lunedì 31 ottobre 2011

Specchi d’altro

Senza dubbio la vita è una dimensione di gran lunga sopravvalutata.

Il problema che di fatto sia l’unica unità di misura esistenziale a nostra disposizione, è tutto un altro discorso. Avendone tuttavia potuto contrattare a tempo debito le regole col sostegno di sindacati più influenti, si sarebbe riusciti a spuntare qualcosa di meglio.

Scivoliamo via lungo la prima decina d’anni, qualche mese più qualche mese meno, immersi in una sorta d’incanto entro il quale i confini del respirare e del meravigliarsi si confondono in labilissime sfumature. Scoccato l’undicesimo o il dodicesimo compleanno poi, tutto il resto del tempo lo trascorriamo a crogiolarci nello spasmodica bramosia di essere qualcun altro rispetto a chi siamo.

Di colpo, con la stessa stupita rapidità (o rapita stupidità, non cambia granché…) con la quale ci rendiamo conto di essere stati invasi dai peli nei più curiosi recessi del corpo, non vorremmo più essere noi.

Chi ha un’indole pacata e cortese, prende ad invidiare gli scavezzacolli. Chi è irruente ed immediato nei modi, spererebbe magari in maggiori ponderatezze, in una misura più controllata nel fare e nel dire. Ciascuno insomma, intorno agli albori di quella seconda decade della propria esistenza, si sente dentro alla propria identità come se vestisse un abito oltremodo sottotaglia. Tutti presi dal formicolio della stessa medesima urgenza di volerselo cavare di dosso. Anche il rischio di ritrovarci semplicemente nudi siamo disposti a correre, pur di non essere più quelli che siamo.

Questa fregatura si chiama adolescenza, una malanno che s’infiltra tanto profondamente dentro noi da non lasciarci guarire poi mai più fino in fondo.

Ricordo che la mia fame di diversità si manifestò ad un certo punto con risvolti particolarmente bizzarri. Nel momento che la si attraversa non ci si rende bene conto di cosa stia accadendo. Sono cose che si focalizzano meglio di seguito, una volta rielaborato l’uragano di sensazioni e di vibrazioni in cui si è capitati.

Quello che accadde, di fatto, fu che mi misi ad invidiare la cattiveria.

A scuola me la sono sempre cavata bene, anche se a dire il vero non mi sono mai ammazzato di fatica sui libri. O meglio, il mio impegno ha oscillato spesso tra momenti di intense impennate e altri periodi di più placide cavalcate al trotto leggero. La riflessività e la capacità d’introspezione non mi sono mai mancate. Forse era soprattutto grazie ad esse che nello studio la sfangavo con una certa agevolezza.

Il periodo in cui desiderai essere cattivo non durò a lungo. Anzi, volendo si può condensare in un episodio preciso, o in pochi episodi tutti collegati ad una vicenda comune. Nei pressi del luogo di ritrovo più frequentato dai ragazzini della mia età, c’era pure l’abitazione di una vecchia più bisbetica che cattiva, suonata al punto giusto da meritare piuttosto il compatimento anziché astio e malevolenza di ritorno.

Ma si sa, il cucciolo d’uomo in quel periodo della vita risulta spesso perfido ed irragionevolmente litigioso, tanto che pian piano, come una piccola valanga di eventi frammentari che si andarono sommando di giorno in giorno, andò a finire che scoppiò la guerra con “La Vecchia”. Un minimo screzio aveva portato ad una discussione, a sua volta ingrossata da altri scontri e così via, in un crescendo di dispetti, bravate, urla e sguaiataggini da entrambe le parti.

La mia genialità a scuola non era mai stata esagerata, come detto, però sufficiente da farmi rimanere al di fuori da tutto quel trambusto, in particolare per la gran pena provata e distribuita un po' su entrambe le parti contendenti. I ragazzi erano spietati ed ottusamente ostinati nella loro battaglia senza senso, mentre nemmeno “La Vecchia” aveva quei pochi grammi d'intelligenza necessari a capire che ignorando un paio di volte le provocazioni, avrebbe potuto smorzare senza tanta fatica la furia sgangherata di quei teppisti più stupidi che malvagi.

A gragnuole di fango dal basso, indirizzate contro le serrande, facevano seguito secchiate d'acqua calda distribuite dall'alto a sorpresa sulle truppe nemiche, fra alterni rumoreggiamenti di tapparelle calate di botto e rialzate altrettanto fragorosamente, a sottolineare la grandi manovre che “La Vecchia” metteva in atto scorrazzando di stanza in stanza, per sorprendere l'orda invadente appostata sotto l'una o l'altra finestra del primo piano in cui abitava.

Fu un pomeriggio di bruma autunnale, quello durante il quale invidiai la cattiveria e la stupidità degli altri ragazzi, indaffarati in quella pratica demenziale. Ero stufo della mia pacatezza, di essere posato e ragionevole. Desiderai diventare stupidamente spietato come loro, perché se nella loro incoscienza erano capaci di comportamenti simili, mi immaginavo che la lacerante tristezza dell'essere adolescenti non fosse ancora riuscita a penetrare le loro menti e i loro cuori. Come se la cattiveria avesse potuto ridonarmi l'incantata spensieratezza infantile appena perduta.

La mia invidia di concretò in un unico e poi mai più ripetuto attacco, sferrato contro la casa della “Vecchia”. Appostato dietro il riparo dell'edificio vicino, usato spesso come trincea per gli scontri, mi unii al piccolo esercito dell'idiozia, rasentando il muro con le spalle e sporgendomi giusto il tempo di scagliare, non ricordo più bene se una o due sassate, oppure manciate di terra fradicia contro la roccaforte “vecchiesca”.

La sensazione provata in quei pochi secondi la compresi fino in fondo solamente diversi anni dopo, quando mi capitò di vedere quel capolavoro del cinema che è «Full metal jacket». In una scena ambientata nella camerata degli allievi marines, una notte tutta la compagnia decide di compiere una missione punitiva per dare una svegliata al soldato “Palla di lardo”, che con il suo comportamento tragicamente goffo ed involontariamente sguaiato, sta procurando a tutti i soldati una serie di punizioni inferte dal tremendo sergente addestratore.

La scena è terribile, di una cattiveria inaudita, capace di rivangare nell'istintualità umana primordiale più remota, come spesso succede con certe suggestioni kubrickiane. Il povero “Palla di lardo” viene immobilizzato da alcuni commilitoni che lo “fasciano” contro la branda tenendolo fermo con diversi asciugamani passati trasversalmente da parte a parte del letto, chiudendogli in quel modo anche la bocca. Il resto della truppa, armato di saponette arrotolate in altri asciugamani, passa poi in rassegna lungo il giaciglio del malcapitato, assestando pesantissime frustate sul suo corpo inerme, dal quale si elevano lamenti strazianti.

L'ultimo della fila è il soldato “Joker”, colui che più di tutti si era preso a cuore il caso del soldato pasticcione “Palla di lardo”, cercando di aiutarlo a recuperare nell'addestramento e a non commettere più pericolosi e sguaiati errori. “Joker” esita pesantemente, preso nella morsa di una conflitto interiore fortissimo, ma poi, anche cedendo alle esortazioni di un altro soldato, sferra ripetuti colpi sul corpo ormai acciaccato di “Palla di lardo”, con una cattiveria ottusa che non conosce altra ragione che se stessa.

Pur nelle ovvie differenze di proporzioni epiche, la mia sassata scagliata contro la dimora della “Vecchia” era stata innescata da moventi simili a quelli del soldato “Joker” nel mazzolare “Palla di lardo”. Mi ero lasciato risucchiare dal “gregarismo” obnubilante, rifiutando di essere me stesso pur di trovare sollievo al mio disagio di vivere abbandonandomi senza riserve alla miopia collettiva.

Fortunatamente fu soltanto un episodio sporadico. Mi sentii immensamente stupido, quasi in tempo reale, ma di quella stupidità sana che fa comprendere l'inutilità della fuga da se stessi. Questo non fu il solo fatto che mi fece capire i meccanismi del diventare grandi, ma di certo quella volta andai un passo più vicino al rendermi conto di come la nostra indole vera, il nostro carattere più genuino, sono i soli luoghi al mondo dai quali non ci potremo allontanare mai.

Mettendo in conto le dovute sofferenze, ovvio.

venerdì 28 ottobre 2011

Due volte te


Dopo l’ultimo exploit stra-filosofardo messo in atto con l’articoletto precedente, per continuare a mantenere alto il tono culturale del mio blog, affronterò questa volta una tematica di grado intellettuale veramente elitario.

Oggi vi parlo infatti di tette.

Ma non temete (oppure, secondo i punti di vista, non sperate…): non si tratterà di una svolta erotica. Certo, le riflessioni incontrate non si aggireranno molto lontano da quei dintorni argomentativi, ma più che altro si andrà a parare dalle parti di un nuovo vagabondaggio dietro ai pensieri, i più svariati. Se poi stavolta ci sono capitate di mezzo anche le tette, vi garantisco che si è trattato soltanto di un puro caso.

Si narrerà di come la tetta rimanga tuttora la prova tangibile (e viene fatto di dire: beato chi la tange…) di un sommo mistero nell’ambito dell’economia estetico-corporale, in virtù del suo rappresentare al meglio la tendenza secondo cui i significati attribuiti, per quanto improbabili essi siano, tendono a tramutarsi quasi immancabilmente in significati comunemente accettati. Cosa vuol dire tutto ciò? Di preciso non lo so nemmeno io, ma tentiamo di capirlo insieme.

Vedevo su un qualche sito, ora non ricordo più nemmeno quale, una foto. C’erano queste signore immerse in una grande vasca di liquido biancheggiante, molto simile al latte, se non effettivamente latte. Una di esse, ripresa in primo piano, era immersa con il livello latteo che le demarcava il confine fra nudità ed aree coperte all’altezza del busto, svelando e nascondendo esattamente come avrebbe fatto un reggiseno. Sul piano della sensualità, l’insieme compositivo fotografico risultava di grado piuttosto intenso. La linea di galleggiamento sulla quale il decolté si andava attestando era prodiga di mille suggestioni ed attrattive estetico-sensuali. Suggeriva idee di un abbraccio liquido particolare ricevuto dalla parte in questione. Ispirava sensazioni di immersioni dense e “lutulente” (chissà da quali anfratti della memoria mi è tornato a galla questo termine aulicissimo: verificando, ho appurato che non a caso lo stesso D’annunzio lo sfoggiò fra le sue diavolerie linguistiche e significa melmoso, immerso nel limo).

Tornando alla foto, di fatto, avendo l’opportunità di assistere in diretta e dal vivo a quella scena, se il livello del latte fosse sceso di colpo fino a lasciare scoperta l’effettiva nudità della donna, l’effetto di attraente misteriosità erotica non sarebbe stato all’altezza di quello sprigionato nella situazione descritta. E’ stato lì che mi è venuto da chiedermi come mai un seno occultato possa risultare più provocante ed ammiccante di uno scoperto, e simili interrogativi affini.

Lo so, si obietterà: invece di farti tante domande sulla misteriosa entità globulare binata, non sarebbe meglio adoperarsi per condurre indagini sul campo più strettamente a contatto con l’oggetto di studio in questione? Più che d’accordo, ma nell’immediato, la cosa più diretta che mi riesce di fare è continuare ad inseguire la fascinazione concettuale. Per il resto si vedrà.

La tetta, fra i vari “componenti” del corpo umano più in evidenza (escludendo dunque i più occulti ed intimi) è forse uno di quelli maggiormente carichi di significati aggiunti, di attribuzioni di senso che esulano da funzioni strettamente anatomiche. In altre parole, la tetta, da un punto di vista della forma, è la più gratuita fra le porzioni del fisico umano, la meno finalizzata ed utilitaristica.

La mano è così conformata in ordine al suo essere prensile; la gamba ha quella sagoma pieghevole e tutto il resto, per agevolare il passo e in generale il movimento nella postura eretta; l’orecchio è un imbuto per incanalare i suoni; le labbra sono strumenti sonori per la parola, ma anche “portinai” addetti alle funzioni alimentari; e così via.

La tetta no. Lei è forse l’unica a possedere più significati che funzioni strettamente definibili. Anche il suo “incarico ufficiale”, così come previsto da copione biologico, ossia l’essere atta all’allattamento, non riesce a spiegare sino in fondo la necessità di una sagoma globulare e rotondeggiante siffatta. Un gran numero di altri mammiferi adempiono al medesimo compito con “attrezzature” molto meno evidenti.

Persino il più stretto suo cugino, quello che spesso e volentieri va con lei di pari passo in abbinata citazione, ossia “messer lo sedere”, risulta più utilitaristico nelle sue fattezze. Serve alla seduta, come denota per l’appunto anche il suo appellativo più eufemistico; serve poi a quel che non sto lì a rammentarvi che serve, grazie alla sua fessurata conformazione. Anche il sedere stesso insomma, pur stracarico com’è esso medesimo di sovrastrutture sensuali, conserva una dimensione funzionale ben motivata nelle sue sagome.

La tetta rimane invece irremovibilmente più significativa che utile.

Tanto che, come accennavo già, si stenta talvolta ad entrare nei meccanismi responsabili di questa significatività. Come quello che stabilisce la differenza di potenziale erotico insita in un seno scoperto rispetto a quella di cui è portatore un seno coperto. E’ buffo, ad esempio, come venga convenzionalmente considerato coperto, e quindi comunemente sfoggiabile come parte di corpo “vestita”, un seno portato sin quasi al limite estremo del disvelamento, con scollature o striminziti mascheramenti che lasciano l’immaginazione praticamente disoccupata. Mentre poi, basta l’ulteriore scopertura di un mm. in più di epidermide, laddove la sua porzione brunita sconfina nel contorno dell’apice puntuto, per cadere direttamente nello sterminato nuovo universo della nudità.

Come possiamo constatare dunque, le tette non si limitano a rappresentare solamente quell’oggetto di svago che secondo la tradizione sarebbe da assimilare ai trenini, in quanto entrambi progettati per i bimbi, ma capaci allo stesso modo di fare molto contenti anche i papà.

Le tette ci forniscono bensì anche utili insegnamenti sulla vita in generale, ricordandoci come molto spesso i significati attribuiti agli eventi si impongano in virtù di percorsi che poco hanno a che vedere con la logica e con la consequenzialità razionale.

Tanto che, parafrasando i latini, potremmo quasi concludere con la rinnovata sentenza: «…Titta magistra vitae est…».

lunedì 24 ottobre 2011

SchopenEinsteinasso


AVVERTENZA: quanto segue è uno dei più potenti pipponi filosofardi che mi siano mai scappati fuori dalla penna. Fate un po' vostri conti, ma poi non dite che non vi avevo avvisato…

*******

Cari amici viandanti per pensieri, aprite bene gli occhi e spalancate a tutta valvola la vostra permeabilità neuronale, che oggi vi proprino una roba assai ostica anziché no.

Tiè:

«…Ciò che la legge di causalità determina non è dunque la semplice successione degli stati nel tempo puro, ma nel tempo relativo ad uno spazio dato; e parimenti tale legge determina non l’esistenza dei fenomeni in uno spazio puro, ma in uno spazio relativo ad un determinato istante. Il cambiamento, cioè la trasformazione che sopravviene secondo la legge causale, esige dunque in ogni caso che una data parte dello spazio sia in corrispondenza simultanea con una data parte del tempo. La causalità collega quindi lo spazio con il tempo. Ora noi abbiamo trovato che tutta l’essenza della materia consiste nell’azione, quindi nella causalità; pertanto spazio e tempo devono essere riuniti nella materia, la quale deve cioè simultaneamente conciliare in sé, nonostante il loro antagonismo, le proprietà del tempo e dello spazio, e riunire, cosa che è impossibile in ciascuna delle due forme isolata dall’altra, l’inconsistente fuga del tempo insieme con la rigida e immutabile persistenza dello spazio…»

Il mondo come volontà e rappresentazione
Arthur Schopenhauer – 1819

Il passo cruciale è questo: «… Ora noi abbiamo trovato che tutta l’essenza della materia consiste nell’azione, quindi nella causalità; pertanto spazio e tempo devono essere riuniti nella materia…».

In che senso la materia è causalità? Sostituiamo la parola “causalità” con il verbo sostantivato “divenire” e probabilmente tutto diventa più chiaro. La materia è continuo divenire, è incessantemente causa ed effetto di se stessa. Questo lo possiamo cogliere molto più direttamente, anche sul piano intuitivo. Ciò che una data porzione di materia è ora, rappresenta l’effetto di ciò che essa è stata in momenti di tempo anteriori e la causa di ciò che essa sarà in momenti di tempo posteriori.

Ora fate bene attenzione, amici. Se a questo punto vi scrivo appena qui di seguito queste tre fatidiche letterine iper-famose, con tanto di coda adorna del suo inseparabile leggiadro numerello, non vi cappottate sulla sedia dalla meraviglia epifanica?

Attenti…ecco:

E=MC²

Con l’equazione più famosa di sempre, praticamente un secolo dopo, un altro grande genio del pensiero, Albert Einstein, dice dunque una cosa analoga a Schopenhauer. Qui si sfiorano temi superbamente inaccessibili alle modeste possibilità scientifiche di un povero campagnolo cimiciaio, ma pure io, nel mio piccolo, arrivo a capire dalla brevissima, ma assai complessa equazione, come la materia non sia altro che un impasto di tempo e spazio.

A garantircelo ci sta lì apposta quella “C” attraverso la quale si indica la velocità della luce. Una velocità è commistione di spazio e di tempo per eccellenza (Velocità = Spazio / tempo – chilometri all’ora, metri al secondo, miglia al minuto, pollici alla mezza clessidra, e così via…). Inserita da Einstein nella sua “affermazione” matematica, questa particolare velocità dona il nuovo senso di dinamismo alla materia, anzi, all’energia (“E”), che altro non è se non l’antica materia vestita coi calzoni della festa della modernità e della nuova consapevolezza del suo impasto spazio-temporale.

Ma le sorprese non finisco qui. Non perdiamo di vista il fatto che uno dei due temi fondamentali del tomo di Schopenhauer afferma che il mondo è “rappresentazione”, ossia che la realtà esiste soltanto in quanto filtrata soggettivamente, e leggiamo ancora:

«…In primo luogo noi vediamo quindi il prodursi nella materia della simultaneità, che non poteva sussistere nel tempo puro, il quale non ammette giustapposizioni, né nel puro spazio, che non conosce alcun innanzi, dopo e ora. Ma la vera essenza della realtà è precisamente la simultaneità di parecchi stati, che sola rende possibile la durata: questa infatti non è concepibile che nel contrasto fra il cangiante e il permanente […] Entro lo spazio puro il mondo sarebbe rigido ed immobile; nessuna successione, nessun cambiamento, nessuna attività […] Parimenti, nel tempo puro tutto sarebbe transeunte; non più permanenza, non più giustapposizione, non più simultaneità, quindi non più durata: e, anche in questo caso, non più materia. Soltanto la combinazione dello spazio e del tempo dà vita alla materia, ossia alla possibilità dell’esistenza simultanea; sorge così la durata, che a sua volta rende possibile la permanenza della sostanza nel cambiamento degli stati…»

Il mondo come volontà e rappresentazione
Arthur Schopenhauer – 1819

Facciamo adesso un balzo interdisciplinare e adagiamoci in comoda planata sulla pista d’atterraggio del mondo artistico:

«…Ora, un piatto posato su una tavola si vede come una forma ellittica, ma si sa che invece è rotonda: poiché nell’ordine mentale, tra ciò che si vede e ciò che si sa non v’è differenza di valore, si sviluppa nel quadro anche la rotondità del piatto, cioè si dà a ciò che sta nella terza dimensione la stessa certezza che hanno i valori misurabili sulle coordinate verticali e orizzontali. Con la nozione dell’oggetto (che si ha da prima) entra in gioco il fattore tempo: è come se prima si vedesse il piatto come forma ellittica e poi, mutando la sua posizione nello spazio, come forma tonda, o come se muovendosi intorno all’oggetto e mutando il punto di vista, prima lo si vedesse ellittico e poi tondo. Se ne deduce che, se nella veduta empirica lo stesso oggetto non può trovarsi nel medesimo tempo in luoghi diversi, in quella realtà tutta mentale che è lo spazio (come realtà ordinata e configurata nella coscienza), lo stesso oggetto può esistere con più forme diverse…».

Quest’ultimo brano è tratto dal quarto volume della storia dell’arte di Giulio Carlo Argan. Precisamente il professor Argan sta qui illustrando i significati espressivi e la poetica del movimento pittorico del Cubismo, “inaugurato” da George Braque e da Pablo Picasso, ma soprattutto sviluppato da quest’ultimo alle sue massime potenzialità culturali.

Les demoiselles d'Avignon - Pablo Picasso, 1907

Ancora una volta dunque, più o meno un secolo dopo, grosso modo in contemporanea col caro Albertino, anche il buon Pablito giunge a dire cose analoghe a quanto già anticipato dal vecchio Arturo (nei due ultimi brani citati, ho evidenziato in rosso i passaggi che presentano una certa armonia concettuale).

La realtà di cui possiamo parlare è imprescindibile dalla rappresentazione soggettiva. La coscienza che abbiamo del mondo è l’unica verità di cui possiamo disputare, l’unica base di confronto. L’esistenza di una “oggettività esterna” indipendente dalla coscienza non è questione che si possa porre sotto l’egida della conoscibilità, perché tutto il reale, ma proprio tutto, passa attraverso il filtro percettivo e cognitivo del soggetto. Quello di cui siamo consapevoli, quello che ci consta, è tutto ciò “che è”, e nulla si può “filosoficamente” dire riguardo a ciò che sta al di fuori della consapevolezza del soggetto (e va sottolineato tre volte: “filosoficamente”).

Dal che si deduce anche, come corollario, che da un punto di vista picassiano e cubista, la nuova presa di coscienza non poteva far altro che spazzare via secoli e secoli di rappresentazione pittorica della realtà parzialmente ripresa da punti di vista fissamente e staticamente bidimensionali, che a quel punto apparivano alla nuova consapevolezza artistica come sommamente impotenti nel compito di cimentarsi col racconto del mondo.

Se il mondo è rappresentazione (ossia, è innanzittutto ciò che di esso "si sa"), per renderne conto in misura fedele non potremo prescindere dalla simultaneità (che è amplificazione dei mille punti di vista dei quali abbiamo coscienza, al di là di quello singolo derivato dalla visione statica nello spazio e nel tempo).

Ma la questione ultima, cari amici viandanti per pensieri, quella più controversa, sempre ammesso che il rivestimento in titanio dei vostri zebedei abbia retto fino a qui all’impatto tremendo con la pallosità del presente articoletto, la questione ultima, dicevo, credo vi sarà balzata a questo punto alla mente con somma impellenza.

E la questione è questa: perché rovinarsi la vita con questi intorcinamenti mentali, quando al mondo non c’è che l’imbarazzo della scelta fra mille e un’altra attività piacevole da fare?

Bella domanda, questa. Proprio una bella domanda…

sabato 22 ottobre 2011

Geografia libraria


Quando ci viene chiesto quanti generi di libri esistono, risulta quasi spontaneo partire col nostro classico bell’elenco: s’inizia dalla narrativa in genere, a sua volta suddivisa in romanzi di stampo per così dire “classico”, e poi gialli, thriller, avventura, spy-story, romanzi storici, horror, umoristici. E poi ancora c’è la saggistica, sia essa storica, scientifica o di carattere filosofico, sociologico, oppure di taglio critico, sia artistico, cinematografico, teatrale, poetico, e così via, in un bel groviglio di tipologie e sottotipologie tematiche. Insomma, non c’è bisogno che scriva tutta la lista completa per capire che ci siamo capiti.

Leggendo in questi giorni un certo libro, mi sono reso conto tuttavia che questo stuolo di classificazioni potrebbe essere inglobato in una molto più generale, suddivisa in due categorie soltanto: quella dei “libri mappa” (altrimenti detti “libri sorvolabili a volo d’uccello”), e quella dei “libri territorio” (altrimenti detti “libri attraversabili a piedi”).

Lo so, lo so cosa state pensando: ecco qua, un’altra delle solite gillipixate. D’accordo, in parte è così, ma se mi lasciate spiegare un po’, converrete con me che alla fine la questione non è poi così marginale e gillipixevole.

I “libri mappa” sono quel tipo di testi impostati dall’autore secondo un criterio argomentativo piuttosto sintetico e ben ordinato. Nel corso della lettura, si ha sempre ben presente la propria posizione rispetto all’insieme totale del materiale raccontato. Sappiamo in ogni momento abbastanza bene dove ci troviamo in rapporto all’intera lunghezza del testo. Con un “libro mappa” si ha una buona consapevolezza del percorso che l’autore ci vuole condurre a fare insieme a lui, tramite le sue argomentazioni. Non solo si ritorna mentalmente alle parti già lette con una certa agevolezza, ma si riesce anche a prefigurare per grandi linee lo sviluppo del discorso che lo scrittore ci va facendo. Di solito, in questo caso, il gioco è tanto efficace quanto più l’autore è bravo ad introdurre una o più tesi di fondo, che sorreggono tutta l’impalcatura del libro, funzionando appunto come gli elementi descrittivi di una mappa geografica: diventano il nostro grafico mentale fatto di linee e macchie di colore sulla carta, rappresentanti strade, isolati di edifici, canali, fiumi, e così via.

Tutt’altra cosa sono i “libri territorio”. Qui l’autore ci fa calare nel bel mezzo del “materiale vivo” del suo raccontare, ci abbassa a livello del suolo, in un invito più o meno voluto a mescolarci ai personaggi ed alle tematiche presentate. Impostare il proprio modo di scrivere sui criteri della “territorialità” si avvicina molto meglio all’atteggiamento di chi si pone nel flusso della vita in presa diretta. I “libri territorio” si attraversano più con lo spirito di chi vive alla giornata, con lo stato d’animo dell’esploratore, dello scopritore di novità. In questo senso, essi possono risultare efficaci esaltatori di una modalità del raccontare molto ricca e variegata, fertile di suggestioni ed invenzioni. In questo caso, se il gioco è ben giocato da chi scrive, lo smarrimento del lettore si tramuta in pregio, la indotta privazione della facoltà di vedere oltre la pagina sulla quale lo sguardo sta scivolando diventa l’atmosfera stimolante e caratterizzante l’intero clima del libro.

Ovviamente, come accade ogni volta che si tenta di definire delle “tipologie”, anche nel mio caso quelli che ho esposto sono i caratteri “puri” del “libro mappa” e del “libro territorio”. Difficilmente troviamo libri che siano interamente ed esclusivamente “mappa”, oppure interamente ed esclusivamente “territorio”. Una scelta così netta è riservata probabilmente solo ai grandissimi maestri. Per la maggior parte degli scrittori invece, anche quelli parecchio bravi, per carità, la via più sicura è prendere un po’ da tutte e due le modalità. Affidarsi infatti in modo esclusivo ad una o all’altra, comporta notevoli rischi e possibili inconvenienti.

Chi fa del suo libro soltanto una “mappa”, corre il pericolo di andare a finire a capofitto nella prevedibilità più lampante. Lo scritto sarà bello pulito, lineare, composto, nessuno dice di no, ma potrà altresì risultare di scarsa personalità, pochissimo o per niente sfaccettato, privo di quelle impennate e di quegli scarti argomentativi preziosi, che quando si incontrano nel corso della lettura, trasmettono la sensazione di stare suggendo direttamente dal puro “midollo concettuale” di un tema o di un personaggio tratteggiato. Lo scritto “a mappa” è soggetto insomma a possibili sensazioni di distacco, di scollamento eccessivo dal cuore vero di tutto il materiale raccontato.

La scelta del libro esclusivamente “territoriale” comporta invece probabili intoppi di diversa natura, ma pur sempre non meno gravi. Il lettore può trovarsi ad aver che fare con una matassa della quale stenta a prendere in mano un qualche bandolo di senso. Il corso del racconto si fa un labirinto, capace di trasmettere impressioni di smarrimento destinate a quel punto a mutarsi solamente in aperto fastidio. Gli elementi proposti possono presentarsi farraginosi, buttati su a casaccio, si perde una qualsivoglia visione d’insieme. Si stenta a trovare un legame, un nesso, tra il «prima» e l’«adesso» della lettura, faticando parecchio anche ad ipotizzare un plausibile «dopo».

Non starò nemmeno lì a dirvi qual è stato di preciso il libro che mi ha innescato in mente tutta questa serie di considerazioni, per non denigrarlo involontariamente. Si tratta tutto sommato di un buon libro, che pure concede troppo al “territorio”, trascurando più del dovuto la “mappa”. Del resto, ciascuno di voi, cari amici viandanti per pensieri, facendo mente locale a libri incontrati nel corso del proprio cammino di lettore, potrà fare le debite considerazioni, ponendole sotto la luce critica della mia odierna dissertazione.

Un'ultima cosa, prima di chiudere la presente sproloquiata, mi piace in ogni caso ribadirla: da tutto il discorso si deduce come, una volta soppesati i vantaggi e gli inconvenienti di una posizione "raccontante" sulla “mappa” o di una immersa nel “territorio”, il bravo scrittore risulta colui che sa capire quando è il momento di camminare a braccetto coi suoi argomenti e personaggi, oppure quando serve alzarsi in volo per poterli contemplare dall’alto.

*******

Ah, amici: vi ricordo che appena sotto, per chi se lo fosse perso o non ci avesse fatto caso, c'è ancora da leggere un fantasmagorico articoletto nel quale si narra come si possa imparare qualcosa sulla vita anche dalle cimici... :-)

giovedì 20 ottobre 2011

Il paradigma cimicéo


«...Pretending to be pilots in a war
Pretending to weave between the flak
No-one knows what the mission’s for
Blinkered horses on the track...»

The light is always green (for young male pop star)
The Housemartins - 1987

*******

Qui a Gillipixiland e nel contado complanare, la codata finale di caldo estivo ha lasciato come strascico la presenza di un sovrannumero di cimici, tuttora presenti in quantità discreta. Ad essere un imperfetto campagnolo, ti capita pure di rimarcare certi periodi del tempo che trascorre con l’accentuarsi di fenomeni naturali più o meno evidenti.

L’era delle cimici vera e propria si verificò a dire il vero alcuni anni fa. Al confronto, la blanda rimpatriata grigio-verdastra di questa volta non è niente. Allora fu una vera e propria piccola invasione: le trovavi annidate in tutti i pertugi, facevano kafkianamente capolino nella loro altissima densità di popolazione condensata in qualunque recesso inatteso.

Quando la natura esorbita dalle misure, incute un timore boia. Senti subito odore di stonatura, c’è qualcosa che non ti quadra, anche se non sapresti dire bene cosa. Non a caso, intorno a simili tematiche e alle atmosfere da esse scaturite, sono state imbastite decine di opere narrative di svariato genere e altre sbalorditive “stupefacenze” dell’«invento raccontatorio» (film, opere teatrali and so on). Oltre alla «Metamorfosi» di Kafka, ricordo un altrettanto inquietante racconto di Italo Calvino, «La formica argentina», e uno intitolato «I topi», di Dino Buzzati, un altro narratore che sapeva bene il fatto suo quando si trattava di far sentire certi formicolii imprecisati lungo la schiena del lettore.

La folata “cimicéa” di questi giorni, come vi dicevo, non è esagerata. Diciamo che ce ne sono parecchie e ben al di sopra della media, ma non in misura esasperante come in quella memorabile occasione. La cimice è un esserino strano, un po’ buffo e un po’ ributtante. Magari sei che lì ti guardi la tele di sera a luce spenta, con ancora i vetri aperti perché la temperatura lo consente, e senti un ronzio frulloso nella stanza, intervallato da piccole bottarelle assestate a casaccio contro il soffitto. Sei al buio e non vedi, ma stai sicuro che è una cimice.

Quel modo di volare da crisi etilica entomologica lo sfoggiano soltanto loro. Non sono mica buone di volare, ci sono poche balle, ma non per questo loro si scoraggiano. La fase che gli riesce peggio è di certo l’atterraggio. Di botto senti il ronzio e i colpetti al soffitto interrompersi e poi, pochi secondi dopo, un piccolo tonfo leggermente più sonoro. A quel punto, vuol dire che il “DCimice10” ha toccato goffamente terra o la prima superficie dura a disposizione. Non sanno planare, c’è poco da fare. Chissà cosa passa per la loro piccola mente, quando decidono di lanciarsi in uno di quei loro voli sgangherati, che ad andare a piedi arriverebbero prima: «…Dai, via: ci riprovo, chi se ne fotte. Pronti? Decollo!!! Oh mama mia, oh mamamia! Zzzbunf, zzzbunf! Bestia se è duro li su. Frrrrbunf! Adesso atterro, adesso atterro!!! Oooooohhh - sbanf – paha - taciànf!!! Eccheccazz – minch – de - pork…».

Altra peculiarità della cimice, e non c’è bisogno di essere un campagnolo da due soldi come me per saperlo, è che puzzano. Deve essere una loro strategia difensiva, anche se non so bene se sono dotate di un sistema di emissione puzzosa, un po’ come la moffetta. Se così è effettivamente, probabile che la cosa funzioni soltanto con gli altri tizi loro pari grado, ossia con gli altri insetti che vanno a rompergli le scatole. Quando si tratta di confrontarsi con le mastodontiche, per loro, dimensioni umane, l’unica occasione in cui la strategia funziona è anche quella più tragica e definitiva: quando vengono spiaccicate. Anche in questo loro aspetto, come nel caso del “modus volandi” adottato, c’è un qualcosa di eroico, incosciente e strampalato. Il loro ultimo pensiero dev’essere: «…Bene, mi spiattelli? Allora beccati ‘sta zaffata, tiè!!!...».

Non a caso, l’ennesima cosa curiosa è che le cimici si vanno spesso e volentieri ad annidare nelle zone della casa caratterizzate da una probabilità “spiaccicatoria” per loro elevatissima. Tipico: loro adorano farsi delle ore intere posate sui battenti delle finestre, ovvero su tutte quelle superfici di un'anta, di uno scuro, di una persiana, di un telaio, che nel corso della giornata prima o poi sono destinate ad andare a combaciare con la rispettiva porzione lignea ad aderenza.

Quando ciclicamente si ripete un periodo “cimicéo” come quello in corso, ogni volta che chiudi una finestra, è quasi matematico udire una sorta di sgradevole “sckrrrcièffff”! Un’altra piccola cimice che se n’è andata.

Possibile che si vadano a piazzare sempre lì, mi sono chiesto tante volte. L’unica risposta che mi so dare è che con questo supremo sacrificio forse assolvono ad un loro eroico compito di monito rivolto all’insegna dell’uomo. Metti che hai passato una bella serata al cinema o in altri gradevoli luoghi, con gli amici, con la persona alla quale vuoi bene, o simili. Rientri a casa con ancora in mente tutte le belle sensazioni provate, socchiudi la finestra perché la brezza notturna non risulti troppo invadente, e lo “sckrrrcièffff” cimicèo ti arriccia la nuca con quel suo retrogusto amaro, metà senso di colpa, metà spiacevolezza gratuita.

Ti sovvengono allora tante occasioni bislacche piovute fra i piedi come lampi a ciel sereno, tante situazioni in cui ti sei ritrovato a fronteggiare inattese scartavetrate esistenziali assestaste dal destino baro e cinico allo scorrere apparentemente liscio del tuo vivere. Una frase detta senza volere, esattamente nel momento più sbagliato possibile; un atto che andava assolutamente evitato, ma che una chissà quale misteriosa impellenza ha fatto compiere ottusamente: queste e tante altre “sbilencaggini” ti riporta alla mente con il suo atto estremo la bestiolina verde, sempre pronta al sacrificio per ricordarti che in tutte le dimensioni della vita, incappare nel momento della stonatura è sempre un attimo.

domenica 16 ottobre 2011

I signori della Bruttezza


Cari amici, risulta molto duro di questi tempi potersi lasciar andare ad una sana e spensierata pratica del più puro ed incontaminato vagabondaggio per pensieri. Come credo anche molti di voi, ieri ho seguito per quasi tutta la giornata i tristi avvenimenti di Roma e con uno spettacolo simili ancora negli occhi e nella mente, è quasi impossibile pensare leggeri.

Non è mia intenzione addentrarmi in analisi “socio – atropo- economico – politiche” del caso, o simili. Non credo di avere la competenza necessaria, l’argomento è vastissimo, molto complesso, e finirei per sparare le solite ritrite considerazioni da bar. Quello che volevo scrivere invece sono alcune piccole considerazioni a modo mio, che buttano sempre un po’ sul “filosofoide”, lo sapete, e all’apparenza magari non c’entrano una mazza con niente, ma se le si guarda meglio, hanno ogni volta il loro perché.

Al di là del naturale moto di sdegno e rabbia causato da quella minoranza violenta che si è mossa così mefiticamente fra i manifestanti “veri”, mi sono domandato cosa significasse questa frangia di devastatori ad un livello ontologico, ossia nell’ambito della, per così dire, “economia dell’essere”.

Dopo attenta riflessione mi sono risposto e credo di aver colto il significato più profondo di quelle persone. Simili individui non significano altro se non “il Nulla”. Sono l’esatta negazione dell’essere, si situano precisamente agli antipodi di esso. Più precisamente, sono il preciso annichilimento di tutto quanto significhi essere uomini in questa vita. Ragionamenti simili non me li sono ritrovati in mente come calati dall’alto, ma vengono fuori da diverse altre riflessioni.

Di quale peculiare dimensione questi individui si fanno infatti evidenti portatori? Su questo non ho il minimo dubbio: sono una delle più lampanti espressioni della”Bruttezza”. In qualche parte del «Simposio», Socrate dice una cosa più o meno così (e mi scuso per la zoppia della citazione): l’essenza dell’essere umano risiede nell’amore, che a sua volta consiste nel dare vita in ciò che è Bello. Ecco, l’atto del creare è condizione necessaria per intraprendere qualche passo nella direzione di ciò che è umano. Questi individui sono tutto l’opposto: essi, con la loro azione ciecamente devastante, tendono al “Nulla”, al vuoto assoluto, e di conseguenza alla “Bruttezza” assoluta.

Un altro fattore fortemente negativo da rimarcare risiede nel fatto che questi figuri sono del tutto privi di una profondità storica. Non solo tendono al nulla, me provengono altresì dal nulla. Curiosamente, e forse non a caso, questa constatazione coincide con il modus operandi tipico delle loro azioni di guerriglia: sembrano sempre comparire dal nulla, materializzandosi come cupi fantasmi fra le fila dei manifestanti pacifici, compiono la loro nefandezze, ed al nulla ritornano. Questa perversa strategia è il giusto riflesso della loro inesistente qualificazione identitaria: non hanno radici storiche di riferimento, non sono i continuatori di nessuna tradizione politica o di rivendicazione sociale. Sono soltanto delle invasive cellule tumorali impazzite, che non hanno niente a che vedere con tutto ciò che la precedente vicenda del corpo sociale rappresenta. Scaturite nell’ambito del tessuto sociale con la stessa insensata virulenza dimostrata dalle cellule di un cancro nell’ambito del corpo umano.

Un’ultima cosa infine mi sento di sottolineare. Potrà apparire la più banale, forse perché provenendo dal cuore risulta anche la meno argomentabile. Ma io credo sia importantissima. Mi riferisco al fatto che queste truppe di violenti sono sempre composte da soli uomini. Da maschi. Non ho la certezza assoluta di questa affermazione, ma al 99, 9999999 per cento delle volte credo sia stato così. La donna è portatrice per eccellenza di vita, e quindi di bellezza, e non potrebbe mai avere nulla a che fare con tutto quello che ho cercato di argomentare in questo mio articoletto. E nell’ambito di questa ultima considerazione, non è nemmeno un caso l’accanimento dimostrato ieri nei confronti di uno dei simboli più alti della femminilità concepiti nel corso della storia, ossia quella statuetta della Madonna così vigliaccamente frantumata. Al di là delle convinzioni religiose di ciascuno, penso che la brutalità dimostrata contro quel simbolo sia l’equivalente di una brutalità rivolta al senso stesso della vita come ci piace continuare a concepirlo.

Noi.

sabato 8 ottobre 2011

Una mazzolata di bene sul pollicione

Un nonno e un nipotino sedevano una sera di fronte al camino. Non avevano intenzione di fare rima, ma di starsene soltanto un po’ in pace a veleggiare fra le rispettive età nella risacca delle ondate di calore. Però per quella volta andò così: ammainando leggermente le velature, si misero a rimare.

«…Nonno…» attaccò a dire il nipotino, «…anche se sono piccolo, ho sentito parlare spesso della saggezza dei vecchi, che voi avete come tanti libri scritti dentro, siete dei tesori di esperienza e così via. Ma te, scusami tanto eh, nonno, ma ecco…non mi sembri tutto quel gran saggio. Anzi, e scusami ancora, delle volte dai proprio l’idea, ecco, con tutto il rispetto, di essere un po’ svanito…».

«…Vedi, caro Nipo…» ribatté il nonno, «…per riuscire a portarsi sopra le spalle l’esperienza c'è bisogno di tanto tempo. Bisogna saper accumulare dentro tante delusioni, prima di riuscire a reggere quel peso. Te lo devi saper caricare addosso lentamente. Altrimenti rischi di rimanere schiacciato. Per questo, alla fine noi vecchi assumiamo quest’aria mezza rintronata, perché abbiamo ben presente come funziona l’esperienza. Ci rendiamo conto di quanto sia difficile da trasmettere in maniera semplice, ma soprattutto sappiamo che ci deve essere tanto tempo di mezzo e che la fretta può essere dannosa in queste cose. Allora ci vedi così, con questo aspetto che ci fa apparire come l’eco delle persone che siamo stati. Ma è soltanto perché nel lungo cammino verso il mare, alla fine abbiamo ormai percorso anche tutta la spiaggia, approdando alla battigia, dove le spume salate si rivoltano indietro cancellando ogni cosa che si scrive sulla sabbia…».

«…Uhm…non saprei nonno…» tornò alla carica il nipotino, «…più mi racconti queste cose, più ho l’impressione di vederti attraverso la nebbia…».

«…Nipo Nipo…è sempre per via di quello che ti ho detto. L’esperienza è una dura scorza accumulata vivendo giorno per giorno, soffrendo e gioendo goccia a goccia. Non è come una borsa piena di oggetti da poter tirare fuori con facilità e passare direttamente agli altri. Potrebbero addirittura farsi male, in un modo o nell’altro...».

«…Ancora! Lo vedi, nonno, che continui? Dici queste frasi poco chiare e sembri chiuso in un armadio di vetro…».

«…Se vuoi ti posso fare un piccolo esempio…» sospirò il nonno a quel punto, «…molti anni fa, mi piaceva tantissimo una ragazza. Tu sei ancora piccolo per queste cose, ma non così piccolo, lo so, da non avere già le tue prime idee sull’argomento…», un sorrisetto complice di Nipo sottolineò l’ascolto di questa frase del nonno, «…insomma, al mondo non vedevo altro che questa amica. Tutto mi sembrava di colpo essere divenuto lei. Il cielo, i campi, gli alberi, gli animali, le case, tutti gli altri uomini della terra, mi parlavano di lei, solo di lei, sempre di lei. In quel momento lei era il mio bene: per me il bene e la sua persona erano diventate una cosa sola, l’unica più importante da ricercare in ogni momento del giorno e della notte. Mi sarebbe piaciuto stare sempre in sua compagnia, ogni minuto, diventare fidanzati, chissà, forse un giorno sposarci, anche se allora ero molto giovane e non sapevo bene cosa significasse tutto ciò. Quella mia amica era una grande amica, mi voleva molto bene, ma purtroppo il suo bene si fermava al punto di rimanere solo amici. Subito fu molto duro accettare una cosa del genere. Più questa verità si faceva strada nel mio cuore, più provavo le sensazioni di un disperso, un naufrago. Ma poi, lentamente, capii. Il nostro bene e quello degli altri possono prendere spesso direzioni esattamente opposte. Non importa se tutti ci muoviamo con i migliori propositi. E’ la vita ad essere fatta così, la dobbiamo accettare per come ci viene incontro…».

L’espressione di Nipo, a sentire la piega che il racconto del nonno andava prendendo, si fece sempre meno sicura. Questo improvviso colpo di sciabola a fendere la nebbia in cui aveva visto avvolto il nonno fino a qualche attimo prima, gli calò dentro un vago senso di smarrimento. Pur non comprendendo fino in fondo come mai, intuiva che quella non era una buona sensazione.

«…Ma nonno, non ti dovevi arrendere subito, così…» si ribellò Nipo.

«…So che per te è ancora presto, per capire. Ti dico solo che ci volle non poco tempo anche a me, prima di arrivare a rendermi conto che non potevo fare altrimenti. Era giusto rinunciare, per non aggiungere anche il suo male al mio. Un'altra cosa imparai: i fatti più belli della vita sono quelli che ti passano vicino, senza capitarti mai per davvero. Però questo non andarlo a dire alla nonna…».

«…Uhm…sai nonno? Avevi ragione prima: mi piace di più quando stai dentro il tuo armadio di vetro…» e passando una lieve carezza sulle mani nodose del nonno, Nipo corse di là a giocare.

giovedì 6 ottobre 2011

Smentita mentula


Sé sente dì ‘ngiro che li blogghesse c’avranno da dà la “smentita”. Si jé scappa de dì ‘na quarche volta ‘na bella fregnaccia, ner giro de’ quarantoto ore dovranno per forza rimaggnasse a’ parola.

E ‘sticazzi!!!

Me pare quasi de vederlo er funzionario ‘ncaricato, quello che c’ha più cojoni fra le gambe che idee ‘n testa, che me viene a dì de smentì si ‘na volta me gira de scrive ‘na roba de questo genere:

Conosci il tuo maschile,
ma attieniti al tuo femminile
e diventa il torrente del mondo.
Diventando il torrente del mondo
la tua virtù non verrà mai meno
e ritornerai a casa allo stato del neonato.
Conosci la tua chiarezza,
ma attieniti alla tua oscurità
e diventa l’esempio del mondo.
Diventando l’esempio del mondo
la tua virtù non cadrà mai in errore
e ritornerai a casa all’illimitato.
Conosci la tua gloria,
ma attieniti alla tua indegnità
e diventa la valle del mondo.
Diventando la valle del mondo
l
a tua virtù sarà sempre sufficiente
e ritornerai alla semplicità del legno grezzo.

Il legno grezzo, quando è fatto a pezzi,
diventa utensili.
Il saggio, quando è utilizzato,

diventa il capo dei funzionari.
Perciò un grande tagliatore non taglia.

"TaoTe Ching"
Lao Tzu – Quarto\Terzo secolo a.C.

E mo’ prova‘n po’ a smentì ‘sta cippa de minchia, mortacci tua e der falso in bilancio!!!

martedì 4 ottobre 2011

Gillipix il pulcioso retro-profetizzato


Cari amici viandanti per pensieri, oggi vi propino un articoletto per lo più “parassitario”. Nel senso che la parte del mio intervento sarà minimale, affidandomi invece quasi per intero alle parole di un tale che la sapeva molto più lunga di me.

Eccole:

«…So che dovrei parlare dei miei scritti, libri, articoli e così via, ma purtroppo io dimentico ciò che ho scritto praticamente appena ho terminato. Probabilmente c’è in me qualcosa che non va. Credo però che questo fenomeno abbia un significato: io, cioè, non ho la sensazione di scrivere personalmente i miei libri. Sento che i miei libri si scrivono attraverso di me, e una volta che mi hanno attraversato mi sento vuoto e non rimane nulla.
Come forse ricorderete, ho scritto che i miti diventano pensiero nell’uomo a sua insaputa. Ciò è stato molto discusso, ed anzi criticato dai miei colleghi di lingua inglese. Essi ritengono che da un punto di vista empirico, la mia sia un’affermazione completamente priva di senso. Per me invece traduce un’esperienza vissuta, poiché descrive esattamente il modo in cui io percepisco il rapporto con il mio lavoro. E cioè: il mio lavoro si fa pensiero in me a mia insaputa.
Non ho mai avuto, e non ho tuttora, la percezione della mia identità personale. Vedo me stesso come il luogo in cui qualcosa accade, ma non c’è nessun “Io”, ne alcun “me”. Ognuno di noi è una sorta di crocicchio ove le cose accadono. Il crocicchio è assolutamente passivo: qualcosa vi accade. Altre cose, egualmente importanti, accadono altrove. Non c’è scelta è questione di puro caso.
Non pretendo affatto di essere autorizzato, dato che la penso così, a concludere che tutta l’umanità la pensa allo stesso modo. Ma sono convinto
Che, per ogni studioso o scrittore, la particolare maniera in cui lui, o lei, pensano e scrivono apra una nuova prospettiva sul genere umano. E il fatto che io personalmente ho questa idiosincrasia mi mette forse in grado di indicare agli altri qualcosa di valido, mentre il modo in cui pensano i miei colleghi apre altre prospettive, tutte egualmente valide…».

Mito e significato
Claude Levi-Strauss – 1978

Sono contento di accogliere queste parole fra le mie, non solo perché appena le ho lette mi sono quasi cappottato nel letto dalla “gioia narrativa” (fortuna che sono un tipo prudente ed affronto certi autori soltanto assumendo una preventiva posizione di sicurezza, rigorosamente “appiattellato” su un materasso brevettato per i pigri professionali…). Non solo per questo fatto insomma, ma anche perché queste parole medesime mi sono sbalorditivamente suonate come una mini-profezia a ritroso.

Quando mi misi a scrivere questo blog, se avessi voluto stilarne un piccolo manifesto introduttivo, avrei copiato pari pari queste frasi, senza cambiare una virgola. Non perché io ardisca in qualche modo paragonarmi alla grandezza di uno studioso del calibro di Claude Levi-Strauss. Il cielo ce ne scampi, la differenza che separa la sua maestria dal mio scribacchiare, è equiparabile a quella che passa fra la maestosa possanza eolica di un maestrale ed i flati strombettanti emessi da un moscerino afflitto da raucedine intestinale.

Non è per questo dunque che dico “mie” queste parole, ma piuttosto per un’affinità spirituale, che pur prescinde dagli esiti del mio scrivere. Anche io mi sento nello stato d’animo del grande antropologo francese, quando scribacchio, e non importa se ciò che produco vale un milionesimo del suo, non è questo il punto.

Da oggi ho un nuovo beniamino culturale: Claude Levi-Strauss. Ne avevo già sentito parlare in svariate sedi, ma ho incrociato questo suo piccolo libricino soltanto alcuni giorni fa e mi sta letteralmente appassionando. Conto di approfondirne la conoscenza in futuro e questa è una minaccia in piena regola.

Spulciando in rete, ho già letto che le sue tesi per certi versi sono ritenute ormai superate dai più recenti sviluppi dell’antropologia e bla bla, e bla bla. Prendendone atto, rimango tuttavia fermo nel mio intento di saperne di più sull’opera di questo studioso, chiosando tali critiche con una sentenza che si ode spesso riecheggiare nei più severi ambienti accademici: «…e “chi se ne fotte” ce lo vogliamo mettere?...».

domenica 2 ottobre 2011

Volti talvolta rivolti a rivolte sotto la celeste volta


Da un breve, ma illuminante scritto della cara amica Rosalucsemblog e dal piccolo scambio d’opinioni che ne è seguito, mi sono venute in mente un paio di cose da riportare in un articoletto apposito.

Il tema è il volto umano. O più in generale, la figura intera della persona. Farò una sorta di mini-frullato di mie impressioni ed esperienze personali, e di cose lette nel tempo sull’argomento, rammentate un po’ a memoria e magari non prive di qualche approssimazione, per la quale mi scuso fin da ora.

Rosalucs deliziosamente racconta di una subitanea e folgorante epifania goduta osservando il volto di una sconosciuta, fluito casualmente sullo schermo del suo computer dalle infinite diramazioni torrentizie di Facebook. Come tutti i fenomeni scontati e quotidiani, anche l’atto dell’osservare volti paga un notevole dazio ad una banalizzazione assolutamente immeritata. Guardare in faccia le persone o vederle muoversi intorno a noi è un gesto così frequente, che finisce col prender parte al novero delle azioni più superficiali.

Niente di più sbagliato, invece.

Immaginiamo di poter quantificare la totalità di “materiale osservabile” a disposizione di un individuo. Intendo tutto l’insieme di stimoli visivi che possiamo procurarci dalla realtà, con tutte le sotterranee implicazioni affettive e di significato attingibili da tale “mare magnum” di sollecitazione sensoriale.

Ecco, bene: se dovessimo assegnare delle percentuali che rendano conto dei diversi “pesi significativi” espressi da ogni ambito del “visibile”, io non avrei esitazione alcuna nel dire che i volti e i corpi delle persone occupano il 50% della scena globale, mentre la restante parte infinita dell’universo occupa soltanto l’altra metà. La nostra presa di coscienza visiva del “Tutto”, importante riflesso della più profonda consapevolezza esistenziale che ne traiamo, si suddivide dunque nelle seguenti uguali porzioni: cose, natura e spazio-tempo infiniti da una parte, persone dall’altra, con particolare rilievo dei loro volti.

Con queste mie fregnacce, non sono poi così tanto lontano dal dire una cosa simile a quanto sosteneva Jean Paul Sartre, quando scrisse la sua famosa sentenza: «…l’Inferno sono gli altri…». Pur parlando dall’antro profondissimo del suo esistenzialismo annichilente, il filosofo francese affermava la preminenza della “presenza umana esterna” come ineluttabile universo di riferimento per ciascun sistema solare incentrato sulla singolarità dell’essere umano individuale. In questa prospettiva, i corpi ed in particolare i volti degli altri s’impongono per importanza fra i “segni” che dal mondo ci derivano. Essi si distinguono, rispetto al resto di tutte le altre cose ed entità viventi e non, con la pregnanza di un alfabeto.

In occasione di miei trascorsi ed ormai lontani studi, lessi che il suono cadenzato della voce umana parlante ed il simmetrico equilibrio compositivo dei volti, sono fra gli stimoli sensoriali verso i quali un infante di pochi giorni o settimane si dimostra più sensibile e ricettivo. Diversi esperimenti hanno messo in rilievo questo fatto: i cuccioli di uomo esprimono un’attrazione tale per quei due tipi di “target sensoriali”, da far pensare ad una sorta di predisposizione innata. Come se il nostro intelletto “in nuce” fosse già “kantianamente” conformato in modo da incanalarsi in un prossimo futuro lungo quelle due principali direttive di scambio esistenziale con i propri simili: pronunciando parole codificate e guardandosi negli occhi.

E’ anche in virtù di questa reminiscenza, che prima accennavo alla similitudine intrecciabile fra la figura ed i volti umani, con l’alfabeto, con il linguaggio. L’esperienza dell’incontro con un volto o con la sagoma di una persona, sbucate fuori dal panorama delle restanti entità “non-umane”, è paragonabile all’atto dello sfogliare un libro sulle cui pagine siano riprodotte soltanto illustrazioni, ma cadenzate di tanto in tanto con la presenza di grandi scritte, frasi o parole, casualmente mescolate alle immagini. La potenza magnetica delle lettere stampate è irresistibile e contagiosa come uno sbadiglio che ci viene spiattellato in faccia intorno a mezzanotte, dopo aver fatto un turno di dieci ore in fonderia.

La parola scritta non possiamo ignorarla, nemmeno se mimetizzata fra le insidie depistanti di mille altri stimoli grafici o iconografici: essa esige, comanda, impone, pretende con prepotenza di essere letta, è come un gorgo messo lì a risucchiare inesorabilmente un nostro riflesso involontario a setacciarla attraverso le sottili trame della lettura mentale.

Un analogo fenomeno di magnetismo s’innesca con il volto delle persone: esso esige, comanda, impone, pretende con prepotenza di “essere letto”. Non è un caso che generazioni di pittori di ogni epoca si siano confrontati con il genere all’apparenza più banale, quello del ritratto. Al di là delle intenzioni celebrative ed agiografiche in ossequio del potente di turno, la volontà più intima dell’artista nel mettersi alla prova con questo genere compositivo si è sempre imperniata sul tentativo di sondare le enigmatiche profondità del misterioso “linguaggio” dei volti umani.

A questo proposito, vi suggerisce niente il fatto che uno dei più celebri dipinti della storia dell’arte, forse il più famoso di tutti, ricerchi il proprio fulcro espressivo esattamente intorno all’equilibrio armonico trapelante da un semplice volto? Praticamente superfluo precisare che mi riferisco alla Monna Lisa di Leonardo.

Esiste tutta una branca della critica dell’arte dedicata all’approfondimento di queste tematiche, denominata “fisiognomica”. Per il poco che ne so, essa non gode forse ancora della dignità che le spetterebbe, probabilmente a causa dei sospetti che si è tirata addosso in passato, quando le venne a torto o a ragione attribuita una certa attitudine verso velleitarie pretese di scientificità. Le mie scarse nozioni in merito si confondono a questo punto con la figura dell’antropologo Cesare Lombroso, a detta di molti un insigne studioso al quale molte diramazioni odierne della sua materia devono tantissimo, ma che paga forse oltre misura il suo tentativo di voler giungere ad una sorta di determinismo capace di mettere in relazione automatica i tratti somatici ed i tratti caratteriali degli individui. Non conosco tuttavia a sufficienza l’argomento per poter andare oltre nel discorso, ma conto di approfondirlo in futuro.

Quello che posso aggiungere ancora è la mia personale esperienza con l’osservazione dei volti. Fra le varie attività esperibili in discoteca, quando ancora la frequentavo, oltre a fare il matto rockettaro sull’onda di qualche canzone sparata a paletta, oppure sorseggiare l’immancabile “Negroni della pace”, il “face watching” era uno dei miei passatempi prediletti. Non c’era niente di più bello che mettersi appoggiati alla balaustra del lungo ballatoio e guardare passare quell’affascinante teoria di volti giovanili, di tutte le espressioni, di tutti i gradi di piacevolezza, di tutti i tipi espressivi possibili. Ovvio, il mio interesse visivo cadeva più spesso sui tratti di genere femmineo, ma in generale nutrivo il mio compito d’improvvisato studioso col neutrale interesse per qualsiasi tratto facciale degno di rilievo.

In queste osservazioni, non so le volte che mi capitò di cogliere un “tipo” di volto a me già noto. E’ una cosa non facile da spiegare. Succedeva che notavo la somiglianza fra un volto visto durante queste rassegne discotecare e quello di persone a me già note da tempo. Non si trattava tuttavia di una somiglianza superficiale. Anzi, quella di fatto poteva anche risultare piuttosto labile. Quello su cui invece la parentela di tratti da me rilevata si basava, era una sorta di richiamo alla “struttura compositiva” di fondo dell’aspetto in questione. Non erano insomma somiglianze di superficie, ma somiglianze di profondità, anche se capisco che è difficile spiegarmi senza potervi mostrare un esempio pratico.

Un'altra interessante osservazione sentita nel corso di una lezione all’università, mi illuminò circa la ricchezza particolarmente rilevante di “tratti umani” della quale noi stirpe italica possiamo godere. Se fate un po’ mente locale e considerate ad esempio il “tipo somatico” dell’anglosassone, dello scandinavo, del cinese, del giapponese, una qualche immagine ve la raffigurate quasi subito. Provate invece a focalizzarvi sul “tipo” italiano: non c’è. I nostri tratti somatici sono il risultato di secoli e secoli di incroci di etnie fra le più diverse, siamo stati terra di transito, conquista e dominio di spagnoli, arabi, francesi, barbari, tedeschi, normanni e compagnia bella. Per questo il nostro panorama di tratti dei volti è così variegato, indefinibile, non incasellabile in un modello uniforme. E questo, a mio modesto parere, è un piccolo motivo di orgoglio per l’appartenenza a questo nostro popolo, per altri versi così sgangherato e non certo tanto degno di lusinghe ulteriori, nonché un fattore di fascino in più attribuibile alla pratica del “face watching” in Italia.

Ecco, cari amici viandanti per pensieri, mi sembra di aver detto un po’ le cose principali che mi sono venute in mente su questo tema. Posso chiudere qui per oggi, non senza aver ringraziato però la cara Rosalucs per lo spunto argomentativo che mi ha offerto.