venerdì 26 febbraio 2010

Ma chiudete quella porta!


Cari amici viandanti per pensieri, già siete più che abituati a sentirmi fraseggiare sul niente, ma oggi vi voglio stupire con un argomento talmente vacuo che se il buon Parmenide fosse ancora al mondo si convincerebbe una volta per tutte che il Nulla esiste.

Vi parlerò di quelli che vanno a pisciare nei cessi pubblici lasciando aperta la porta.
Quello che mi domando e dico io, a questi cari amici mingenti manifesti, è: ma because? Because lo fate? (lo so, lo so che in domanda si usa “why”, e “because” è solo di risposta; era solo una licenza poetica e un omaggio ad un mio amico, grande linguista da scuola media, che per fare il buono, ostentando poliglottismo casalingo e burinesco, ogni tanto, durante le discussioni più svariate, se ne usciva con questa perla: «…Ma because?...» ).
Insomma, cari mescitori d’acqua di merlo affacciati sul mondo, confessatevi, apritevi con noi (…prima di girarvi però, chiudetevi almeno la patta…): qual è il motivo di questa vostra insana scelta di vita?

Io non capisco, ma alcune riflessioni le posso fare. In particolare sulle varie tipologie di pisciator palese.

Il più maestoso è il “cowboy”. Questo particolare tipo di mingente collettivo si distingue per la postura fiera, tipica di chi è saltato in sella al suo Mustang dalle froge di bragia: gambe leggermente divaricate, mano sinistra sul fianco e la destra a reggere la “briglia”, lo sguardo ben alto e fiero, fisso verso lo sterminato orizzonte di piastrelle bianche. Il “cowboy” è uomo dagli scrosci generosi, perché della sua gioia liberatoria vuol che il mondo sia partecipe, senza che vada perduto nemmeno un minimo dettaglio del suo gesto eroico.

Segue a ruota, nella gara della popolarità fra i liberi pisciatori, il “cercatore d’oro”. Costui si distingue per il fare circospetto: il capo chino sul teatro delle operazioni, sembra intento tormentosamente ad una ininterrotta cernita fra le cerniere. Un interrogativo fremebondo pare levarsi sopra il suo capo a mo’ di fumetto: «…Eppure son sicuro che era qui, sono certo di averlo preso su, uscendo…l’avrò mica lasciato sul comodino, eh?...». Il cercator di pepite produce uno zampillo inquieto, nato direttamente dalla fonte del dubbio. Alla fin fine, non è convinto fino in fondo delle sue azioni, ma nondimeno sembra agire per onor di una missione: lui sa che troverà qualcosa, prima o poi, e quel giorno tutto il mondo gli dovrà essere testimone. Per questo lascia la porta aperta: per quando quel giorno verrà, a beneficio dei testimoni.

Come dimenticare poi le fatidiche gesta del “gran nostalgico”? Per addentrarsi meglio nelle sfumature della personalità di questo altro prototipo, sarebbe più illuminante considerare il suo motto: «…Era bella giovinezza, noi si piscia tuttavia ...».
Il “gran nostalgico” ha ricevuto il suo imprinting esistenziale sotto la naia: per lui il congedo non è mai arrivato. Il cameratismo caciaronesco è il suo credo, e gli uomini fanno tutti parte di una confraternità che non ha segreti. Il cesso è il regno della verità, superate le cui colonne d’Ercole, s’è tutti uniti nell’animalità e possibilmente “…s’ha da puzzà…”. Il “gran nostalgico” è capace di prodursi in una minzione acrobatica con perfetto centro del bordo del water, mentre, a capo girato sopra la spalla, trova anche il tempo per raccontare una barzelletta all’ideale commilitone che si sta sciacquando le mani al lavandino. E va ancora bene quando non suggella il suo inestimabile gesto atletico con un’alzata di gamba e sonoro strombettio proveniente dal dolby stereo sul retro.

Questi sono solo alcuni tipi di mingitor patenti, ma tanti ce ne sarebbero, immagino (portate pazienza, mica li posso sapere tutti io e mica passo le mie giornate dentro i cessi pubblici degli uomini…).

Ciò nonostante, una delle ipotesi che posso azzardare per spiegare il fenomeno è che la collettivizzazione della pisciata, qualunque sia il “tipo mingente” che la pratichi, viene equivocamente fraintesa come gesto virile. Il non appartarsi è ingannevolmente inteso come padronanza del “mezzo”. Sembra quasi che si voglia proclamare: «…Sono completamente consapevole di quello che ho in mano e conosco tutte le istruzioni per l’uso ...», con malcelato rimando alla sfera della prestanza sessuale.
Per quanto mi riguarda, nutro seri dubbi riguardo questo principio generale. E in proposito, ci tengo ad informare questi teorici del comunismo urinario, circa due fatti.
Uno è che, anche se la vostra teoria fosse esatta, io vi credo in parola, quindi la porta la potreste chiudere per bene, che per me rimarreste tutti dei gran chiavatori.
L’altra cosa è che, personalmente, anche se non mi capitasse di gustare così di sovente la visione mirabolante del viril urinante, ecco, sappiate che la notte dormirei benissimo lo stesso.



giovedì 25 febbraio 2010

Una gita a Tetra Gònia

Mi scrive l’amico Cinque Quadrati, da Tetra Gònia (vedi gli ultimi commenti al mio precedente scritto).


Con Cinque (come affettuosamente lo chiamo io) ci conosciamo da tempo, anche se debbo dire che il dialogo con lui è sempre stato piuttosto problematico. Cinque è un tipo, e scusate il francesismo, con le palle quadrate. Per cui, quando dice una cosa è quella, e vigliacco se riesci a fargli cambiare idea.
Le volte che vado a fargli visita a Tetra Gònia, lo spigoloso paesello in cui vive, fatico sempre un po’ a trovare la strada. Appena entri nel comune di Tetra Gònia te ne rendi subito conto: solo curve a gomito, una caterva di curve a gomito, tutte sbattute giù ad intervalli di strada rigorosamente lunghi uguali. Capite bene che basta un niente per scambiare una via per un’altra. Alla fine però mi oriento e dopo aver girato in quadrato per un po’, regolarmente mi ritrovo davanti alla casa di Cinque.

Non faccio mai in tempo a socchiudere il cancelletto sul bel giardino di quadrifogli che fa da cornice alla casa di Cinque, che subito mi corre incontro Radice Quadrata, il simpatico cagnetto di famiglia Quadrati, scodinzolando festosamente e lanciando al cielo i suoi abbai e mugolii di gioia: “…w##ff…w##ff!!!…”.
Quasi superfluo dire che Radice non scodinzola “a tergicristallo” come tutti i cani del mondo, ma lo fa come tutti i cani di Tetra Gònia, ossia disegnando nell’aria con la coda piccoli quadrati immaginari.
Dopo le allegre feste di Radice, altro classico capitolo del benvenuto a casa Quadrati è l’affettuoso saluto di Angola Retta, la moglie di Cinque. Angola è una bellissima donna, molto affascinante, anche se, a voler proprio cercare il pelo nell’uovo, va precisato, che con quelle sue tette tetraedriche ubertose ed assai puntute, fare l’amore con lei risulta sempre piuttosto difficoltoso. Non pensate subito male però: il dettaglio me lo ha rivelato Cinque, una volta che si facevano due chiacchiere in confidenza.

Le cene a casa Quadrati sono delle gustose mangiate in lieta conversazione. Angola è una cuoca non eccessivamente versatile, d’accordo, ma quelle poche cose le sa cucinare a meraviglia. Una sua specialità è il quarto di bue alle quattro salse, oppure, quando vuole allietare i palati con un piatto di pesce, si sbizzarrisce con il rombo in crosta di tetracloruro di sodio.
Angola e Cinque hanno due figli, Base ed Altezza, entrambi degni della simpatia di mamma e papà.
Base, il maschietto, frequenta la seconda elementare biquadratica, mentre Altezza s’è fatta ormai una signorina, iscritta all’università, primo anno di Quadrettatura Moderna.
Dovreste sentirla che loquela ha messo su, infarcisce ormai tutti i sui discorsi di termini dotti, parlando un tetragonese forbito. Se ne esce con sentenze tipo: « ם ם ם ם ם ם...…».

(Ah, un particolare dimenticavo di dire. Ai più attenti non sarà sfuggita una piccola curiosità. Com’è noto, base ed altezza nel quadrato sono sempre la stessa cosa. Infatti Angola e Cinque hanno voluto chiamare così i figlioli per simboleggiare l’equidistanza del proprio amore per loro).
A volte c’è ospite anche la nonna, Rota Quadra, che al termine della cena racconta bellissime favole a Base, per farlo addormentare. Conosce mille varianti di “Cappuccetto Quadro”, “Quarterentola”, “I tre porcellini e un quarto” (che non si riesce mai a capire se si tratti di un quarto porcellino o di un quarto “di” porcellino), “La bella inquadrettata nel bosco” e “Quadrice nel paese delle meraviglie cubiche”.

Come dicevo, Cinque è una persona molto equilibrata. Da quando lo conosco, si è sbilanciato solo quella volta che bevemmo insieme 44 Quartini di vino, e Cinque se ne uscì con questa frase «…۞۞۞۞۞…», sbalorditivamente eversiva per i pacati standard del suo pensiero.
Alla stessa maniera, ho anche visto poche volte Cinque perdere la pazienza. Una di quelle volte fu quando Cinque sentì parlare di globalizzazione: l’ipotesi di un mondo a linee curve proprio lo manda in bestia, e infatti in quell'occasione lo sentii anche bestemmiare ed andare fuori dai gangheri, sbraitando: «## # # #!!! ».

Cinque lavora all’Istituto di Matematica Applicata di Tetra Gònia, è specializzato nel calcolo di numeri dopo la virgola nella radice quadrata di 2. L’esito del suo lavoro serve per far funzionare un po’ tutto a Tetra Gònia. La stessa economia del paese, che gira tutt’attorno alla moneta ufficiale, il “Quaddrino” («…Razza di uno squaddrinato gran figlio di una mamma sferica…» è uno degli insulti più gravi che si possano subire a Tetra Gònia), crollerebbe di botto se venissero a mancare numeri dopo la virgola sempre nuovi tutti i giorni.
Ci sono anche stalle di mucche speciali a Tetra Gònia, che sentendo recitare questi nuovi numeri con la regolarità di un mantra algebrico, producono un latte destinato ai piccoli allievi della locale scuola materna più promettenti col pallottoliere (che poi, ad essere precisi, là da loro si chiama cubottoliere, per comprensibili motivi).

Angola Retta invece è impiegata nella principale azienda del paese, la “Quadro-Cirk”, che opera nel settore della quadratura del cerchio, con anche alcuni reparti specializzati in raddrizzamento banane.

Giusto ieri sera ho ricevuto una telefonata da Tetra Gònia. Ancora il tetragonese lo mastico poco, ma da quanto credo di aver capito dalla voce tutta commossa di Cinque, pare che Angola sia di nuovo incinta. Se sarà una bimba, la chiameranno Diagonale (per tracciare un tatto d’unione fra Base ed Altezza), mentre nel caso di un pupetto, prenderà il nome del bisnonno, e senz’altro si chiamerà Quadrangolo.
Vecchia volpe di un Cinque! Mi sa che a casa Quadrati la TV si accende poco…altro che tette puntute! Ma valla a raccontare ad un altro, va’, va’, va’…

domenica 21 febbraio 2010

Vade retro, Avatar!


Facendomi forte della mia diversa normalità, con sforzo non eccessivo ho resistito in questi giorni alla flebile tentazione di adempiere al rito collettivo urgentemente protocollare che la moda del momento in misura inderogabile ed imprescindibile detta ai più, ossia la visione di «Avatar».

«…Buuuhhh…büfùn…», si leverà alto lo sdegno coreuta dei miei tre severi lettori, «…sei il solito snob de ‘sta cippa…fai tanto l’intellettuale para-culturale, ma poi nel consumismo ci sguazzi come tutti gli altri…va’ a laurà, barbùn!!!...».
E come darvi torto, amici viandanti per pensieri…Ci sguazzo pure io, non lo nego.
Per dirla tutta infatti, ci sarei anche potuto andare, ad “avatare”.
Perché dice: «…magari la storia non è granché, ma c’è l’effetto treddì, nella multisala con quadruplo dolby surround carpiato e avvitamento della tromba di Eustacchio, moltiplicata dall’eco sesquipedale “ultra-extra-special-gigogì”, per non parlare del futuribile automatismo nel wc, con scrollo automatico dopo la pipì…».

Ma fatti due conti, mi sono detto: nella mia diversa normalità, a me quel che serve non sono tanti gli effetti speciali, ma effetti del tutto normali.
Così ho optato per un film prettamente tradizionale, «Il concerto».
La serata era perfetta, freddo non eccessivo dopo mesi di glaciazione, un cielo bello terso con pure una piccola falce di luna che mieteva una piacevole puntinatura di stelle.
La compagnia era ottima, una carissima amica, i momenti trascorsi con la quale sono sempre stille graziose di fluidità temporale pregiata.
Il cinema era tradizionale a più non posso, una piccola perla rigorosamente (quasi religiosamente direi) mono-sala, un po’ retrò e ben incastonata nel cuore della città, estetica da teatrino inizi ‘900, con tanto di palcoscenico vero e proprio, decorazioni vagamente Liberty su soffitto e pareti, platea avvolgente nelle sue file di poltrone a semicerchio, completa di soppalco con piccola galleria.
Ed è proprio nella venusta piccionaia che decidiamo di andarci a sedere.

Non mi addentrerò nella trama del film, sia per non fare torto alla sacrosanta sorpresa di chi ancora volesse andarlo a vedere, sia perché non è strettamente necessario all’economia del mio racconto. Posso dire solo che merita la visione, è un film delicato, garbatissimo e capace di regalare intensi momenti di poesia.
Quello che mi serve dire, credo sia ormai più che noto. La storia narra di un direttore d’orchestra russo, perseguitato in passato dalla crudele ottusità del regime sovietico, che trova una sua originalissima e picaresca via verso il riscatto umano ed artistico, operato nel nome della Bellezza più pura.
Fin qui, dunque, tutto l’antefatto della mia entrata in sala.

Non erano passati però che pochi minuti dal nostro accomodarci sulle poltrone, in una perfetta prima fila della galleria, a pochi centimetri dalla piccola balaustra con bellissima vista su tutta la sala sottostante, che tutto il dosato meccanismo si è rivelato sin nel fondo della sua diabolica architettura, palesandosi attraverso un impensato, terribile e funesto flagello:
IL ROMPICOGLIONI CINEMATOGRAFICO!!!

Questi si è materializzato come dal nulla e assai subdolamente alle nostre spalle. In compagnia di una tizia, che con ogni probabilità aveva portato al cine col solo malcelato “scopo” di concludere la serata giocando a “scopa”, non teneva chiusa un secondo quella chiavica che si ritrovava al posto della bocca, assillando la tapina con la sua presunta profondità culturale di perfetto tuttologo a 720 gradi.
Non pago del suo molesto operato e bello baldanzoso di astuzia estrema da gran cervo imperiale nel bosco del re (…Geordie, dov’eri?!?!?), il nostro genio boccalone non solo si ostinava nel suo blaterìo, ma nel dare forma alle sue impagabili parole, non accennava nemmeno ad un tono sussurrato, semmai ce ne fosse uno consono a simile insana pratica in ambienti siffatti, bensì parlottava col pacifico mezzo muggito del sereno bovino brado da salotto, assiso in mutande sulla sua poltrona, con tanto di birra in una mano e rimbalzi tecnici di borsa nell’altra.
Insomma, morale della favola, tutto il primo tempo con questo genialoide sul groppone è stato una mezza sofferenza. Chissà per quale forma di insensata educazione o pudore, la mia cara amica ed io abbiamo persistito nell’insana rinuncia dal cacciarlo di sotto, forse solo per rispetto delle teste degli spettatori in platea.

Io tentavo, con vani accenni di messaggi subliminali, di comunicare la mia pienezza “gonadea” al fellone. Mi sporgevo platealmente verso la balaustra, tutto proteso in avanti sul sedile, quando lui vomitava la sua diarrea verbale, e facevo ritorno ad una posizione più composta nei rari momenti di chiusura di quel forno inceneritore di sensatezza che era la sua boccuccia santa. Ma niente da fare: la sua ostinazione era più inflessibile di quella di uno spietato burocrate dell’infrangimento corbezzolare. Era percorso dal fuoco di una sola arte in lui divenuta missione: scassare senza scopo alcuno la minchia altrui!
Inoltre, sarà stato per la lieve incazzatura, sarà stato perché il calore tende salire verso l’alto, in quella piccionaia di lusso faceva pure un’afa boia.
Per completare il quadro, se a sinistra s’udiva il periodico squillo di ‘sto scasamaroni, rispondevano a destra dei colpi di tosse da capra, di quelle tossi urlate di gusto, proprio a due centimetri dai miei auricolari padiglioni.

Nell’intervallo, la mia amica ed io optiamo per la drastica rimostranza a salvaguardia del “nostro” film: dritti giù a piano terra, con tanto di vistosa fuga in barba al blateroscurantismo. L’avrà capita, Blateron de Blateroni? Bah, ne dubito fortemente.
Fatto sta che di sotto, ci attendeva l’eden cinematografico. Una platea di spettatori attenti, in estatico silenzio, che te li immaginavi quasi mansueti reduci dalla visione di una retrospettiva dell’opera omnia di Bergman, Pasolini, Rohmer e Eisenstein, tutti messi insieme.
Così il secondo tempo, col pregio aggiuntivo di un clima temperato e quasi profumato di salotto cultural mondano, è scivolato via, rendendo il giusto merito all’addensarsi della bellezza delle immagini e delle vicende sullo schermo.

Andando poi a letto ieri sera, avevo liquidato l’episodio come una banale avventura che può capitare durante una visione al cinema.
E’ stato solo stamattina che, con sommo stupore, urbanamente esclamando fra me e me: “…Ma corpo di una minchia strabollita in fricassea!!!…”, ho capito quale bislacco scherzo del destino mi aveva riservato una beffarda nemesi storica. La verità che mi si è imposta chiara ed inconfutabile agli occhi, è stata una e cristallina: non si può sfuggire al flagello degli effetti speciali!
Il molestatore blaterante è capitato guarda caso nella prima parte del film, quando nella storia sullo schermo, più severi e pesanti si dipanavano i riferimenti alle angherie del regime sovietico sul nostro direttore orchestrale. La sua ostinazione infastidente cadeva palesemente a fagiolo per riecheggiare la cocciuta spietatezza degli agenti del KGB, mentre la tosse caprina era la perfidia della GPU (Polizia segreta di stato) rimbombata in 3D da altra fonte sonora dietro le mie spalle.
I miei spasmodici e disperati andirivieni dalla balaustra allo schienale erano altrettante entrate ed uscite dal famigerato albergo della Lubianka, camuffata sede di interrogatori stremanti e torture psicologiche inenarrabili, riservate agli oppositori di regime.
La discesa in platea infine, si era intonata al liberatorio crescendo della storia del film, col secondo tempo in cui si riscopre nella bellezza dell’arte, una delle poche vie genuine ed incontaminate forse praticabili per la salvezza dell’anima e dell’umanità.

Alla nemesi non la si fa, mi sono detto così appendendo l'animo al chiodo. Sarà dunque forse il caso a questo punto, con estremo mutismo e rassegnazione, di andarsi a vedere «Avatar»?

sabato 20 febbraio 2010

From stables to stars...


«...Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori...», così recita un celeberrimo verso di Fabrizio De Andrè, e mai come in certe circostanze è vero il fatto che dalla prosa possono nascere sfocati barlumi di remota poesia.
Tipo, "mattinare pallido e assorto, assiso sul trono di ceramica affacciato sull'orto", e notare sullo sfondo del cielo bigio tardo-invernale, una foglia solinga appesa ai rami del fedele noce dietro casa.

«...Si sta come / d'autunno / sugli alberi / le foglie», soleva poetare un altro sommo, ma chissà se nessuno si è mai chiesto come si sta, da foglia, tutto l'inverno su un albero.
In fondo il ruolo della foglia autunnale è ben più glorioso e la sua figura è portata alla ribalta della cronaca vegetale, proprio nel momento in cui le luci del palcoscenico stagionale sono tutte puntate sulla Grande Caduta a Terra, e sontuosi tappeti dorati fanno bella mostra di sè esattamente quando ciascuno se li aspetta.

Ben altra cosa è rimanere appesi lassù, da soli, dopo che si è penato per giorni e giorni in vista del fatidico attimo del distacco, dopo che si sono viste tutte le amiche andare via, pensando e salutando insieme: «Ciao amica mia, ciao...verrà anche il mio momento...a presto...verrà anche il mio momento...», ma, minchia, quel momento, non vederlo arrivare mai...
E accorgersi che la propria livrea, prima dal fulvo ramato passata ad un giallo paglierino, ormai sta inesorabilmente cangiando verso le alienate tonalità della lignea cupezza, con Vendemmiaio, Brumaio e Frimale trascorsi invano.
Agognare il meritato macero, il desiderato amplesso con la zolla benigna, la copula sfibrante e liberatoria con la pastosità della terra sottostante, ma constatare sconsolatamente che anche Nevoso, coi suoi 10 sotto zero, Piovoso e Ventoso, con le loro spazzolate fradice, sono ormai passati, e quell'esile cravatta fibrosa non accenna a concedere la conferma definitiva della propria fragilità, bensì si abbarbica, si ostina a reggere un peso impercettibile ormai solo affamato di suolo, senza più desiderio residuo alcuno.

Con la preoccupazione aggiuntiva dell'appressarsi a questo punto addirittura di quello spavaldo di Germile, se non addirittura di Fiorile, che novelli recheranno con sè minuti boccioli sbarbatelli, chiassosamente scapezzolanti nella loro irruenza gemmata di ramo in rametto.
Eh, già, caro buon Ungaretti: la condizione di foglie, sugli alberi, d'autunno, potrebbe non essere alla fine la più drammatica da poter dipingere. Ancor più degno della nostra riflessiva misericordia forse può essere lo stato di foglia, solitaria, d'inverno su un ramo.




mercoledì 17 febbraio 2010

Flagellatus modaiolus simplex


Oggi volevo parlare di un particolare tipo umano: il “flagellato dalla moda”.
Trattasi di individuo folgorato, in un determinato periodo della propria vita (preferibilmente una qualche fase della giovinezza), dal modo di vestire, di portare i capelli o le scarpe, tipico di quel momento storico.
Fin qui niente di strano, è un’esperienza che si può dire comune praticamente a tutti.
Tuttavia, la peculiarità per la quale il “flagellato dalla moda” si distingue è il suo essere rimasto irrimediabilmente istoriato dall’indelebile marchio modaiolo dei suoi tempi. Parlando ancor più “tecnicamente”, passando cioè alla precisa definizione scientifico-antropologica di questo archetipico soggetto, è possibile pronunciarsi in questo modo: dicesi “flagellato dalla moda” quel rappresentante dell’umanità destinato a portarsi addosso vita natural durante le conseguenze permanenti cagionate dalla “sindrome della vecchia Fiat 850”.

Non so se vi è mai capitato di vedere un’automobile fine anni ’60 – inizio ’70 (o anche primissimi ’80), circolare per le strade di oggi. Per la pienezza dell’effetto, l’ideale sarebbe la Fiat 850. Ma fanno la loro porca figura anche una bella 600, o una 128, una 127 (specialmente se “Rustica”), una Ritmo, o addirittura un’Alfetta. L’impressione che queste auto datate trasmettono sfilando in mezzo alle loro nipotine odierne, figlie della galleria del vento e portatrici orgogliose di forme compattate e condensate, è esattamente quella di vecchie zie della motorizzazione. Con le loro squadrate sagome prismatiche, non proprio spigolose ma quasi, con la loro struttura a componenti analiticamente ben distinguibili, le antiche quattroruote sembrano ormai oggetti di design del mesozoico, se affiancate alle vetture di adesso, con le loro linee integrate e perfettamente sintetiche a priori (Kant come Giugiaro…).
A volte, mi basta pensare che solamente pochi decenni fa esistevano dettagli “isolabili” come il paraurti metallico tutto cromato, o il deflettore del finestrino, per cappottarmi sul posto dallo shock spazio-temporale.
Ecco insomma, un po’ in tutto questo consiste la “sindrome della vecchia Fiat 850”, ed il “flagellato dalla moda” ne è la vittima per eccellenza.

Un clamoroso “flagellato dalla moda” è il “cofanato anni ’70-’80”.
Questo prototipo umano è talmente spettacolare da ispirare persino tenerezza. A cavallo di quei due contorti decenni iniziati a secco di petrolio e terminati sotto i mattoni berlinesi, il cofanato non era ancora consapevolmente tale, bensì si presentava come un giovane virgulto “de la Buena Esperanzia” (…d’Escobar). Fosse egli fan dei Metallica, di Sandy Marton o di Toto Cutugno, l’imperativo di chioma era uno solo: zazzera folta e fluente, con disordinato effetto brezza tropicale su “macchio selvaggio”.
Gli anni trascorsero tuttavia, le mode sfiorirono, ma “il nostro”, improvvido, non se ne avvide. O meglio, non volle avvedersene, rimanendo fatalmente avvinghiato alla sua cara immagine chiomata dei bei tempi andati. Nel frattempo però la dimensione sociale del nostro eroe era cambiata, e un ruolo medio da impiegato modello aveva spazzato via le sue vecchie velleità da «Gran Ribelle Assoluto», all’epoca insignito addirittura del supremo ordine discotecaro dei «Fedeli di Bernarda».
Magari si era pure sposato, intanto, ed erano nati pargoletti, una prominente panzetta aveva rimpiazzato l’addominale che fu, ma la beneamata chioma non la voleva mollare. E fu così che per salvare la capra dei tempi nuovi ed i cavoli delle chiomate rimembranze, l’ex rivoluzionario “multi-crinito” mi cadde vittima del più borghese degli “in-cofanamenti”. Non potendosi più permettere un torrente di ciuffi a cascata libera e sparsa, sulle spalle e intorno al viso, si ritrovò un bel giorno sulla testa un pacchianissimo casco di Dart Vader senza un pelo fuori squadro, col malinconico orecchio ammainato a mezz’asta sotto la quinta di un allineatissimo parafango di capelli, simbolica nemesi storica che perennemente gli ricorda la virulenza della “sindrome da Fiat 850”.

Troppi esempi si potrebbero poi citare di flagellati celebri, che si farebbe notte.
Come non ricordare il “martire delle Adidas Tampico”, che sempre dai mitici anni ’70 non si è mai più levato dai piedi le sneakers bianche (“i scàrp del tènis”, per dirla Jannacciamente…), forse perché non si è accorto che nel frattempo qualcuno gli ha levato da sotto il cavallo dei Levi’s la sua Vespa 125 Primavera?
Oppure ancora, degnissimo di nota è il “trauma facciale da ascolto degli Oasis”, una forma più recente ma non meno perniciosa di flagello, che ha lasciato tantissime persone sfigurate nel sembiante, con ciuffi lisci appiccicati e leccati, a sciabole cadenti sulla fronte, e gli occhialoni scuri da mosca indossati anche quando fa un nuvolo da boia.
Assolutamente non trascurabile è anche l’attempato “portatore di coriaceo borsello”, sul quale non mi pare nemmeno giusto infierire troppo, anche per rispetto all’età ed al fatto che «in quel capannello…lui solo lo avrà in budello…e gli altri, in finto bue…» (Cit.).

Se tanto mi dà tanto dunque, viene alfine da chiedersi in quale misura verranno flagellati fra qualche anno i ragazzi modaioli di oggi. Si ritroveranno forse un bel giorno, magari ormai amministratori delegati fatti e rifiniti o responsabili di rinomate holding della cicca frusta, ad indossare cravatte con giacche appositamente aperte sul di dietro, per lasciare abbondante adito di mostrarsi alla carraia del culo facente sempiterno capolino dai pantaloni a vita bassa?



domenica 14 febbraio 2010

Grace under pressure

Cari amici viandanti per pensieri, nell'attesa che mi ritorni uno straccio di idea intorno alla quale intessere qualche fantasmagorico sproloquio tutto nuovo di trinca, vogliate gradire un classico della goduria musicale di tutti i tempi.



«Non ho soldi, nè risorse, nè speranze. Sono l'uomo più felice del mondo».

"Tropic of Cancer", Henry Miller - 1934

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«Quando ho scritto per qualche ora mi sento high e psichicamente felice come dopo il sesso».

Erica Jong

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«...Va beh, sono più che d'accordo, cara Erica e buon vecchio Henry...ma ogni tanto battere qualche chiodo ed avere due lire in tasca non è poi così malaccio...».

Gillipixel - 2010

mercoledì 10 febbraio 2010

Enunciati e felici


Non so se a qualcuno di voi è mai successo di essere perfettamente “definito”.
Intendo: avere il privilegio di venire “narrativamente” circoscritto con una precisione sintetica mirabilmente lucida ed inequivocabile. Due, tre parole, o poco più, che colgano la vostra essenza in misura perfetta, senza lasciare fuori dettagli superflui, senza tirare dentro fronzoli ridondanti. Parole che con finezza millimetrica dicono chi siate, quale porzione di universo occupiate.
A me è successo.
Oh, non che sia la fortuna più grande del mondo: c’è di meglio, senza dubbio. Ma se vi capiterà, poco ma sicuro, mi saprete dire che si tratta di una piccola soddisfazione.
Quando sono stato “enunciato”, uno dei particolari che ho trovato più simpatici è stato nell’autore della definizione: mio fratello.

Normalmente è un tipo di poche parole, mio fratello. Ma anche io lo sono, quando si tratta di esprimersi a voce; è solamente quando mi ritrovo sotto le dita una tastiera che divento logorroico (si dirà “graforroico”?).
Va detto che Gillipixiland, in generale, è un paese di “giocolieri di parole”. Mica dei geni, intendiamoci, non voglio millantare meriti infondati…basta dire che fra i gillipixiani rientro pure io, ed ogni possibile dubbio è fugato.
Però, e non saprei dire come mai, la gente che qui è cresciuta finisce per intessere un rapporto creativo con il linguaggio. Non so se è per via della nostra struttura dialettale, non so se è per quello che mangiamo, non so se è per il clima, certe volte talmente infausto da stimolare la ricerca di altri percorsi verso sbocchi esistenziali paralleli, che fra gli stupori della lingua sappiano magari innescare più felici congiunture.
Non che siano chissà quali poeti o fini dicitori, i gillipixiani. Sono invece attenti spigolatori di finezze linguistiche. Magari lo fanno più per un moto istintuale dettato dalle bizzarrie del vivere nelle quali spesso s’incappa da queste parti; magari in tanti casi non saranno gente colta; ma sono ad ogni modo parlanti scaltri, segugi del paradosso verbale, dell’inceppo semantico, che fa scattare lo stupore linguistico-concettuale.

Gli esempi sarebbero numerosi, ma ne citò uno per tutti, forse il più acuto ed allo stesso tempo ricco di colore espressivo, che io abbia sentito.
Risale grosso modo alla seconda metà degli anni ’40, per cui ovviamente lo riporto per sentito dire dalla leggenda popolare. Eravamo attorno al periodo del “Partito dell’Uomo Qualunque” di Guglielmo Giannini, e naturalmente anche a Gillipixiland questa proposta politica riscosse la sua porzione di consenso, con tanto di rappresentante locale del movimento, infervorato e fiducioso che esso avrebbe cambiato l’Italia, come sono soliti fare con regolarità impeccabile tutti i partiti politici (…l’ultima frase conteneva una vena sottile di satira…si era capito?).
Il genio linguistico si rivelò durante un convegno pubblico, tra l’altro non di carattere politico. Ovviamente il nostro sostenitore di partito era nascostamente già stato fatto oggetto della ferocia goliardica e “perdigiornista” dei filosofi da bar più taglienti. Ma fu durante quella riunione che si sfiorarono le vette della salacità più elevata. Ed il verbo si fece talento per bocca di un grande dicitore, che prendendo la parola, solennemente proclamò: «…il “tal dei tali” dice di essere un “Uomo Qualunque”, ma in fondo è solamente un “uomo qualsiasi”…».

Torniamo però alla definizione di me, coniata da mio fratello. Per imbrigliare in un breve detto la mia personalità banale, ma a suo modo intorcinata, serviva un’espressione sicuramente paradossale. Ma si fa presto a dire paradosso. Son buoni tutti a promettere una freddura sporca, per poi cavarsela maldestramente con l’immortale battuta anni ’70: «…’na bèla merda in frigo!!!…».
Per cogliere un’«essenza» e definirla, bisogna prendere in mano le parole, soppesarle, tastarle, sentire dove c’è ruvidità concettuale e dove scivolosità sonora. Bisogna possedere i tempi delle frasi, sapere che sillabe ed idee trasportate dalle medesime, formano un ritmo concatenato ed inseparabile. Bisogna cogliere il lampo di un’intuizione, che possa aprire possibili echi di espressioni consimili, però forgiate e piegate nella propria fucina della significazione, fino a far assumere alla nuova locuzione la sagoma e la coloritura di senso desiderate.

Ed è stato dunque più o meno con queste modalità, che quella volta mio fratello diede la definizione di me di cui ancora adesso vado più fiero in assoluto.
Proprio la volta che, “enunciandomi”, di me sentenziò: «…beh, lui…lui è “diversamente normale”…».



martedì 9 febbraio 2010

Nato bifolco, globalizzato crebbi


«...So I'll start a revolution from my bed
'Cause you said the brains I had went to my head...».

Don’t look back in anger” - Oasis, 1995

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Per una strana congiuntura biografico-temporale, la mia infanzia ha idealmente abbracciato il lasso di diversi secoli dell’umano costume abitativo.
Cerco di spiegarvi come.
I miei piedini di neonato o poco più fecero bizzarramente in tempo ad affondare nei rimasugli del medioevo, per poi zompare a piccoli balzelli sequenziali nell’onda lunga del boom economico del secondo dopoguerra, finendo col diguazzare alfine, divenute ormai discrete "fette" ben posate, nell’odierno mondo wide-webbante.
A volte, per “auto-impressionarmi”, mi soffermo su questa considerazione: «…da piccolo vivevo in una casa senza bagno, senza acqua calda, senza termosifoni e col cesso di fuori…mentre adesso navigo su internet…».

Eppure non era cosa tanto strana, durante il periodo in cui la mia infanzia capitò, nascere in una casa impostata architettonicamente ancora come da secoli e secoli si era sempre fatto.
Semplicemente, di tutti i comfort moderni, non si sentiva più di tanto la necessità. Mi sono interrogato sulla questione, e credetemi che era così. Il punto non stava tanto nelle possibilità economiche. Tutte le famiglie, la mia e quelle dei miei amici, erano ormai approdate ad una discreta agiatezza, “post-post” bellica, di mezzi e di possibilità. Ma il cesso era sempre rimasto là fuori, ben distaccato dalle altre stanze, e se non fosse stato che per sentito dire in città la gente ce l’aveva a due passi dal letto e lo chiamava bagno, a nessuna di noi anime rurali sarebbe mai venuto in mente di muoverlo dal suo olezzante esilio, e soprattutto a nessuno sarebbe venuta l’idea di chiamarlo diversamente da cesso.

Il senso della privatezza e dell’intimità degli spazi aveva già compiuto decine e decine di anni ormai (…roba ottocentesca), ma la brezza della modernizzazione aveva interessato soprattutto i nuclei urbani principali e magari anche l’aggregato abitativo più centrale dei paesi. Per il resto, fra la prima periferia rurale ed il west, le case permanevano organizzativamente nella loro sostanziale impostazione medievale, se non addirittura longobarda o romana.

Il “Rubicone residenziale” dei nostri tempi moderni fu segnato dalla scoperta del corridoio. Quando i nostri babbi alla fine si fecero praticamente tutti la casa nuova, anche a noi, teneri virgulti scaturiti dall’«economico boato», venne svelato il secolare mistero del disimpegno, la sconosciuta malia dell’andito fra le diverse domestiche stanze.
Sin dai tempi del dinamico mercante dell’evo di mezzo, sin da quando lo scaltrito e duttile bifolco feudale si legò col filo doppio dell’odio e dell’amore alla gleba sempiterna, lo spazio era stato concepito fondamentalmente nelle sue accezioni di concretezza. In casa si entrava soprattutto per ripararsi, riposare, rifocillarsi, riprodursi e poco più. Ogni metro quadrato coperto da un tetto andava fatto rientrare sotto queste voci, e non era concepito spazio di transito puro o destinato ad attività in qualche modo non fruttifere di eventi tangibili.
Sotto questo aspetto, la domesticità era proiettata sul mondo.
Le distinzioni fra interno ed esterno assumevano più un carattere logistico-pratico, che non implicazioni ideali a definire una cesura netta fra uno spazio dell’intimità privata da una parte, ed una dimensione deputato alla vita pubblica dall’altra.

La casa della mia primissima infanzia era una delle quattro fette di una grossa torta edile. Case a schiera, le hanno chiamate dopo; ma lì, della specificazione geometrica e quantitativa degli spazi, c’era poco o nulla. Quel gigante di sassi e laterizi irregolarmente squadrati, somigliava più ad un organismo vivente, che respirava, sudava, assorbiva rigide nebbie e morbide rugiade, all’unisono coi suoi abitanti.
Un bestione di muri e travi lignee cresciuto assieme alle generazioni umane, animali e vegetali, aggiungendo una o più stanze sulla misura della prole mutevole, un nuovo prociletto o una piccola scuderia sulla scorta delle previsioni suine ed equine di lungo e medio termine, spicchi di fienile aggiuntivi a riecheggiare la felicità e la copiosità delle stagioni trascorse.
Un vero e proprio microcosmo urbano era questo variegato castello della mia bambinitudine, una concrezione di vita ai margini delle ramificazioni di campagnolità paesana più profonde.
Davanti, la grande aia sulla via principale, da tempo immemore teatro di interminabili giochi di bimbi, col suo palcoscenico chiuso talvolta dalle gioiose quinte profumate di lenzuola, panni, calzini e mutandoni freschi di bucato steso ad asciugare, cassa di risonanza di risate, chiacchiere, canti, schiamazzi di festosi frangenti ed imprecazioni.
Alle spalle del grande casone, un altro piccolo cortile chiuso a cavedio dal dedalo di pollai, ripostigli, porciletti, rimesse, antichi stallaggi per i cavalli, portichetti e depositi di legna.
Ogni “appartamento” ti accoglieva direttamente nella stanza in cui si pranzava, si vedeva la tele, si trascorrevano le giornate lunghe d’invernale luce breve, si sorbiva il fresco dai muri generosi nelle brevi giornate estive di chilometrico bagliore. Sul retro, un altro vano di dimensioni simili faceva da lavanderia, cucina ed ambiente per servizi vari.
La scala, ripidissima, stretta e perennemente semibuia, ti portava al piano superiore come sollevato dalle mani di un ciclope di legno rumoroso, e là in alto ti ritrovavi nel piccolo dedalo di stanze tutte comunicanti, senza quasi senso del “tuo” né del “mio”, ma solo con un'impressione diffusa ed ipnotica di “nostro”.
A mitigare l’inverno, le braci nel padellino, infilate sotto le coperte tenute su a capanna dal “prete”, una sorta di ingegnosa maxi-balestra di legno flessibile; e d’estate la frescura che risaliva dal cortiletto posteriore, tanti pomeriggi di afa martellante, aspettando nel letto un coccodè dal pollaio che segnava la sveglia dalle mie pennichelle infantili…

E certo, fra le quattro o cinque famiglie ch'eravamo, il senso del "questa è casa mia" e "quella è casa tua" era ben chiaro a tutti, ma in una dimensione sfumata, senza soluzione di continuità, nè demarcazioni troppo rigide.

Ebbene sì, cari amici viandanti per pensieri: sono cresciuto in una casa senza bagno ed acqua calda.
Ma sono sempre io, che adesso posso parlare a voi ed al mondo, stando seduto sulle mie mutande (*), nella mia sedia illuminata dall’azzurrino riverbero di un computer…

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( *) = Piccola non-verità in forma di licenza poetica: in realtà, quando scrivo, indosso solo 5 gocce di Chanel n.° 5…



sabato 6 febbraio 2010

Quella che è...'sta min...

(Scultura di Rabarama su mini foto-casino di Gillipixel)

Già il mondo dei "normo-parlanti" versava in gravi ambasce nel condurre l'impari lotta contro il pernicioso morbo del "piuttosto che...", quando ecco profilarsi all'orizzonte un parassita del linguaggio forse ancor più molesto.
Di certo più subdolo.
Il terribile e pestilenziale "quello che è...".

La mortifera "perifrasella" (= "perifrasi sfaziusella") era stata proditoriamente introdotta nell'aere discorsivo dal solito politicante o amministratore locale aduso alla fisiologica gonfiatura delle parole. L'arte dell'oratoria ad alta pressione è ben nota ai più spericolati retori del nulla: se il discorso che ti accingi a fare è di per sè già flaccido di contenuti e d'interesse, come la vecchia camera d'aria della carriola del trisavolo del parlante, la strada maestra del bravo "parolese flatulante" è stata da sempre una ed una sola: gonfia le frasi come zampogne, rimpinzale di aria da soffiare con ventosa petulanza nelle orecchie del miserando uditorio (per non parlare delle sue povere narici...), ed è garantito il dialettico figurone (...di quale materiale, meglio non indagare).


La misura era stata colmata abbondantemente da sindaci, assessori, consiglieri ed ordinari "ciàpa ciàpa" amministrativi, con ridondanti proclami inneggianti senza pudore a "...quello che è il nostro bilancio previsonale...", trombonanti senza ritegno circa "...quello che è il piano triennale delle opere pubbliche...", verbo-sbavanti con infamia e senza lode su "...quelle che sono le normali sinergie da attivare per fare sistema ed adire a quello che è un doveroso miglioramento della qualità della vita, favorendo esclusivamente quelli che sono gli interessi del cittadino...".
Il "normo-ascoltante", basito, e senza ribattere motto alcuno, ascoltava.
Però in cuor suo il dubbio albergava, e fra sè e sè finiva per meditare: «Ma se mi stai parlando di una cosa, che minchia di bisogno c'è di continuare a ripetermi che è "quella che è"!!!».

Finché giunse il giorno in cui ci si rese tristemente conto che la diffusione del contagio aveva oltrepassato la misura di non ritorno. E anche più in là.
Tutto pareva ormai irrecuperabile, perchè il morbo aveva fatto preda sua anche l'imbelle cittadino, in altre epoche parlante com'era aduso mangiare. Imbeccato per strada dal faceto cronista di un'emittente locale, per discettar del fondamentale tema di un sottoambito ancor più locale e plurimarginale della viabilità urbana (ma cosa dico urbana: di quartiere), l'infelice intervistato, col suo orrido dire tutto purulento della flagellante piaga verbale novella, l'infausta sentenza pronunciò: "...quello che è il divieto di transito in questa via...(*)".
"...Ahi duro asfalto drenante, dall'esosa riga blu istoriato: perchè non ti apristi!?!?!..."

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(*) = Giuro che l'ho sentito con le mie orecchie!!!



giovedì 4 febbraio 2010

Sensibilità turpiloqiuale


Scrivere è terapeutico, secondo alcuni.
Di certo, ti offre l’occasione di scoprire taluni meccanismi mentali ai quali magari non avresti normalmente fatto caso. Ad esempio io, scrivendo, mi sono accorto di un mio particolare modo di considerare le parolacce. Mi sono reso conto di essere parecchio restio al loro utilizzo, e di farlo solo in casi molto particolari. Così mi sono interrogato un po’ sul fenomeno e volevo raccontarvi quello che è emerso dalla mia analisi.
In primo luogo, non credo sia questione di moralismo, ma se anche fosse non me ne fregherebbe molto. Forse in fondo in fondo, un po’ moralista lo sono. A patto che ci si intenda sul senso della parola “moralista”. Se moralista è uno che si sforza di essere corretto verso gli altri, spero di essere un moralista. Se moralista è un tizio pieno di fisime per dettagli esistenziali del tutto superficiali e stucchevolmente formali, uno che pretende sempre di insegnare agli altri come si vive, allora spero di essere un “immoralista”. Anzi, dato che il neologismo è stato già sfruttato da qualcuno più importante di me, diciamo che, nella seconda accezione del termine, spero di essere un “demoralista”.
Un altro fattore che compone la mia perplessità riguardo l’uso indifferenziato e facile della parolaccia, è l’idiosincrasia per le mode. Dal ’68 in poi la parolaccia è stata sdoganata. Ormai la può sfoggiare con nonchalance da pret-a.porter anche il distinto professionista, e nei “salotti-bene” le gran dame si mettono spesso e volentieri in bocca un “vaffà…” o un “eccheccà…”.
Ecco, quando ti dicono che una cosa “la devi fare”, è proprio la volta buona che comincia a starmi sui “cogl…i la prima mela”…Vedete? Non posso nemmeno scrivere liberamente senza andarmi ad intorcinare in una subdola labirintite d’incoerenza dimostrativa.
La questione sta nel saper cogliere il paradosso: in un’epoca in cui tutti vogliono essere trasgressivi, e il farsi di coca ha sostituito la valenza sociale del bersi un chinotto al “Bar sport”, il vero Jim Morrison dei giorni nostri è l’impiegato del catasto che va a letto alle nove e mezza, dopo aver sorbito tempestina scotta in brodo di dado.

E qui veniamo al punto del mio discorso. Se stento ad usare la parolaccia con eccessiva disinvoltura, è perché nei confronti di essa nutro un rispetto linguistico considerevole.
L’etimologia dell’aggettivo “osceno” non è accertata con sicurezza. Esiste tuttavia un’ipotesi particolarmente suggestiva, anche se, con ogni probabilità, non molto fondata (ma io la uso lo stesso, va mo’ làh!). Stando a questa etimologia un po’ leggendaria, l’«o-sceno» si rifarebbe all’idea di un allontanarsi dalla scena, dapprima intesa in senso teatrale stretto ed in seguito ampiamente metaforizzata.
Se la scena è un luogo in cui vigono determinate regole, tirandosene fuori aderendo all’«o-sceno», si manifesta anche l’intenzione di non sottostare, seppur momentaneamente, a quelle regole.
Già qui, emerge una prima contraddizione, molto parente della faccenda della coca e del chinotto. Se l’uso della parolaccia è un tirarsi fuori dalle regole, ma poi quando mi trovo “fuori dalla scena”, rendo a sua volta l’osceno una regola, capite bene che c’è qualcosa che non quadra.
Dobbiamo allora capire meglio in cosa consista questo “portarsi fuori dalla scena”, questo «o-scenizzarsi», che credo si possa differenziare in due tipologie.
C’è l’«o-scenizzarsi» del pronunciatore seriale («serial teller»?) di parolacce, che assomiglia molto ad un ripiegamento in ritirata, al proclama di una sconfitta, di una resa. Il parolacciaio compulsivo ha l’aria di uno che si tira fuori dalla mischia dialettica, che rinuncia a combattere la battaglia argomentativa secondo le regole a disposizione di tutti i contendenti che calcano la scena della discussione, e si avvale, al limite della slealtà conclamata, di armi non convenzionali.
La cosa ricorda un celeberrimo passaggio del primo Indiana Jones (se non vado errando la citazione…), una scena in teoria divertente, ma in pratica piuttosto sgradevole, nella quale si vede l’archeologo castigamatti fronteggiare in singolar tenzone un fiero guerriero vagamente arabescato. Il feroce saladino brandisce il suo spadone nell’aria con grandi urla e strepiti intimidatori, Indiana lo guarda un po’ con aria di sufficienza, tira fuori il revolver, e lo fa secco col sorriso sardonico sulle labbra.
Un comportamento simile lo tiene l’abusatore di parolaccia.

C’è tuttavia anche l’«o-scenizzarsi» di chi si pone in sintonia più genuina con il linguaggio, di colui che rispetta la parolaccia in quanto evento straordinario. Questo tipo di utilizzatore oculato della volgarità sa che l’atto del “discendere dal palcoscenico” merita lo sforzo, solo se il luogo in cui ci si sposta è una riserva privilegiata della lingua, e non un insipido hard-discount di termini ormai svuotati della loro preziosità semantica a causa di un usurante utilizzo inflazionistico.
Ma non solo.
La parolaccia centellinata assume sfumature ludiche fra amici che, nel lungo tempo della loro conoscenza sempre più approfondita, hanno lentamente contrattato una complicità in crescendo giocoso.
E andando ancora oltre: nella sua più raffinata pertinenza linguistica, l’oscenità sa anche innalzarsi fino alle vertiginose altitudini delle cime innevate dal candore delle verbali schermaglie erotiche, laddove la parolaccia si fa diamante multi-sfaccettato nel torrido crogiolo della passione dialogica più intima, intessuta fra due esseri parlanti che stanno amando.

Ecco dunque la serie di motivi per i quali mi pare che l’utilizzo un tanto al chilo della parolaccia costituisca pratica banalizzante, nonché sintomo di trascuratezza linguistica.
Insomma: ad essere osceni, ci vuole tatto…acciderbolina perbaccosa!!!...che poi va a finire che m’indispettisco…e uffa!!!