collegato di tanto in tanto dalle varie parti d'Italia in cui si reca a presentare i suoi prodotti...). 

Certo, il mio argomentare è spesso minimale e quisquilieggiante. Tratto di preferenza tematiche di nicchia. Spesso e volentieri, anche di minchia. Per fondare un movimento politico, mi manca ancora giusto giusto quella milionata di contatti giornalieri. Ma l'importante è tenere viva la curiosità, rincorrere la bellezza narrativa, linfa inesauribile nei cuori di chi ama raccontare e sentire raccontare. 

E' per questo che mi sento ancora una volta di dire: tanti auguri di Buona Pasqua, cari amici viandanti per pensieri. Oppure, auguri esclusivi a te, solingo visitatore commesso viaggiatore: fosse anche solo per tua privata lettura, sarà sempre un piacere scrivere.

venerdì 11 aprile 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Tatsumi Shimura (1907-1980)

Oggi Kika ci porta a fare un lungo viaggio in un paese lontano dal punto di vista geografico, ma forse ancor più distante da noi per quanto riguarda la cultura e le tradizioni. Ci caliamo infatti nel fascino e nel “mistero” dell'arte Giapponese, con un'opera realizzata nel 1953 da Tatsumi Shimura (1907-1980) e intitolata “Hanafubuki” o “Falling cherry blossom” (letteralmente “Fiori di ciliegio cadenti”).

Parlare dell'arte giapponese vuol dire affacciarsi su di un “altro” universo intero. Le cose da dire sarebbero infinite e richiederebbero conoscenze troppo vaste, in proporzione alle mie modeste possibilità di tuttologo della domenica. Mi limiterò dunque ad esporre alcune considerazioni personali, impressioni varie che mi sono fatto nel tempo, sleggiucchiando qua e là cose riguardanti questa ammaliante cultura.

Innanzitutto, la prima, banalissima sensazione: ogni volta che mi capita di osservare un prodotto dell'arte figurativa di una cultura diversa dalla nostra, mi sembra quasi di respirare una boccata d'aria pulita. Mi prende dentro un senso di leggerezza, un sapore di libertà insita nel fatto di poter spaziare con lo sguardo su nuovi orizzonti, su prospettive inedite. Questo effetto, l'arte giapponese lo sa rendere in modo particolarmente intenso. 

Non che all'arte “occidentale” non si voglia bene. Anzi. Ma succede con l'arte un po' la stessa cosa che capita nelle relazioni fra umani. Per quanto l'amato voglia bene all'amata ed aspiri a passare con lei più tempo possibile, adorerà nella stessa misura anche quel paio di orette d'interregno trascorse al bar con gli amici a parlare di calcio e Formula Uno. Per quanto l'amata straveda per l'amato, si gusterà con non minore soddisfazione la vitalità e lo sfavillio di quattro chiacchiere dalla parrucchiera con le amiche.

Cambiare il punto di vista da cui si osserva il mondo: è forse questa la più importante linfa che nutre il desiderio di ciascuno di espandere animo, conoscenza e curiosità. Sì, non mi sono sbagliato, non ho buttato lì a caso una forzatura semantica, volevo proprio scrivere quello: “espansione della propria curiosità”. Ossia mantenere sempre attiva la percezione dinamica di essere continuamente intenti ad alimentare la proprio aspirazione verso il “nuovo”, verso ciò che è “altro”. In questo consiste, per ampia parte, il fatto di sentirsi vivi.

Tenendo presenti queste riflessioni per il momento un po' fumose, facciamo ora un salto nella seconda metà dell'Ottocento, dalle parti di Parigi e dintorni, affidandoci alle parole riportate da Sir Ernst Gombrich nella sua pregevole “Storia dell'arte” (Phaidon Press Limited, Londra, 2009 – pagg. 525-526):

«...Il secondo alleato degli impressionisti [oltre alla fotografia], nella loro avventurosa ricerca di motivi nuovi e di nuovi schemi cromatici, furono le stampe colorate giapponesi. L'arte giapponese si era sviluppata sul ceppo di quella cinese, proseguendo sulla stessa falsariga per circa un millennio. Nel Settecento, però, forse sotto l'influsso di stampe europee, gli artisti giapponesi avevano abbandonato i motivi tradizionali dell'arte dell'Estremo Oriente, scegliendo scene della vita del popolo a soggetto delle loro xilografie colorate, di ardita fantasia e di impeccabile perfezione tecnica. Gli intenditori giapponesi non stimavano molto questi prodotti a buon mercato e preferivano l'austera maniera tradizionale. Quando il Giappone fu costretto, alla metà dell'Ottocento, a stabilire relazioni commerciali con l'Europa e l'America, queste stampe furono spesso usate come carta da imballaggio e si trovavano a basso prezzo nelle rivendite di tè. Gli artisti della cerchia di Manet furono i primi ad apprezzarne la bellezza, facendone avidamente collezione. In esse trovavano una tradizione non corrotta dalle regole accademiche e dai cliché da cui i pittori francesi anelavano liberarsi. Le stampe giapponesi li aiutarono a rendersi conto di quel peso di tradizioni europee da cui erano ancora inconsapevolmente aduggiati. I giapponesi si compiacevano di tutti gli aspetti inconsueti del mondo. Il loro maestro Hokusai (1760- 1849) rappresentava il Fujiyama visto a caso dietro una cisterna; Utamaro (1753-1806) non esitava a mostrare certe sue figure ritagliate dal margine di una stampa o di una cortina di bambù. Gli impressionisti furono davvero colpiti da questa ardita elusione di una regola così elementare della pittura europea, nella quale essi vedevano l'ultimo rifugio della vecchia supremazia della conoscenza sulla visione. Perché un quadro avrebbe sempre dovuto mostrare una figura intera o almeno la parte rilevante di una figura?….».
"Ancient Pontoon Bridge at Sano Kozuke Province" (1833-34) - Hokusai Katsushika

Il “modo occidentale” di fare arte si poneva dinnanzi agli impressionisti come il grande termine di paragone ineludibile: nel medesimo tempo un fardello che incuteva timore, ed un baluardo da oltrepassare. L'arte occidentale è nella sua essenza attraversata da due profonde direttrici: una temporale ed una spaziale. Temporalmente, ogni artista “occidentale” che intenda essere tale, è chiamato ad inserirsi in un “discorso” secolare, nel punto di sviluppo di un “linguaggio” codificato nel tempo da altri grandissimi predecessori. Spazialmente, il “modo occidentale” di fare arte, nel suo trasferire porzioni di realtà all'interno del perimetro ideale dell'opera, ha sempre privilegiato la resa di un territorio mentale contraddistinto da variazioni di potenziale delle quantità di «essere» rappresentato.

Mi spiego meglio con un esempio banalissimo. Prendiamo un ipotetico dipinto rinascimentale di un paesaggio con figure sparse qua e là, alberi, un ruscello, pastori, donzellette agresti, pecorelle e così via: “occidentalmente” leggendo questo dipinto, percepiremo una maggiore “concentrazione di essere” laddove si delinea la figura umana, quella di un pastore, ad esempio, o di una donzella. L'«essere» sarà invece più “diluito” dalle parti delle pecorelle, ed ancor più “annacquato” nel punto dove si staglia un albero, oppure il cielo, ecc.

L'apertura dello sguardo sulla realtà dell'arte orientale, dovette provocare sugli impressionisti un effetto liberatorio indicibile: qualcuno stava dicendo loro che da quel fardello spazio-temporale ci si poteva anche affrancare. In un dipinto o in un'opera grafica giapponese, non c'è “differenziale di essere”: la realtà è abbracciata come “tutta degna” al medesimo grado, in una continuità del “tutto” scevra da secoli di centralità della figura umana inculcata nel nostro modo di vedere il mondo dalla lunghissima tradizione, per l'appunto, “umanistica”, che contraddistingue la cultura occidentale. Per questo nella figuratività giapponese ha uguale dignità rappresentativa un petalo di ciliegio, o ogni singolo pelo della pelliccia di un lupo (visto coi miei occhi nel 2010, ad una bellissima mostra al Palazzo Reale di Milano: “Giappone - Potere e splendore 1568-1868”), rispetto alla figura umana, e tutti questi elementi vengono ritratti con la medesima, meticolosa e rispettosa “adesione spirituale”.

L'autore proposto da Kika è stato attivo in un periodo relativamente recente, se rapportato alla secolare storia artistica del Giappone. Ma il suo fare espressivo si pone nella scia della tradizione figurativa nipponica, e tutto il discorso fatto, può a mio parere calzare abbastanza bene. Forse proprio perché assai diverso è il modo di guardare dei giapponesi al “fardello” della loro tradizione, ed in generale, come assunto filosofico-esistenziale di fondo, è da loro molto fortemente perseguita la consapevolezza di vivere intensamente e completamente l'«adesso».

A tal proposito, termino questa mia serie di suggestioni sparse con un'altra citazione che a mio parere, pur non parlando direttamente d'arte, coglie benissimo lo spirito artistico del paese del Sol Levante:

«...Anche se non fate niente, possedete la qualità dello zazen in ogni momento. Ma se cercate di trovarla, non possedete alcuna qualità. Non abbiamo alcuna finalità. Ma una via c’è. La via di praticare senza alcuna meta, ossia concentrarsi su ciò che si sta facendo nel momento presente. Una sola è la via. Il panorama che vediamo dal finestrino del treno cambierà, ma i binari su cui corriamo sono sempre uguali. E i binari non hanno né inizio né fine. Non esiste un punto di partenza né una meta da raggiungere. La nostra via è correre semplicemente sui binari e basta. Ma quando sorge in voi la curiosità per i binari sorge il pericolo. Limitatevi ad apprezzare la vista che si gode dal finestrino del treno. Non c’è alcun segreto. La natura di ognuno è sempre la stessa, come i binari...» E' un brano tratto da :“Mente Zen - Mente di Principiante - Conversazioni sulla meditazione e la pratica Zen” (1978) di Shunryu Suzuki-Roshi, un bellissimo libro che mi segnalò qualche tempo fa la cara amica Farly .

Ed eccoci alla parte che compete al “Gillipixel detective” di tratti femminei. Trattandosi stavolta di una figura dai tratti tipicamente orientali, sarebbe stato logico cercare un “alter-ego fisiognomico” fra i personaggi famosi attuali del mondo asiatico. Invece no: mi è sembrato più interessante (e divertente) rimanere nello spirito del gioco proposto da Kika per quanto riguarda la sua ricerca comparata fra moda e pittura: le somiglianze ricercate non hanno mai intenzioni “fotocopiative”, bensì mirano a proporre una “suggestione interpretativa”.

Ecco allora la più sbalorditiva sorpresa scaturita dalle mie indagini: il volto che a me è parso più calzante deriva dal profondo della napoletanità più verace e simpatica:
L'avrete riconosciuta: Marisa Laurito, divertente compagnona di mille follie arboriane. Tra l'altro, questa curiosa comparazione, mi ha fatto tornare alla mente un vecchio film di Totò, “Un turco napoletano”, che nella fattispecie potrebbe essere rivisitato in “Una nippo-napoletana”.

La seconda somiglianza che mi son divertito a scovare ha forse meno “efficacia diretta”, ma non è priva di una sua forza evocativa, in particolar modo in virtù delle fattezze degli occhi:
Anche questo è un volto notissimo: Serena Dandini, arguta e brillante conduttrice di numerosi show satirici televisivi.

Ho poi trovato un'ultima similitudine, forse un po' stiracchiata, ma ve la propongo ugualmente, così, per condividere con voi il divertimento gustato nella ricerca:
Abbiamo in questo caso un altrettanto famosa giornalista televisiva: Cesara Buonamici, da anni il volto serale del TG5.

Si conclude così anche questa puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”. E adesso son proprio curioso di vedere cosa ha escogitato la sempre fantasiosa Kika sul suo blog, per quel che riguarda  le curiosità in fatto di arte e moda, nipponicamente declinate.




martedì 8 aprile 2014

Ragazzi speziati

Esser considerati ingenui, stupidotti, creduloni, menti candide che si lasciano abbindolare con facilità, bambinoni mal cresciuti: in linea di massima, sono tutte classificazioni non molto ambite, né lusinghiere. Per nessuno. Ma quando giudizi di quel tipo vengono appioppati da gente superficiale, intrisa di stereotipi, resa apatica dall'ottundimento mentale, gente dall'animo piatto e monotono, priva di fantasia, incasellata passivamente in un ruolo sociale asfittico e non più negoziabile...beh, siamo sicuri che quelle definizioni denigranti non si trasformino allora in onorificenze di cui andare orgogliosi?

Con in testa più o meno un pensiero inconscio di questo tipo, insieme al gruppo storico dei miei amici, andai a vedere a suo tempo il film delle “Spice Girls”, all'epoca dell'uscita nei cinema (doveva essere il 1997, come passa il tempo quando ci si diverte...). Anche se non ce lo siamo mai detti a chiare parole, credo che nella sostanza volessimo conoscere l'ebbrezza di venir reputati dei coglionazzi da una platea di lobotomizzati. Oppure non lo so nemmeno io il motivo, perché alla fine si trattava solo di qualche decina di ragazzini, coi loro genitori. 

Ci dev'esser stato sotto allora un movente ancor più profondo ed oscuro. Volevamo sapere cosa si provava ad infrangere il muro del suono della svendita cerebrale a prezzo stracciato, come ci si sentiva ad immolarsi sull'altare della vacuità assoluta, senza opporre alcuna resistenza. Non miravamo dunque tanto al giudizio di quei ragazzini: la nostra ambita preda si celava piuttosto nel verdetto della società intera. Era come se, ciascuno di noi, nel proprio intimo pensasse: «...Ecco a voi, profeti del marketing, soloni dello show-business, sacerdoti tutti del gran rimbecillimento ecumenico: questo è il mio cervello, fatene quello che volete, ormai è bollito a puntino e pronto a tutto, può bersi il “Grande fratello”, “Studio Aperto” e “La Talpa” senza fare una piega, può tollerare 72 ore filate di televendita di materassi, pentole, set di coltelli e kit del perfetto ludopatico...».

Eppure non si trattò nemmeno di questo. Forse fu soltanto che volevamo passare una serata di sana imbecillità goliardica fra di noi. Un mio caro professore di italiano ci raccontava che da giovane era solito praticare una simile “operazione” con la sua compagnia di amici. Loro obiettivo erano i mitologici film-polpettone anni '60, pellicole tipo “Maciste contro la burocrazia” o “Le dodici fatiche fiscali di Ercole”. Il mio prof. e la sua banda si mettevano allora in posizione strategica, in una fila di poltrone giusto davanti ad un gruppetto di ragazzini, e mentre sullo schermo passavano in rassegna le nerborute imprese dell'eroico energumeno di turno, ne osannavano le prodezze, stupendosi iperbolicamente nel vederlo far volare massi di cartapesta. Il bello stava poi nell'ascoltare i commenti sussurrati alle spalle dai piccoli spettatori basiti, che non potevano credere alle loro orecchie, nel sentire simili tontoloni così clamorosamente ingenui. 

Tornando alla mia avventura: il cinema dove si proiettavano le gesta delle ragazze speziate, un tempo dignitoso spazio anche teatrale dell'epoca pre-multiplex, era uno di quelli ormai scaduto al rango di mezza tacca dell'intrattenimento, incastonato nella prima periferia cittadina, ai contorni della ferrovia. Atmosfera di decadenza quanto basta, la sala trasudava aria di imminente chiusura da tutti i pori dei pannelli del contro-soffitto (infatti qualche mese dopo chiuse davvero i battenti, per lasciare mestamente posto ad un mini-centro commerciale di quartiere).

I momenti di gloria della serata furono fondamentalmente tre: il nostro trionfale ingresso in sala, la pausa dell'intervallo e l'allucinata uscita di scena. La composizione del pubblico era esattamente quella attesa ed auspicata: bambinette e ragazzini più o meno in età da scuola media, con rispettivi papà e mamma. Molti posti vuoti in platea, a rendere ancor più di classe lo squallore diffuso. Entriamo noi: quattro vitelloni mal assortiti e perdisera, che in quel contesto devono aver provocato un discreto “effetto Larsen” socio-comico alquanto straniante. Abbiamo scelto la fila di poltrone di mezzo, quella con lo spazio davanti a dividere in due la sala: se questa cosa andava fatta, dovevamo dare il meglio di noi, nella visibilità massima.

Inizia il film. Non era né migliore, né peggiore di tanta robaccia che si vede alla tele. Ma la vera magia consisteva pur sempre nella nostra assurda presenza in quel luogo. Alla fine del primo tempo, le luci si accendono e sui volti del giovane pubblico non si nota tutto quel gran divertimento. Noi ostentiamo sempre con gusto la nostra presenza stonata, mentre alle spalle si leva una timida vocina della verità, che sussurra al papà: «...mah...non è molto bello...». Grugnito inclassificabile di risposta da parte dell'attonito genitore. 

Abbiamo allora capito che la nostra serata “decontestuale” si stava compiendo al meglio, di modo che il secondo tempo è scivolato via sulle ali dell'ebrezza di questa intima constatazione. Sui titoli di coda, abbiamo poi fatto la sfilata conclusiva fra le poltrone, fra gli sguardi remoti di diversi altri spettatori ancora seduti per riprendersi dalla gran botta morale incassata con la visione di quel capolavoro.

Son sicuro che fu soltanto perché non ne sentirono parlare. Ma ci scommetto che se a Marina Abramovich, oppure a Yoko Ono, o a Vanessa Beecroft, fosse giunta voce di quella lontana performance, sarebbero state fiere di noi.


domenica 6 aprile 2014

Bombomania

Gli amici viandanti per pensieri più longevi sanno che questo blog è particolarmente affezionato ai gatti in prima istanza, ma apprezza tantissimo anche i bombi. L'accostamento potrà sembrare strano, e in effetti lo è. Volendo cercare alcune affinità fra questi due rappresentanti del mondo animale, in misura gillipixianamente stiracchiata si possono anche trovare. I bombi, come i gatti, hanno la pelliccia. Non fanno le fusa, ma ronzano, e secondo me lo fanno anche un po' di beatitudine gattesca, quando s'immergono con golosità nel calice di un fiore a lappare polline a quattro palmenti. Inoltre si sa che i gatti graffiano e i bombi invece pungono, ma entrambi lo fanno se vengono infastiditi. Infine i bombi,  facendo eccezione nel generale regno di tutto il cuginame di api ed affini, come i gatti sono dei solitari.

Soprattutto però, la caratteristica che più accomuna gatti e bombi, per me è la seguente: starei a guardarli per dei quarti d'ora filati e non mi stancherei mai. Dico quarti d'ora, perché poi si hanno anche altre cose da fare, ma se istituissero l'albo professionale degli “Osservatori di gatti e bombi” (Os.Ga.Bo.), sarei il primo ad iscrivermi. Certo, ammirare un gatto è molto più facile. Proprio per questo dunque, quando capita l'occasione di osservare un bombo in azione, cerco di approfittarne e magari di cogliere qualche scatto fotografico.

Di bombi avevo già parlato qui, avevo scritto quo, ed avevo cianciato qua

Viste le difficoltà di ripresa del soggetto, che zonza a destra e a manca in giubilante alternanza di immersioni fra petali e pistilli, ogni volta carico il teleobiettivo in modalità macro, e mi metto a tirare raffiche di scatti, nella speranza di coglierne alcuni significativi. Poi me li riguardo con calma, e fra le decine di fotogrammi portati a casa, scelgo i più belli, che messi nella sequenza giusta, mi paiono andare a formare una sorta di sceneggiatura muta, o meglio, ronzante. In questo caso, il titolo che darei a quest'opera filmica statica, è “Doppia bombata e fuga”.

Fase di meditazione in relax

Nitore e meraviglia

Grassa goduria a molla 

Politica della distensione

Estasi statica

«...Ehehehehehehe....»

All'ombra-dei-bomb'in-fiore

In genuflettente adorazione

...rincorsa...

...ed affondo!

L'abbraccio pendulo

Il dandy dei cieli...

«...Gnéééééé...HE-HE-HE-HE-HE-HE!!!....»



venerdì 4 aprile 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Edvard Munch (1863-1944)


Ancora un autore di altissimo livello scelto da Kika nel suo appuntamento del venerdì con la rubrica “Moda & pittura”, che a mia volta prendo in consegna e declino nell'odierna puntata gemella di “Le muse di Kika van per pensieri”. Parliamo dunque oggi di un'opera di Edvard Munch (Løten, 12 dicembre 1863 – Oslo, 23 gennaio 1944), il grande cantore nordico dell'inquietudine. Il quadro in questione è del 1904 e s'intitola “Ragazza sotto il melo”, o per essere più precisi, dal momento che questa tela è conservata al “Carnegie Museum of Art” di Pittsburgh (Pennsylvania, USA), è preferibile citarlo nella denominazione con la quale è più noto, quella in inglese: “Girl under the apple tree” (è sempre sotto questo nome che più facilmente si trovano anche indizi sul web). Per completare i “dati anagrafici”, aggiungo le dimensioni: 110x100 cm. 

Munch va senz'altro annoverato fra gli artisti che hanno lasciato un'impronta fondamentale nel lungo cammino della storia dell'arte. Difficile di volta in volta comprendere quali siano i meccanismi secondo i quali uno “stimolo estetico” viene recepito, compreso, assimilato. Sta di fatto che il dipinto più celebre di Munch, “L'urlo” (anche noto come “Il grido”, realizzato in diverse versioni, delle quali forse la più nota è quella del 1893), ha raggiunto livelli di notorietà tali da divenire familiare anche al grande pubblico, assumendo negli ultimi anni addirittura la vastità evocativa di un'icona pop (non è difficile trovarlo in qualche modo citato o rivisitato sopra t-shirt e gadget vari, nelle pubblicità, nei film, e così via).


Stereotipando un po' tutto il discorso, si potrebbe parlare di Munch come del “poeta norvegese dell'angoscia”, fra gli iniziatori dell'Espressionismo. In realtà, così come accade sempre quando ci si trova di fronte ad artisti grandissimi, risulta sempre difficile costringerli dentro catalogazioni, correnti e scuole (anche se la “tipizzazione” rimane pur sempre uno strumento indispensabile ai fini della chiarezza espositiva). 

Così, anche nel caso di Munch, ricchissimo è il panorama di fonti da chiamare in causa riguardo al retroterra culturale che ne ha alimentato l'opera. La sua ricerca artistica risente da una parte dell'esistenzialismo di Kirkegard, mentre per altri versi assorbe la lezione del teatro “sociale” di Ibsen (per i cui drammi Munch disegnò manifesti e scene) e Strindberg (conosciuto anche di persona a Berlino). Dal punto di vista delle soluzioni espressive, molto importanti per Munch furono le influenze degli Impressionisti (in particolare Manet, Toulouse-Lautrec e Degas), le cui opere poté conoscere in occasione di diversi viaggi a Parigi, nonché di Van Gogh e Gauguin.

Munch tuttavia va oltre il discorso Impressionista, non accontentandosi di assumere la percezione come membrana sopra la quale si gioca l'interscambio per osmosi fra coscienza e realtà. A Munch interessa affermare innanzitutto l'instabilità perenne del reale, constatazione fondamentale derivata per ciascun individuo dall'evidenza del dato esistenziale. Se niente è stabile, ma tutto è invece in permanente divenire, non ha senso nemmeno parlare di una “forma significativa” della realtà. Il pittore allora, con la sua opera, non fa altro che inseguire incessantemente l'inafferrabile, cercando di tradurre in “simboli” l'incontenibilità della vita che sempre scorre. Ecco dunque che in questo senso l'angoscia del vivere trova il suo coerente ed “onesto” corrispettivo nell'angoscia del fare arte. E se una forma definita e conchiusa della realtà rimane inattingibile e sfuggente, al pittore non resta che esprimersi per “simboli”, unica forma comunicativa a disposizione, pur nella sua limitatezza e velata “impotenza”.

Scrive Giulio Carlo Argan: «...Il fatto veramente importante [in Munch] non è la descrizione, indubbiamente acuta di una situazione psicologica; è la concezione nuovissima del valore, della funzione del simbolo...[...]. Il simbolo non è qualcosa oltre la realtà; è qualcosa di morto che si mescola alla vita...[...]. Ai vari simbolismi del tempo...[...]...Munch risponde che non ci si salva evadendo nel simbolo; la realtà è tutta simbolica, nulla è più reale del simbolo...[...]. Nulla, nella realtà, ha la stabilità, la chiarezza, il significato certo della forma, tutto ha la precarietà, l'instabilità, l'inconsistenza dell'evento. O dell'immagine...[...]. [in Munch] la straordinaria fluidità delle linee, la scorrevolezza del segno, la mancanza di partiti contrastanti d'ombra e di luce, di colori forti: tutto, anche le minime note grafiche o coloristiche, alludono alla continuità del tempo, al trascorrere della vita, all'inarrestabilità del destino. Ma proprio perché l'immagine è piena di simboli inespressi, è inquietante, aggressiva, pericolosa..[...]...L'immagine non deve tanto impressionare l'occhio, quanto penetrare, colpire nel profondo...».

Di Munch, ebbi modo di vedere una mostra piuttosto completa, organizzata nelle sale del Palazzo Reale di Milano, ormai parecchi anni fa. Così, come aneddoto estemporaneo, mi sembra curioso ricordare che in quella occasione rimasi impressionato non poco da un certo dettaglio. Alcuni dei quadri esposti, recavano come titolo (o sottotitolo, ora non ricordo con precisione), una frase del tipo: «...dipinto verso le 4 e 30 del mattino, mentre non riuscivo a dormire...». Non so come mai, ma questo particolare mi fece entrare molto in sintonia con Munch, stimolando ulteriormente la mia curiosità riguardo alla sua opera (non che io solitamente fatichi a dormire la notte...non era questo, era qualcosa di molto più indefinito ed impalpabile).

Ed ora, dopo aver calcato forse un po' troppo la mano in fatto di para-filosofoneggiamenti critici, alleggeriamo un po' il discorso con la parte fondamentale di questa rubrichetta, ossia l'indagine fisiognomica comparata sul personaggio del quadro odierno. Per l'occasione, l'indefinitezza dei tratti del volto della ragazza sotto il melo, un po' ha rappresentato un vantaggio, ed un po' anche un ostacolo. In un certo senso, la ricerca è risultata più facile (non essendoci distinzione netta, questo volto può assomigliare a tutte e a nessuna), ma anche più insidiosa (il rischio è appunto quello di andare a parare verso nessun risultato). Ad ogni modo, ecco cosa son riuscito a combinare oggi.

Ogni volta che mi cimento con questa ricerca di un volto noto femminile della modernità da accostare a quello di un dipinto, saltano fuori sorprese inedite. Anche in questo caso la regola non è stata smentita. In questo senso: le somiglianze che ho scovato sono due, ma la prima, pur somigliando forse di più per quel che riguarda i tratti somatici veri e propri, è un po' un controsenso dal punto di vista del personaggio. E capirete subito il perché, non appena vi svelo di chi si tratta:
 
 
Proprio così, è la bravissima ed ultra-eclettica Paola Cortellesi. Come già anticipavo, stride un po' e risulta alquanto buffo l'accostamento fra un quadro di Munch ed una donna che per mestiere si è scelta la missione di far ridere la gente. Ma alla fine, trovo che la cosa risulti a suo modo simpatica.

Per la seconda somiglianza invece, il discorso si ribalta: qui, se le fattezze sono probabilmente meno azzeccate, c'è tuttavia più coerenza col personaggio:
 
 
Questa è la tenebrosa e misteriosa attrice americana Cristina Ricci, che personalmente ricordo nella magistrale interpretazione di una tremenda e contorta adolescente nel film di Ang Lee «Tempesta di ghiaccio» (1997).

Questo gioco delle somiglianze insomma, funziona un po' così: sono importanti i tratti fisici effettivi, ma una componente notevole può essere anche fornita dall'idea che nel nostro immaginario abbiamo della personalità di una certa donna famosa.

Anche per oggi allora è tutto. Prima di salutarvi, vi rinnovo l'invito ad andare a vedere le sorprese escogitate da Kika sul suo blog, per quanto riguarda l'aspetto dell'abbigliamento della ragazza sotto il melo. E poi aggiungo un'ultima cosetta. E' noto il mio solito vezzo di concludere ogni articoletto con il video di una canzone. Molte volte lo faccio in piena libertà, senza badare troppo all'attinenza fra canzone proposta e contenuti del mio scritto. Per questa volta, riesco però a fare un'eccezione. Mi è capitato di vedere proprio in questi giorni un bel film, «This must be the place», diretto dal neo-oscarato Paolo Sorrentino. A suo modo è un film “munchiano” e nella colonna sonora compare una canzone che mi ha colpito, «Lay & love», e che trovo allo stesso modo dolcemente e languidamente “munchiana”: per questo ve la propongo. Eccezionale anche il nome della band che la esegue, «The pieces of shit»: si potrà parlare anche in questo caso di velato simbolismo?

Udite, udite, aggiornamento dell'ultima ora!!! Ecco un'efficacissima somiglianza aggiuntiva, suggerita da Kika:
E' la politica Giorgia Meloni. La trovo molto azzeccata, brava Kika!!!