domenica 30 novembre 2008

Flessibile e precario?

Credevo di essere pigro, un tipo malinconico pure. Autoironico? Sì, anche quello, un po' sì. Uno che ha delle curiosità, ma senza esagerare.
E se c'è uno che ha sempre portato avanti un programma rigoroso per coltivare una sana asocialità, quello sono io, ma allora, com'è che, per dirla con Giovannino Guareschi, pur non essendomi mai pentito di aver fatto domani le cose che potevo fare oggi, mi sono ritrovato classificato fra i portatori di idee flessibili e precarie?
Dovrò impegnarmi di più a seminare il supremo "credo del dubbio" se vorrò guadagnarmi l'ambito passaggio alla lista di destra...

sabato 29 novembre 2008

La vita vale la pena di essere scritta

(Foto di Gillipixel)

"...mi sono chiesto se non è solo per leggerezza che, finora, ho ripercorso gli avvenimenti della mia vita nell'ordine in cui sono accaduti, sì, quasi con la precisione di un cronometro. Non mi ero forse detto che la sola vita che si possa davvero definire mia, era quella che mi turbinava in testa a seconda di come soffiava il vento dei ricordi?...[...]...Come diavolo è andata a finire così, mi chiedo? E forse comincio a capire che la mia seconda vita, ingovernabile come una tempesta con i suoi lampi di ricordi, non può essere scritta. E neppure è più vera dell'altra, quella che inizia con la mia nascita o quel che si vuole, perchè tutte e due, alla fin fine, non esistono che nella mia testa. Per quel che riguarda la verità di entrambe, quindi, sono ugualmente in alto mare. Chissà se Defoe mi avrebbe potuto aiutare in proposito, lui che scriveva per evitare di vivere?..."


"La vera storia del pirata Long John Silver"
-
Bjorn Larsson (1995)


Un aspetto della malia dello scrivere (questo, attribuito a Daniel Defoe dal vecchio Long John Silver) che è componente necessaria (anche se non sufficiente) dell'animo di tutti gli amanti di questa forma di comunicazione. Anche per l'autore più impegnato, per quello che affronta i temi di più stretta attualità, di carattere sociale, o politico, sapere che la scrittura può portare momentanemante fuori dal flusso della vita, può far immergere in una distillata e distaccata dimensione consolatoria, è forse il movente che più di ogni altro spinge a mettersi lì con una penna in mano o a pigiare i tasti del pc.
Da questo deriva un fatto paradossale: anche il più disimpegnato degli autori, il più codardo fuggiasco narrativo che sceglie la scrittura proprio per la sua dimensione di distacco dalla vita vissuta, è capace di cogliere ed evidenziare tratti preziosi nella descrizione della vita, e mettersi così facendo "a servizio della vita stessa".
In questo senso, anche per la scrittura, vale un discorso analogo a quello fatto spesso riguardo alla musica, per la quale le distinzioni di genere (rock, classica, pop, ecc.) hanno più una validità cronologica che non di merito: la distinzione fra scrittura impegnata e scrittura disimpegnata ha infatti valore forse puramente classificatorio. La vera distinzione, come per la musica, è fra buona e cattiva scrittura.
La buona scrittura sa cogliere la quintessenza del vivere e ci aiuta, per quanto di sua competenza, a misurare continuamente il grado di validità dell'espressione "la vita vale la pena di essere vissuta".

giovedì 27 novembre 2008

Audio ergo sum

(Foto di Gillipixel)

Ascoltare mi è sempre piaciuto molto.
Non che voglia vantare una sensibilità fuori dal comune, oppure una particolare capacità di nutrire empatia in speciale misura verso gli altri. Chissà, fra le cause ci sarà sicuramente il mix esplosivo di timidezza e pigrizia che mi correda l’animo sin dalla tenera età. Fatto sta che ho sempre trovato molto più affascinante l’ascolto rispetto al pronunciarmi, rispetto ai momenti in cui si è chiamati a parlare.
Una radice storica di questa cosa credo di poterla individuare. Dev’esser stato per via del crocchio.
Nell’aia della Casa Vecchia, quando ero bambino, era un appuntamento fisso di quasi ogni serata dal clima gradevole, dalla tarda primavera fino alle soglie dell’autunno. Diverse donne, e anche qualche uomo più incline alla loquela, si sedevano in circolo e stavano lì a chiacchierare senza meta. Sembrava quasi un rito celebrato nel nome dell’enigmatica piacevolezza dell’Inutile, anticamera e preludio dell’altrettanto grande mistero del sonno.
Noi bimbi potevamo intrufolarci solo ai margini. Sia fisici che discorsivi. In un’atmosfera quasi “alberodeglizoccoliana”, non era previsto che i piccoli intervenissero più di tanto. Poi, i pochi miei coetanei presenti si rompevano presto le scatole e toglievano il disturbo, soprattutto il proprio, preferendo magari un giretto in bici. Io invece mi sentivo affascinato da quel microcosmo linguistico ancestrale, anche se all’epoca ovviamente non avevo la più pallida idea che si potesse chiamare così, e rimanevo tutto il tempo, fino all’ora di andare a letto.
La Casa Vecchia era un piccolo quartiere in miniatura. Quattro fette di casa affiancate per ospitare modi di vita piombati sostanzialmente simili dal Medioevo sino ai tempi della mia infanzia. Il “bagno” fuori, il “fuoco a letto” d’inverno, la luce coi fili a vista, come venature cresciute sopra la pelle dei muri, il pollaio “coccodiante”, le gabbie dei conigli, fonte di tenerezza in pelliccia.
Era il tempo che le lucciole cominciavano già ad “impasolinirsi”, ma se ne potevano vedere ancora in discreti sciami, grattarsi le pance radenti sopra i baffetti delle spighe di grano. Di grilli invece ce ne son sempre stati a volontà: le chiacchiere delle donne si impastavano lente con il loro cri-cri di sottofondo senza sosta.
Le donne parlavano rigorosamente in dialetto. L’italiano era una sorta di idioma inferiore per damerini pallidi, incapace di rendere con efficacia la coloritura di certi fatti meritevoli di essere condivisi col racconto. Ancora oggi, le volte che mi scappa un’espressione dettata dalla spontaneità, di primo acchito mi viene da spiattellarla in dialetto.
Anche se in seguito ho imparato ad apprezzare la lingua di Dante e Manzoni nel pieno fulgore della sua bellezza, e ogni giorno questa fascinazione si rinnova e si arricchisce, non di meno il mio dialetto, conosciuto e praticato nella sua forma genuina da non più di qualche centinaia di parlanti, rimarrà per sempre come una placenta gergale entro la quale la mia immaginazione espressiva è stata cullata nei momenti cruciali della sua formazione.
Erano chiacchiere leggere, quelle delle donne nell’aia, di una leggerezza dignitosa e radicata. Ricordi di quando le più anziane erano state mondine. Qualche commento, sgangherato ma denso di saggezza popolare, ai fatti sentiti in tv. Un cenno alla sorella del tale, che ha sposato quel tipo, il figlio di “coso”, che era andato a stare a Milano per aprire una farmacia in società col genero del fratello di “bagaglio”…mentre la scia della ricostruzione parentale si avvoltolava lenta nell’aria insieme alle volute di fumo dello zampirone, messo in mezzo al cerchio delle chiacchiere per attutire la ferocia proverbiale delle “nostre” zanzare…

Alla fine, non lo so se sono una persona capace di ascoltare. So solo che mi è sempre piaciuto molto.

mercoledì 26 novembre 2008

Consumo e felice

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Ohi ragazzi, ma voi avete cominciato?
No, dico, lo sapete che ci dobbiamo mettere di buzzo buono ed attaccare a darci dentro coi consumi come dei dannati, vero?
Io non credo di essere mai stato un cittadino modello, ma stavolta ho deciso che era ora di riparare alle mancanze del passato. Così, mi sono armato di tutto il mio senso civico e adesso voglio consumare.
Lo pretendo, è un mio diritto-dovere.
Prima cosa, sto tenendo i termosifoni accesi a palla 24 ore su 24, e nel frattempo porte e finestre rigorosamente spalancate. In questo modo, posso permettermi il lusso di continuare a rimanere vestito invernale di tutto punto, consumando così cappotti e scarpe anche in casa.
Le porzioni di cibo ora le calcolo almeno tre volte tanto rispetto a quello che mi sento di mangiare: stanti questi ponderati calcoli, si determina un meccanismo virtuoso di consumi tale per cui i due terzi avanzati passano nella ciotola del gatto, e da qui, il terzo finale che non riesce a superare l’arduo scoglio del vaglio felino, a gatto strasatollo finisce direttamente nella pattumiera.
Che ci volete fare, noi in famiglia siamo fatti così: quando sono in gioco l’utilità sociale ed il dovere civico, anche il gatto è della partita.
E se, cammin consumatorio facendo, nell’angolino più remoto della coscienza si farà umilmente strada il siffatto velato interrogativo: “…cosa ne sarà poi di quelle 30 camice nuove che intasano l’armadio, delle 42 cravatte fiammanti, dell’ultimo modello di tosa erba SUV cabrio gommato antineve, di quel paio di raddrizza-banane firmati Dolce&Gabbana stipati in garage, del grattugia-struzzi turbo regalato agli amici per l’anniversario di matrimonio?...”, non disperate perché immantinente si leverà consolatorio il pensiero di aver gloriosamente contribuito ad innalzare il Prodotto Interno Lordo di uno straccio infinitesimale di punto, e alla fine potremo far festa tutti insieme organizzando un bel party a base di panini imbottiti di fette di PIL.
Non sia mai che ci rimangano sulla coscienza 400mila nuovi disoccupati per non aver avuto, noi, il buon cuore di sbattere un po’ di soldi giù per il cesso. Noi gente comune senza scrupoli, noi orrendamente ostinati a non lasciarci guidare dal preclaro esempio di solidarietà umana offerto da banchieri, grandi finanzieri e simili.
Tanto, staremo mica a guardare il capello? Qualcuno ci crede ormai così assuefatti a prenderlo nel di dietro in andata e ritorno, da considerarci anche completamente illusi che i soldi, per la proprietà transitiva, vengano fuori proprio da quel di dietro medesimo.

Nota:
So che il titolo scelto (solo perché mi piaceva l’assonanza con la nota canzone di Carmen Consoli) risulta sgrammaticato, e a parte magari vederlo un po’ come una sorta di anacoluto tirato per il ciuffo, non ha in fondo un granché senso.
Ma cos’è? Forse che l’immunità per le stronzate è riservata ai soli politici? Il lodo Alfano ha allungato fino a questo punto i suoi tentacoli?

domenica 23 novembre 2008

Ci crediate o no...

(Foto di Gillipixel)

"...Ma quando verrà ciò che è perfetto,
quello che è imperfetto scomparirà.
Quando ero bambino, parlavo da bambino,
pensavo da bambino, ragionavo da bambino.
Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino
l'ho abbandonato.
Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa;
ma allora vedremo faccia a faccia.
Ora conosco in modo imperfetto,
ma allora conoscerò perfettamente,
come anch'io sono conosciuto..."

San Paolo - Lettera ai Corinzi

Per chi crede, queste righe sono molto di più.
Per tanti possono essere anche un magnifico brano di alta letteratura.
Al di là della questione di fede, io le trovo molto evocative.

sabato 22 novembre 2008

Once upon a time...

(Foto e fotomontaggio di Gillipixel -
nonchè mano e pallone vecchio di Gillipixel)

A volte mi manca il basket.
Il Cielo sa quanto ho amato quello sport.
Anche se fra le tante cause degli acciacchi alla schiena che mi hanno portato a non poterci più giocare va annoverato proprio il basket, mi manca lo stesso.
E dire che, in fondo, vincere non mi è mai interessato più di tanto. Io giocavo per l'estetica. Per il gusto di addentrarmi nella bellezza dei movimenti.
Anzi, è più corretto dire che in realtà ci tenevo a vincere, ma non perchè sentissi in modo particolare lo spirito competitivo. Era più per non dare la soddisfazione della vittoria a chi non si sapeva muovere con tutta l'eleganza e la nobiltà del gesto che con il tempo compresi essere contenute in misura così abbondante nelle movenze di quel gioco.
All'inizio non era facile, perchè spaventava un po' il fatto di dover fare tante cose insieme: palleggiare, camminare o correre, tenere d'occhio il movimento di avversari e compagni di squadra, passare la palla, saltare, tirare.
Ricordo ancora, quando iniziai a conoscere questo gioco, la gioia che mi accompagnava mentre mi rendevo conto che stavo penetrando piano piano nel segreto di quella sincronia di gesti. Era come padroneggiare gradualmente i passi di una danza. E capii di essere a buon punto le prime volte che le gambe si sentirono libere di andare per i fatti loro, come se corressi in condizioni normali, senza quasi dar troppa importanza al fatto che invece le mani stavano pigiando la palla ritmicamente a terra.
Il giorno che mi sorpresi capace di arrestare palleggio e corsa, tirando poi a canestro in salto, tutto con un movimento di filato, ero da solo sul rugoso rettangolo di catrame dietro al campo da calcio.
Credo sia stato quello il momento preciso in cui la mia curiosità per il basket si trasformò in qualcosa di passionale.
Correvo in palleggio dal limite di un'area all'altra, vestito coi jeans, scarponcini invernali e maglione. E mi sentivo libero. Ero entrato nel mistero di una gestualità che fino ad allora avevo potuto solo invidiare ai grandi campioni in tv.
Faceva piuttosto freddo, dev'essere stata una giornata di febbraio, intorno al Carnevale. Forse a casa mi aspettava qualcosa di buono preparato dalla mamma, ed era bello pensarci rubando ancora qualche attimo all'imbrunire incalzante, e ripetere il tiro in salto a perdifiato, scorrazzando felice da un canestro all'altro.
Ancora uno, ripetevo fra me e me. Ma quel tiro di commiato non mi bastava mai, un po' come la volta che scoprii la bellezza di "Some girls are bigger than others" degli Smiths e non mi scomodavo nemmeno ad accendere lo stereo se non per ascoltarla minimo 40 volte di fila.
Ieri sotto sera, è stato uno squarcio di cielo che svaporava vitreo dal cupo cinerino all'indaco luminoso, e più giù ancora verso un arancio palla da basket, a rammentarmi tutto ciò.
Non so dentro quante sere come quella hanno tuffato la loro coda le interminabili partite che ho giocato coi miei amici su quel campetto.
E non so le volte che sono andato anche da solo a confidare le mie pene al canestro, ritrovando nell'atto di scagliare la palla verso il cesto con l'avambraccio che la frusta dolcemente, qualche consolazione ai miei mille pensieri di ragazzino.
"...se va dentro, lei mi dirà di sì..."..."...se va dentro, mi va bene il compito di mate..."...
E infiniti altri ricordi. Belli perchè legati a momenti inutili.
La "mistica" della stanchezza, coi polmoni pieni del fresco del cielo e la gambe sudate di salti e lunghe falcate a canestro. Un senso di amicizia forse mai più provato così intenso, come quello per il compagno di squadra al quale avevo servito un pallone strepitoso, spizzato a terra velocissimo fra le gambe degli avversari.
E le volte che non riuscivo a sbagliare un tiro nemmeno a volerlo, e da 10 metri avrei infilato anche una biglia dentro ad una vera da sposi. E i giorni che invece avrei mancato anche l'oceano con un pesce.
Già, mi manca il basket, a volte.

giovedì 20 novembre 2008

QWERTY! QWERTY! QWERTY!...UIOP! UIOP! UIOP!...Fuit, bum!!!

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Andrà a finire che mi farò la fama di assoluto “scrittore sul nulla” (il cugino più brutto del “Pianista sull’Oceano”).
Ma in attesa del ritorno di nuovi spunti riflessivi più dignitosi, oggi correrò questo rischio, superando me stesso proprio nella nobile disciplina del vaniloquio narrativo.
Rimiravo la tastiera nell’illusoria speranza di scovare un’idea negli angoli bloggaroli più remoti della mia mente offuscata, quando ho fatto “sguardo locale” su una stringa di lettere tanto familiare quanto scontata, per il fatto di averla sotto il naso praticamente dieci ore al giorno: QWERTYUIOP.
Lì, lì…lì sotto dai…abbassate gli occhi: è la terza fila di tasti dall’alto, sotto alle funzioni e sotto ai numeri.
Sì, perché io sono di certo un eccelso “nothing teller”, ma dovete sapere che c’è tutta una storia buffa e curiosa dietro quella sequenza di lettere.
Intanto, fate conto che, mentre state pestando sulla tastiera, è come se usaste una calcolatrice che all’interno della sua scatoletta, nel retrobottega calcolatorio, invece di chip e circuiti si serve di un vecchio e polveroso pallottoliere.

Considerando la disposizione all’apparenza casuale delle lettere, sbattute giù un po’ con la fionda, e trattandosi di uno strumento di altissima tecnologia come il computer, viene da pensare: chissà quali studi ci sono dietro, avranno sperimentato la cosa durante infinite prove con utenti, rilevando con minuzia la naturale predilezione della mente umana per la scelta di determinate lettere, combinando il tutto con la preferenza accordata dalla nostra percezione a certe porzioni del campo visivo, ecc., ecc.
Ma quando mai?...Ma in che film? Forse giusto in un’avventura di Brancaleone.
Il codazzo di lettere QWERTYUIOP-ASDFGHJKL-ZXCVBNM forma infatti la stessa identica sequenza riportata pari pari dalle vecchie macchine da scrivere sui pc.
E già qui c’è puzza di anacronismo, ma sarebbe anche stato plausibile: se quell’ordine era funzionale all’epoca, si poteva benissimo continuare ad usarlo per scrivere col computer.
L’eccentricità della cosa salta fuori però se si va ad indagare l’origine della disposizione “a QWERTY”.
La ideò, intorno al 1870, Christopher Sholes, un inventore americano (eran forti però, un tempo: “Che mestiere fai?” - “Io?...L’inventore…va mò làh…”).
Non fu subito “QWERTY a prima vista”. Come avrebbe pensato chiunque di fronte al dilemma della disposizione dei tasti, per facilitare una scelta rapida delle varie letterine, Sholes le mise semplicemente in fila in ordine alfabetico.
Solamente che, così cosa succedeva? Quella era la sequenza senz’altro più intuitiva, ma l’utilizzatore della macchina da scrivere risultava in quel modo “troppo veloce”, e soprattutto scrivendo con tutta la sua buona lena faceva maledettamente inceppare i martelletti che battendo vanno a spiattellare l’inchiostro sulla carta.
Sholes dovette allora ingegnarsi per disporre i tasti in modo che non ci fosse affollamento di levette vicine nello stesso momento, e sacrificando a questa priorità la necessità di essere rapidi, escogitò la disposizione QWERTYUIOP…ecc.
Il tutto venne poi brevettato dalla ditta Remington & Sons e diffuso in così grande scala che il modulo QWERTY si impose come vincente, e in seguito, essendo talmente consolidato nell’uso universale, si decise di non modificarlo nemmeno con l’avvento dell’informatizzazione.
Ed è così che ancora oggi ci ritroviamo ad utilizzare la soluzione più lenta per battere su una tastiera, solamente perché ad una fabbrica di fucili USA così faceva comodo circa 130 anni fa.
E ricordando come, pur non essendo ben chiara l’attribuzione, l’idea originale per la creazione della macchina da scrivere (erroneamente detta: l’espressione corretta è macchina “per” scrivere) vada probabilmente attribuita ad un avvocato novarese, Giuseppe Ravizza, che nel 1855 la brevettò col soave nome di “cembalo scrivano”, mi viene da fare un’ultima considerazione.
Visto che codesto QWERTY è ormai una chincaglieria assolutamente obsoleta e ce lo tiriamo dietro più per affetto che per altro, e dato che pure lui QWERTY medesimo si sentirà piuttosto inutile, ci sarà modo di rivalutarlo con ruoli socialmente utili?
Così mi è venuto in mente che potrebbe venire buono come neologismo a valenza variabile, buono per diverse occasioni.
Ad esempio: sono per strada a passeggio con un amico, ci sorpassa un gran bel pezzo di figliola ancheggiante alla grande, e lui mi fa sottovoce: “…Visto che roba?...”. Io in tutta risposta, invece di usare espressioni inflazionate e vecchie, tipo uno scontato e stucchevole “accipicchia!”, potrei profondermi invece in uno squillante “QWERTYUIOP!” nuovo di zecca.
Altro frangente: in macchina, sto guidando, mi sorpassa con manovra pericolosa uno di quei fanatici dell’automobile che hanno venduto tutti i loro neuroni in cambio di 16 valvole. Anche qui, invece delle solite imprecazioni, si potrebbe piazzare un super-inedito: “Ti pigliasse un QWERTYUIOP a te e a chi non te lo prega!”.
Un ultimo uso che mi sovviene potrebbe essere infine quello geografico, per stupire l’amico bullandosi circa l’esoticità delle proprie mete vacanziere estive: “Dov’è passi le ferie quest’anno?”, “Bah, sono ancora indeciso, mi sa che faccio un paio di settimane a QWERTYUIOP…un atollo in Polinesia, sai, a uno sputo da Mururoa…”.

lunedì 17 novembre 2008

Questo è un lavoro per...!

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Oggi, manieristicamente, ripensavo un po’ ai vari argomenti strambi affrontati negli articoletti di questo mio ancor più bizzarro angolo di scribacchiature (ghiandole salivari, texture, blob fatti in casa, solo per citare le ultime mie futilità) e fra me e me mi dicevo: “…Sono proprio il Superman dei blogger…”.
Ma non mi fraintendete, non è che mi sono montato la testa, e tanto meno mi stavo profondendo in un moto di auto-esaltazione scellerata.
Tutt’altro.
E se mi lasciate spiegare per due righe, vi renderete conto che si trattava di una considerazione niente affatto lusinghiera.
Nella bellissima raccolta di saggi critici “Apocalittici e integrati” (uno dei più bei testi per imparare ad osservare i fenomeni artistici con occhio “asciutto” e disincantato), Umberto Eco analizza esattamente la figura del super eroe domiciliato a Metropolis, facendo riflettere su di un passaggio fondamentale per capire l’impianto narrativo di questo fumetto e di conseguenza le implicazioni socio-esistenziali connesse.
Superman, ci ricorda Eco, possiede super poteri coi quali potrebbe benissimo prodigarsi per risolvere “inezie” come la fame nel mondo, le guerre sanguinose che affliggono il pianeta, i disastri ecologici, tanto per citare solo alcuni esempi di “problemucci” più eclatanti.
Ma nonostante questo po’ po’ di potenziale, SuperLui si ostina ad assicurare alla giustizia qualche rapinatore di banca di tanto in tanto, a frenare la corsa impazzita di qualche treno, o tutt’al più a bloccare le criminose intenzioni di scienziati perversi regolarmente intenzionati a distruggere la Terra, ma una volta passato il pericolo, per quanto gliene può fregare a SupeLui, lascia pure che crolli la finanza mondiale e l’ambiente si riduca ad uno schifo.
Il messaggio che le storie di Superman vogliono far passare, commenta Eco, è tutto confezionato all’interno di una logica piccolo-borghese e in questo ambito si spiega la Super-sua selettività nel risolvere i problemi del mondo: SuperLui supercombatte le storture medie che il lettore medio si attende di veder mediamente combattute, oppure si prodiga in certe pacchianate esaltanti da “mejo fico der bigoncio”, più in sintonia con una ricerca di clamore in stile Grande Fratello, Talpa, Isola dei Famosi e simili, che non dettate da un’intenzione effettiva di fare il bene dell’umanità.
In questo senso dunque mi sono sentito il Superman dei blogger.
Con tutti i problemi che ci sono al mondo, le questioni complesse che lo attanagliano, io cincischio spesso sul filo della surrealtà.
Tuttavia, credo di poter dire che nel mio caso le intenzioni siano alquanto differenti.
Non è tanto la dimensione medio-borghese che mi interessa, non ci penso nemmeno. Il mio pensiero va più verso la convinzione che osservando la realtà da punti di vista inediti, anche se si tratta di piccoli dettagli, si può andare in qualche modo più vicini ad una sua comprensione. Ora non vorrei menar la faccenda troppo per l’aia, ma queste mie mini-incursioni per assurdo nel mondo del possibile, le intendo quasi una palestra di tolleranza in cui nel frattempo si può tenere in allenamento anche lo spirito critico.
O almeno così mi pare.
In ogni caso, di una cosa adesso sono sicuro.
Finalmente ho colto fino in fondo la saggezza di una battuta sentita qualche tempo fa: “Se Superman è così intelligente, perché porta le mutande sopra i pantaloni?”

domenica 16 novembre 2008

Shyness is nice

(Fotomontaggio di Gillipixel
su foto di sfondo di Gillipixel)

"...Shyness is nice, and
Shyness can stop you
From doing all the things in life
You'd like to

So, if there's something you'd like to try
If there's something you'd like to try
Ask me - I won't say "No" - How Could I?..."

"Ask", The Smiths (1986)

Fidatevi di me.
Di timidi me ne intendo.
Di umiltà e di modestia ne so qualcosa. Vi dovesse succedere di conoscermi e poi campaste ancora 150 anni (cosa che vi aguro di cuore), non vi capiterebbe mai più di imbattervi in un fottuto timido come il sottoscritto.
Parlo dunque con cognizione di causa.
Dietro ogni timido, si nasconde un grande egocentrico.
Il timido è tale perchè si sente sempre al centro di tutto e sotto l'occhio di tutti. In ogni istante è abbagliato dal grande faro di un iper-io esterno che lo giudica di continuo. Si sente sotto il torchio costante di un paradossale autoesame che sgorga contemporaneamente esterno a sè e dall'interno di sè.
Ma non fidatevi troppo.
Il timido è anche colui che in fondo in fondo, nelle segrete del suo cuore, di tanto in tanto si compiace nel sentir risuonare beffarda la voce del marchese del Grillo, che motteggia impertinente:
"Io so' io...e voi nun siete 'n cazzo!"

Stand up for your papilla

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Se fossi qualcuno che conta qualcosa, indirei una petizione.
Aprirei una sottoscrizione di firme a favore delle papille gustative degli italiani.
Una campagna in difesa delle nostre ghiandole salivari.
E' noto che il processo di digestione ha inizio già nel nostro cavo orale. Basta ritrovarsi davanti una pietanza succulente, oppure per i più fantasiosi, solamente immaginare un barlume d'idea di un piatto appetitoso, e subito le nostre ghiandolette della bocca, ancor prima di aver gustato una sola briciola, si mettono brave brave a fare il loro mestiere, secernendo una saliva particolare, perchè ricca di peptina, una sostanza che è come un soldatino dello stomaco, mandato in avanscoperta per preparare il terreno e fare già un po' di lavoro.
E' la famosa acquolina in bocca.
Ma non si può stare tutto il giorno con la ghiandola sotto pressione. Eh no!
Prendi oggi ad esempio.
Me ne stavo bel bello (o meglio, brut brutto) davanti alla tele a fine pranzo, dopo essermi scofanato mezze maniche ripiene in brodo di gallina, cotechino e purè, torta, vinelli vari e bicchierino di Porto finale, mentre davanti agli occhi mi scorrevano immagini alternate di Linea Verde e Mela Verde.
C'era niente meno che il ministro dell'agricoltura Zaia in collegamento da Treviso, che insieme ad abili cuochi locali illustrava la preparazione di una delizia del posto, una sorta di passato di fagioli con grasso pesto da gustarsi insieme a verdurine fresche.
Ed io lì, blandito dalla suggestione gastronomica, nonostante la grande abbuffata da cui ero reduce, giù a salivare peggio del buon cane di Pavlov. Neanche fossero stati 5 giorni che non mangiavo.
Adesso dico: non si può andare avanti così.
Ti svegli al mattino prestissimo, accendi la tv per sapere come ha chiuso l'indice Nikkei e subito ti imbatti in ricette regionali e delizie di ogni tipo. Ti avvii verso il mezzogiorno, e giù di nuovo altre imboscate culinarie a tradimento, che colgono le tue ghiandole salivari in mutande.
E Linea Verde, e Mela Verde, e Eat Parade, e La prova del cuoco, e Sereno Variabile, e poi ancora una miriade di trasmissioni delle quali non ricordo il titolo, ma che tutte inevitabilmente ti colgono alla vigliacca salivante e in subbuglio gastro-illusorio. E così arrivi a fine giornata col canino grondante e un esagerato stillicidio peptinico in bocca.
Ma cos'è questa storia? L'Italia ormai non è una più repubblica fondata sul lavoro, bensì sulla ghiandola salivaria eccitata.
Già, proprio così. Se fossi qualcuno indirei una petizione. Ma non sono nessuno, e mi rassegno. Continuo a salivare.

sabato 15 novembre 2008

Luce e volumi: oggi sposi

(Foto di Gillipixel)

Gli edifici, come tutte le cose semplici, sono una faccenda piuttosto complicata.
La parte semplice sta nel fatto che un edificio in fondo è fatto di tre ingredienti: volumi (stretti parenti degli spazi, da essi determinati), texture e luce.
La cosa complessa è che, pur essendo l'edificio un mazzo di sole tre carte, i semi di queste carte (le loro variabili) sono infiniti, e si può giocare una quantità sterminata di partite senza vedere mai la stessa mano ripetuta uguale ad un'altra.
Una volta lessi una bellissima frase del grande designer Bruno Munari, riguardo al concetto di fantasia. Non ricordo testualmente le parole, ma in sostanza diceva che la fantasia si basa in fin dei conti su un meccanismo elementare: consiste nel saper fare accostamenti tra elementi differenti, creando composizioni esteticamente significative. Una volta colto il senso del gioco compositivo, il segreto sta nel conoscere sempre più elementi da far entrare nella partita.
Delle tre "carte" (come metaforizzato sopra) a disposizione di un edificio, la texture è la più sottovalutata. Sarà forse perchè in italiano non c'è un termine ben chiaro a tradurre questo concetto, chissà. Nei paesi anglosassoni infatti, non so, sembra che questo importante valore estetico venga tenuto in maggiore considerazione.
La texture è la trama superficiale, il tessuto dell'edificio.
Al di là delle difficoltà lessicali, l'idea di texture è forse difficilmente coglibile anche per la sua sostanziale sfuggevolezza. Essa è infatti quel leggero velo sul quale la luce e i volumi si sposano. E' quel confine sottile sul quale l'impalpabilità luminosa si addensa sfociando nella concretezza del tangibile. Quella fine pellicola che confonde su di sè l'idea di visibile con quella di tattile.
Lo aveva capito benissimo Alberto Burri, che su questo concetto ha sviluppato la sua intera poetica.
E lo si capisce benissimo se si fa mente locale sulla ripugnanza e sulla tristezza "testurale" di certi materiali (ad esempio, mi vengono in mente al momento la formica e il linoleum, oppure l'anonima "lisciezza" del cemento armato di certi capannoni industriali, ma non insisto oltre per non causarvi conati e nausee estetiche varie), confrontata con la nobiltà, la "sapienza" , la capacità di "accumulare memoria" che posseggono certe altre superfici (come quella del muro in "cotto" o del legno).
Texture dunque. O tessuto, o trama. E' importante. Comunque la vogliate chiamare.

mercoledì 12 novembre 2008

Il Blob fai da te

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Lo scrittore diligente è sempre a caccia di piccole intuizioni, sensazioni mentali subodorate, micro-pensieri illuminanti quanto sotterranei, dettagli del vivere in grado di accendere quella fiammella di stupore interno indefinibile altrimenti.
In certi casi però si tratta di lumicini talmente fiochi, talmente legati ad una circostanza minima ed individuale, che stentano a sopravvivere allo scambio comunicativo, rischiando, una volta messi per iscritto, di affogare inascoltati nell’oceano sterminato del personalismo.
L’idea originale merita di essere messa nero su bianco quando la “meraviglia rivelata” che è in grado di suscitare sia condivisibile e potenzialmente familiare a molti.
Detto questo, e non essendo io uno scrittore diligente, vorrei illustrare una piccola intuizione, una sensazione singolarissima da me provata, pur nella certezza che non risulterà familiare esattamente a nessuno.
Ieri sera, pigreggiavo come mio solito davanti alla tele e mi sono imbattuto in un servizio delle “Iene”. La caratteristica di quegli irriverenti stoccafissi inveterati in nero è questa: sotto il velo della boiata eclatante, ti raccontano cose notevoli.
Per l’occasione, la iena Gip voleva far notare come il linguaggio televisivo tenda a deformare gli argomenti, a seconda del registro espressivo utilizzato per presentarli. Il buon Gippone, sempre piuttosto grottesco ed iperbolico, com’è nel suo stile, aveva creato ad arte una “notizia” fasulla. Fingeva di essere un papà intento a giocare in casa col suo bimbo. Nel tentativo di cogliere al volo un pallone pericolosamente rimbalzante in direzione della porta finestra aperta sul balcone al sesto piano, simulava una catastrofica caduta di sotto, con logico e conseguente spiattellamento fatale di sé medesimo sul prato.
A questo punto, dopo aver mostrato il filmato dell’accaduto in una versione piuttosto “neutrale”, l’episodio veniva tradotto in tre diversi “linguaggi” (o meglio, “dialetti”) televisivi divenuti ormai (purtroppo?) alquanto familiari. Il fatto veniva prima “StudioApertizzato”, poi “RealTvizzato” ed infine “Paperissimizzato”, in quest’ultima variante con tanto di cagnetto che sul finale si avvicinava annusante al corpo spiaccicato, bofonchiandogli che dovevano stare “…viscini viscini…”.
Era piuttosto impressionante vedere come gli stilemi tipici del servizio di “Studio Aperto”, quelli di uno “scoop” di RealTv, e ancora i contorni scherzevoli di “Paperissima”, fagocitavano con il loro “assolutismo” espressivo il dato di fatto di partenza.
Una piccola dimostrazione di come questi tre contenitori televisivi presi a caso siano anche una sorta di schiacciasassi espressive, capaci di piegare ogni argomento e tradurlo nel loro “clima” deformante: quello del pietismo morboso di Studio Aperto; quello del cinico sensazionalismo di RealTv; e quello da forzati dello scherzo, di Paperissima.
La morale che ne ho tratto è che la ri-contestualizzazione televisiva di una “notizia” (o in genere del suo racconto per immagini) può avere su di essa conseguenze deformanti eccezionali, a conferma del fatto che la tele è effettivamente uno strumento molto potente.
Ma non era finita qui, perché cambiando canale, sono incappato in una curiosa coincidenza sul tema. In questo caso si trattava di un film, “Le ali della libertà”, con Tim Robbins e Morgan Freeman, che nella storia interpretano due carcerati.
Avevo già visto il film tempo fa, ma non ricordavo i particolari della storia, e così stavolta ho colto solo una scena già iniziata: i poliziotti entrano nella cella di un detenuto e lo pestano in modo terribile. Le scene dei film sono spesso paragonabili a “dispositivi emozionali”, architetture emotive appositamente confezionate per ottenere un determinato effetto desiderato. Così questa volta mi è scattata l’ovvia indignazione mista a rabbia verso la crudeltà dei secondini.
Ma poi, nel prosieguo della trama, ho riscoperto (ricordandomi anche dalla precedente visione), che il galeotto era stato massacrato per aver violentato e seviziato un’ennesima volta il mite carcerato Tim Robbins, nel frattempo entrato nelle grazie delle guardie per la sua abilità come contabile e persona di cultura.
Ho in questo modo capito che la scena, estratta dal continuum della trama, mi aveva innescato una reazione emozionale del tutto distorta rispetto a quella “ufficiale”, ossia quel “sano senso di vendetta” che infatti poi mi sono ricordato di aver provato nella visione completa di qualche tempo fa.
Ed è stato così che, fra una saggia mattata della iena Gip e uno stralcio isolato di film rivisto, ho compreso ancora meglio la genialità dei creatori di Blob.

domenica 9 novembre 2008

Il pane e le rose

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Devo essere un gran pauperista. Un populista, un luddista. Devo essere un iconoclasta. Devo essere anche parecchio retrogrado, passatista. Devo essere uno che non ama la bellezza, un ingrato che non comprende l'importanza dell'immagine, della dimensione estetica, nella nostra società. Devo essere un gran nostalgico di una tanto mitizzata, quanto mai esistita età dell'oro. Devo essere afflitto da una terribile miopia sociale, che mi impedisce di guardare avanti, mi impedisce di capire i meccanismi più raffinati attraverso i quali il motore dell'economia è capace di sostentere il movimento del progresso, continuando a far girare le leve vitali e fondamentali che sostengono il nostro bene collettivo.
Devo essere tutto questo.
Altrimenti, non saprei spiegarmi un fatto.
Perchè se non è vero tutto quanto detto sopra, ieri sera, dopo aver sentito al Tg4 che nelle gioiellerie dalle parti del Ponte di Rialto a Venezia, il prezzo medio di vendita delle collane, un anno fa attestato intorno ai 300 euro, ora per la crisi è sceso a circa 30, come si spiega che non mi sono commosso?

venerdì 7 novembre 2008

Normale

(Foto di Gillipixel)

"Come stai?".
Ecco una domanda che mi mette sempre in difficoltà, mi crea disagio.
"Minchia, la sensibilità che c'hai...", diranno i lettori più attenti e scafati.
E va beh, mica sto dicendo che si tratta di un dramma, quando vengo interpellato con quella frasetta di cortesia. Ma la risposta da dare mi ha sempre provocato un lieve logorio interiore. Il punto è che non so mai bene cosa ribattere.
Rispondere "bene" mi sembra sempre eccessivo e soprattutto poco sincero. Non va mai bene del tutto. Almeno, non so a voi, ma durante le mie giornate non capita quasi mai: ci sono quelle più o meno serene, ma proprio tutto liscio dall'alba al tramonto va molto di rado. E se devo dare il mio responso radioso tanto per darlo, boh, non so, mi sa tanto di fiato sprecato. In particolare se il "Come stai?" viene da una persona cara, ho quasi l'impressione di prenderla in giro a rispondere con un secco, netto ed irremovibile "bene!".
Tanto per dire, puoi accendere le tele ed imbatterti in Emilio Fede o in Studio Aperto; oppure sai che è inevitabile lungo il giorno dover fare cose che ti stanno sulle scatole; e inoltre, almeno un paio di momenti della giornata li dovrai passare con persone delle quali non ti può fregare di meno, e fra di loro c'è magari lo stesso semi-conosciuto che ti sta chiedendo "come stai?".
E questo, solo per citare le motivazioni più accidentali e superficiali. Che se vogliamo andare sul filosofico e tagliare corto il concetto, possiamo dirla con Emil Cioran: "L'uomo è inaccettabile".
La condizione umana, da qualsiasi prospettiva la si rigiri, è tragi-comic-grottesca-zzeggiante, e come si può affermare allora impunenemente di stare bene e non dubitare nel contempo di essersi trincerati dietro un'accampata verità ideologica di comodo? Insomma, "Sto bene" è una tesi intrinsecamente fasulla, se passata al vaglio del rigore filosofico più stretto.
Tuttavia, nei periodi ordinari della vita, anche dire che va male non è mai completamento corretto. Fatte salve le sfighe più totalizzanti (che pure capitano, ma speriamo stiano sempre il più lontano possibile), puoi sempre tener conto che c'è chi sta molto peggio di te, e saresti un ingrato ad amplificare i tuoi guai e grattacapi quotidiani, così piccoli se rapportati alle tragedie del mondo. Non è onesto. Anche perchè (sempre fatti salvi i casi più gravi, quelli in cui si ha bisogno di conforto) mettersi ad impestare il prossimo coi propri problemi non è mai tanto giusto, che ciascuno ha già i suoi di guai.
La domanda "come stai?" è stata insomma sempre un po' spinosa per me. Fino a quando non conobbi un ragazzo, che precariava in un ufficio in cui mi ritrovai anche io a trascorrere qualche periodo di lavoro "interan...inale".
Era un giovincello simpatico e svagato, un po' con la fissa dell'heavy metal. Non so se faceva parte del gergo del suo mondo musicale prediletto, ma per lui ogni cosa era degna di essere catalogata come normale.
Mi parlava di una ragazza. "Che tipo è?", chiedevo: "Normale".
Diceva di aver passato il week-end ad una festa. "Com'è andata?", e lui di nuovo: "Normale".
E fu da allora che capii come avrei risolto il mio problema ed il mio imbarazzo di fronte alla domanda fatidica.
Infatti adesso, ogni volta che mi chiedono: "Come stai?"..."Normale", faccio io.

giovedì 6 novembre 2008

Sognix

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Ci devono essere dei pacchetti di emozione che andiamo a pescare nel data-base dell’anima a seconda delle occasioni. Una sorta di cartellette del nostro “windows dei sentimenti”, che fanno capolino nell’animo già preconfezionate, quando incorriamo in determinate situazioni o particolari condizioni emotive al contorno, e in automatico emergono a pelle quasi incontrollabili.

Non lo dico in base agli esiti dell’ultimo studio commissionato al professor Futilius della “John Nosense University”, non preoccupatevi: per sostenere questa preclara tesi non è stata sprecata nemmeno una ghinea, non sono stati allestiti gruppi sperimentali, non sono stati maltrattati animali, non sono stati fatti spot pubblicitari e non è stata costruita nemmeno una nuova automobile ad incrementare l’impestamento del mondo causato da quelle odiose scatole di latta (un giorno scriverò un articolo contro le automobili, e sarà un capolavoro di incoerenza e rabbia…). Anzi, i fondi eventualmente raccolti con la divulgazione di tale verità inconfutabilmente soggetta a dubbio, saranno devoluti in favore della liberazione di Vladimir Luxuria dall’Isola dei famosi.

Per questo “studio”, dicevo, non sono stati investiti fondi, ma solamente un pisolo di dimensioni ragguardevoli, speso da me medesimo disteso con sommo sprezzo del pericolo davanti alla tele. La tv per questo scopo è uno strumento potentissimo: aiuta a far sonni che partono a motore caldo, belli carichi di un loro flusso informativo già messo in moto (la metafora motoristica mi ripugna, ma in questo caso veniva bene…). E nel rimescolio di video, sogni, sonoro e sprazzi di dormiveglia, possono spuntare piccole folgorazioni concettuali niente male.

Un’osservazione del genere l’ho sentita fare una volta anche dal geniale creatore dei Momix, Moses Pendleton. Alcune delle intuizioni riversate poi nelle sue stupende coreografie sono scaturite proprio fra le pieghe di quei momenti di sonnolenza molesta ai quali ci si abbandona talvolta dopo una grande fatica, e si dormicchia un po’ così, senza meta, con alternanza di piccoli risvegli da ricacciare subito indietro, sotto il velo di un nuovo sogno.

In buona sostanza, Johnny…cosa ho scoperto facendo lo slalom fra i miei sogni catodici? In poche parole, quella che mi sono sognato è la cartella delle emozioni salvata nel mio “disco C" emotivo con il nome di “Film di crisi anni ‘70”. E proprio da lì, per la pregnanza della sensazione, mi è scattata la suggestione dell’esistenza di queste directory emozionali.

Le fattezze esteriori del sogno riportate a parole non diranno molto. Ma lo sapete come succede nei sogni, immagine e sensazione vanno molto spesso ciascuna per loro conto. C’era questo tipo, che al tempo stesso ero io ed era il protagonista di un film, sullo sfondo di una vasta distesa di “paesaggio americano” in salita, col sole quasi di fronte. Lungo una carraia che segnava tutta la china a metà, spelacchiandone il prato, c’è un furgoncino, tipo pick-up. Il personaggio-io imbraccia un potente fucile, e ad un certo punto fa fuoco sul retro del veicolo (devo smetterla di odiare le automobili…), e dalle immagini del sogno non si capisce, ma la storia emotiva sottintesa racconta che l’uomo alla guida ha fatto una brutta fine, e che lo sparatore è preda ora di mille tormenti di coscienza per quel gesto che tuttavia lui, per qualche motivo esistenziale profondissimo, “doveva” fare.

Queste poche scene però sono state solo la superficie del trambusto di emozioni provate: sotto alle immagini sognate c’erano tutto il rimorso, i sensi di colpa, gli smarrimenti, la fierezza di esser perdenti, la fatale impotenza contro la crudeltà del destino, la catarsi angosciosa, l’apocalittica sensazione diffusa del “Laureato” e di “Cane di paglia”, di “Kramer contro Kramer” e “L’inferno di cristallo”, dei “Tre giorni del condor” e di “Brubaker”, di “Incompreso” e “L’albero di Natale”, di “Tom Horn” e “Soldato blu”, di “Corvo rosso non avrai il mio scalpo” e “Piccolo grande uomo”. È stato così che tutto il pacchetto emotivo mi si è profilato nella sua nitidezza, coi suoi contorni ben definiti giallo paglierino: era esattamente una cartella di sensazioni ben precise.

(P.s.: alcuni dei film citati non rientreranno propriamente nella decade 1970, ma la suddivisione intesa faceva più riferimento a dei confini estetico-esistenziale che non a delimitazioni di carattere strettamente cronologico)

mercoledì 5 novembre 2008

AndarperObama

(Fotomontaggio di Gillipixel)


Adesso viene il bello. Dantescamente, per lui si va nel tempo delle responsabilità e delle sfide grandiose. C’è tanto da fare e ancor più da sperare.

Ma un frutto è già stato colto. La fiducia oggi sorride di ebano radioso.

Basta col bagliore sinistro e sbandato nello sguardo di viso pallido “occhio di vitello”.

Basta con l’ottusità del male.

Basta crudele follia, che scoppietta di tragica insignificanza come una grottesca manciata di pop-corn unti di sangue.

Oggi ad andar per pensieri si tira su un’idea sola: Obama.

Un uomo-idea-di-mondo in prospettiva di luce.

Un uomo-idea che a pensarla si porta dietro altri idea-uomini. E Jack Kennedy e il mite Bob, e Martin Luther e il suo sogno. Perchè possa diventare più vero oggi, senza mai perdere lo smalto del sogno domani.

martedì 4 novembre 2008

Can't explain

(Foto di Gillipixel)

Con forma indecifrabile fluttua la presenza degli altri nella percezione delle epoche della nostra vita. Persone intorno, come bagliori di calore impalpabile. Ci si adagia nel tepore della confidenza, in quell’odore domestico emanato dal riflesso così familiare di questi focolari-anima.

Da bambini l’adesione è totale, senza cautele, spontanea. Non si immagina il distacco, semplicemente non se ne ha concetto. La memoria amniotica è ancora troppo viva, la pienezza del sogno placentare ci vela ancor troppo pesantemente lo sguardo.

È all’illusione di quel sogno che confidiamo di aggrapparci ancora, ogni volta che conosciamo di nuovo. Nuovi amici, nuovi amori (corrisposti o no), nuovi colleghi, nuovi vicini di casa, nuovi negozianti, nuovi gatti, nuovi baristi. Nuovi vivi. Si riplasma ogni volta la nostra mappa del calore umano.

Il segreto è un inganno fatto a noi stessi. Il segreto è imparare a saper dosare la tensione del nodo, che nessun legame può durare sempre. Il segreto è saper suggere, da quel fiore-calore, la misura esatta della sua fugace fragilità.

Un’oncia di polline in meno e non si potrà veder gocciolare miele di sorrisi, baci, attimi di convivio dello spirito, di fusa, o il ricordo vitale di tutto questo.

Un’oncia di polline di troppo e sarà sofferenza un giorno ad otturare le cellette in cerulei esagoni ormai disseccati d’affetti e di vicinanze.

Tutto questo solo per lo spostamento di alcuni colleghi nel vasto open space dell’ufficio. A volte basta che la temperatura del calore umano in cui siamo immersi si scosti di una frazione insignificante di grado dallo stato di equilibrio raggiunto, e ci si rende conto di quanto delicata sia quella proporzione.


Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.


Salvatore Quasimodo

Acque e terre” (1920-29)


Got a feeling inside (Can't explain)

It's a certain kind (Can't explain)

I feel hot and cold (Can't explain)

Yeah, down in my soul, yeah (Can't explain)


Can't explain I think it's love

Try to say it to you

When I feel blue


The Who (1965)