venerdì 28 marzo 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Francisco Goya (1746-1828)

Ritorna la rubrichetta settimanale «Le muse di Kika van per pensieri», con un nuovo dipinto da rivestire (da parte di Kika) e da corredare di una rinnovata identità comparata con volti famosi della modernità (da parte mia). Se nelle ultime puntate avevamo trattato opere di artisti minori, stavolta Kika mi ha conciato bene per le feste: ha scelto infatti una delle opere più famose di tutta la storia dell'arte, «La maya vestida» di Francisco José de Goya y Lucientes (Fuendetodos, 30 marzo 1746 – Bordeaux, 16 aprile 1828).

Vi confesso che l'idea di parlare di Goya mi mette un po' spavento. Nel senso che il tema è vastissimo, ci sarebbero implicazioni storiche molto complesse da analizzare, comparazioni con realtà artistiche e tradizioni di pensiero contemporanee al grande autore spagnolo, e così via. Goya ha a che fare ancora col Barocco, ma al tempo stesso è fortemente proiettato verso la modernità. Come minimo, sarebbe necessario fare alcuni cenni anche a Diego Rodríguez de Silva y Velàzquez (Siviglia, 1599 – Madrid, 1660), altro grande maestro iberico fondamentale per la formazione artistica di Goya, che a lungo studiò le sue opere, riproducendole anche con molte incisioni.

Forse dunque lo spazio esiguo di un articoletto di blog non è il luogo più indicato per una disamina tale, e soprattutto, forse non sono io la persona adatta a farla come si deve. Mi limiterò allora per stavolta a pochi accenni molto sintetici, e lascerò poi spazio alla parte delle somiglianze, che per l'occasione mi è riuscita, non so se efficace, ma almeno feconda.

Per il poco che ne so e per l'idea che mi sono fatto io, uno dei grandi contributi della poetica di Goya al discorso della storia dell'arte è consistito nel fare della “bruttezza” una fondamentale categoria della vita, ad essa insita. Con Goya, gli aspetti più inquietanti, oscuri, caotici, minacciosi, irrazionali della realtà, e dell'interiorità umana soprattutto, assurgono ad un ruolo di potenti strumenti conoscitivi.

Il “realismo” di Goya non fa sconti: sua intenzione è sondare il mondo fin nelle profondità più vertiginose. L'impianto espressivo di Goya si serve di una raffinatissima evoluzione del discorso barocco, ma lo porta alle estreme conseguenze. Dice in merito Giulio Carlo Argan: «...[In Goya ] la struttura del discorso figurativo rimane barocca, ma portata al limite del disfacimento...». E ancora: «...il suo realismo non è copia della realtà, è quel che rimane quando un'ideologia va in pezzi. […] Negando l'ideologia, Goya nega anche la storia, che per lui è un'ideologia del passato perché rappresenta il mondo come si vorrebbe che fosse stato. Il realismo, se veramente tale, è antinaturalistico. Il vero realismo consiste nel tirar fuori tutto quello che si ha dentro, non nascondere nulla, non scegliere...[...]...[Goya] si circonda dei suoi fantasmi perché vive di essi, che sono la sola, vera realtà...».
 "Saturno divora un figlio"(1819-1823 circa) - Francisco José de Goya y Lucientes

 "Autoritratto" (1971) - Francis Bacon

Un'ultima suggestione personale, riguardo a questo grande artista: se dovessi indicare un autore contemporaneo che ha preso il testimone del fare artistico di Goya (ovviamente facendo tutti i distinguo del caso e i “mutatis mutandis” opportuni), per me il nome più appropriato sarebbe quello di Francis Bacon (Dublino, 1909 – Madrid, 1992).


E adesso che sono più o meno riuscito ad infilare la balena nella scatoletta di tonno, passo al gioco delle somiglianze. Per l'enigmatico volto della languida dama ritratta da Goya, non son riuscito a scovare una somiglianza “secca”. Ho invece ipotizzato un trittico di visi di donne famose dei giorni nostri, che in qualche modo posseggono un componente utile a suggerire l'affinità fisiognomica.

Ecco la mia prima ipotesi:
 L'avrete riconosciuta, si tratta della cara Arisotta (Arisa), ancora fresca dagli allori sanremesi.

Vediamo adesso la seconda opzione:
 
Stavolta forse l'analogia di tratti è molto più sfumata e sfuggente e non so voi, ma io un po' ce la vedo. Allora vi rivelo un piccolo segreto: questo volto desideravo utilizzarlo sin dalla prima puntata di «Le muse di Kika van per pensieri», perché lo trovo particolarmente affascinante, col suo curioso mix di femminilità e felinità, due categorie, anche estetiche, che apprezzo molto. Perdonerete dunque la forzatura. Non è detto che non lo riutilizzi per una futura sfida fisiognomica in questa rubrichetta, però adesso almeno vi rivelo di chi stiamo parlando: anche se il nome farebbe sospettare origini estere, è una bravissima giovane attrice italiana, Alba Rohrwacher. Personalmente, l'ho vista recitare e l'ho apprezzata in un intenso film di Pupi Avati, «Il papà di Giovanna», del 2008.

Chiudo con la terza ed ultima alternativa:
 
Questa volta ci siamo spostati nell'ambiente del giornalismo: questa è Norma Rangeri, storica firma del «Manifesto». Anche qui, magari la somiglianza è alquanto acciuffata per i capelli, ma alla fine, prendendo un po' da uno, un po' dall'altro dei visi proposti, uno straccio di parallelismo somatico credo di averlo individuato.

Anche per oggi allora è tutto. Prima di salutarvi, vi ricordo di andare a scoprire come la sempre bravissima Kika, sul suo blog, ha rivestito per noi la «La maya vestida» (non ho resistito al gioco di parole: era troppo ghiotto, e la mia indole troppo Pippesca). E adesso vi saluto: appuntamento alla prossima puntata!


martedì 25 marzo 2014

Una gita a Luogo Comune


Coi miei amici ormai, le volte che ci si trova, cerchiamo di scovare le mete più alternative per trascorrere qualche momento spensierato in compagnia.

La trasgressione ci è venuta a noia. A drogarci, non ci pensiamo nemmeno. Da quando la cocaina ha scalzato le Nazionali senza filtro nel paniere ISTAT per il calcolo del costo della vita ed il basco in flanella è stato eliminato a favore delle anfetamine, ci siam messi ad optare per i tranci di mortadella del discount in offerta promozionale, come nostra sostanza psicotropa prediletta.

Qualcuno di noi, tempo fa, aveva persino ventilato l’idea di iniziare la carriera di rock-star. Il problema di fondo è che sostanzialmente siamo dei gran pignoli. Difficilmente ci improvvisiamo, quando facciamo le cose. Ci siamo interessati se c'erano in giro scuole serali di “recupero credito” per diploma di rock-star certificato con valore di legge, spendibile sul mercato del lavoro. L'unica occasione capitò con certi corsi dell'università per la terza età, dove in effetti rilasciavano regolare “Laurea Anziana per Divi Vintage del Rock”.

Era un'offerta anche parecchio vantaggiosa. Quella della rock-star, si sa, è una vitaccia mica da poco. Anni ed anni a massacrarsi il fisico con migliaia di donne da soddisfare in copulante estraneità. Ore su ore di straordinario, da non contarle nemmeno, per orge e party selvaggi. Uso delle droghe più sconvolgenti per mantenere un minimo di buon nome sui giornali di gossip. Il dovere morale di sbattere via soldi in vestiti, scarpe di coccodrillo pitonato, case di lusso con finiture in vitello tonnato, automobili d'oro massiccio, yacht tempestati di diamanti, incroci rari di cani dal pedigree inenarrabile, esami del DNA. Obbligo deontologico di tenersi i capelli lunghi, esosissime rate mensili per l'iscrizione all'albo degli “Artisti maledetti” ed altrettanto costose quote da versare al T.R.O.M.B.A.S., il sindacato autonomo delle rock-star orgiastiche.

Niente di tutto questo invece, con i corsi per la terza età del rock. Conseguendo il loro diploma, saltavi a piè pari tutta la devastante fase giovanilistica del divo musicale e ti ritrovavi direttamente diplomato con la qualifica di “rock-star anziana” riconosciuta. Nel diploma erano anche compresi: una discreta casetta con piscina sulla Costa Azzurra, un programma di fitness completo, uno stile di vita sano ed equilibrato, la presidenza onoraria di qualche ente benefico creato per risolvere qualcuno dei più clamorosi problemi che affliggono l'umanità, ed una serie di date per concerti in reunion con la propria vecchia band, da formarsi con altri neodiplomati.

Peccato che fra di noi amici, nessuno rientrasse nelle esclusive clausole d'iscrizione: siamo tutti rigorosamente molto anziani dentro, ma non era sufficiente e per quella volta non se ne fece nulla...

Non so chi ebbe per primo l'idea, ma una certa sera che ci annoiavamo forte, mi pare che uno dei miei amici (non ricordo chi...) se ne uscisse con questa frase: «...Dobbiamo andare in un posto dove nessuno è mai stato, a fare cose che nessuno ha mai fatto!...». Lo pigliammo ovviamente un bel po' per il culo per la geniale uscita, ribattendo con facezie in stile: «...Sì, c'è gente che va a mangiarsi anche il gelato sotto i vulcani in eruzione, tirandosi dietro un pullman di modelle con un'ascella pelosa e una depilata, e siamo proprio noi quelli che troviamo fuori un posto dove nessuno è mai stato!...».

Per niente scoraggiato dal coro canzonatorio, il gran promotore della trovata scaccia-noia ribatté allora cocciuto: «...Un posto dove nessuno è mai stato, lo si trova ovviamente in nessun posto, questo è il segreto...». E tutti gli altri giù ancora, più sbeffeggianti e burlieri che mai: «...Minchia, se era tagliata male, l'ultima dose di mortadella del discount che ti sei sparato!...».

Il punto è che quel nostro amico è veramente meticoloso e deciso, quando ci si mette, tanto che giunse infine a pronunciare il suggerimento in grado di sbaragliare via ogni tono sarcastico «...Dobbiamo magari andare...che ne so...a Campa Cavallo, a vedere l'erba crescere!...». Ora, in tutto il gruppo di amici che siamo, non è che abbiamo mai brillato troppo per originalità, acume o spirito di iniziativa. Ma quando ci viene profilata una prospettiva affascinante, beh, saremo pur tonti, ma quella la sappiamo riconoscere.

Non siamo così sprovveduti da non sapere che la strada per «Campa Cavallo» si può aprire solo con un piede di «porco boia», a sua volta dotato di alluce «vago», «indice analitico» ed «in medio stat virtus». Qualcuno suggerì poi che forse ci avrebbero fatto caso ancora due dita, il «grande ricordo anulare» ed un po' di «metaditone», sostanza indispensabile per uscir fuori dal tunnel carpale. A furia di sparare una valanga di freddure di questo genere, sbucò l'idea di metterle in musica e tirarne fuori una grande opera lirica moderna. L'ostacolo più impegnativo da superare sarebbe stato rintracciare un buon «tenore di vita», magari Mi-fa-La-sol-fa in persona.

Avevamo dunque appena scoperto che per «andare dove nessuno era mai stato, a fare cose che nessuno aveva mai fatto», non c'era quasi bisogno di muoversi fisicamente. Dipendeva un po' dalla destinazione scelta.

Un'altra sera, ad esempio, ci pigliò l'uzzolo di «andare in Europa a battere i pugni sul tavolo». Il nostro paesello, in Europa c'è già, mancava solo di rintracciare il primo tavolo utile a disposizione. Dai giardini pubblici in cui ci trovavamo, dove nel frattempo l'erba era cresciuta per davvero, i tavoli più vicini erano quelli dell'osteria in piazza. In quello proprio vicino alla porta d'ingresso, stavano seduti alcuni vecchietti alle prese con la loro briscola serale. Tutti insieme noi gruppo di amici, battemmo i pugni sul tavolo all'unisono, mandando all'aria le carte e scompigliando per bene la mano in corso.

I vecchietti tutti in coro ci mandarono a cagare, senza lesinare maledizioni fraseggiate di tecnicismi bestemmiatori, grosso modo lo stesso tipo di risposta che si sentono dare i nostri governanti quando sbattono il grugno contro il macigno delle ragioni economicistiche sovranazionali. Tanto in paese lo sanno tutti che siamo una piccola banda di svitati e a noi ormai non ci fanno caso più del necessario. Riordinate le carte, sono ripartiti con una nuova partitella, e chi s'è visto s'è visto. Per di più uno di noi, avendo visto di sfuggita un micio sgattaiolare fuori dell'uscio di una casa, esclamò nella meraviglia generale: «...Il gatto di stabilità!!!...» e allora tutti fuori dal bar, ad ammirare quel portento di equilibrio fra ragioni barbine e questioni di lana felina.

Adesso, ogni volta che ci ritroviamo, ognuno propone una meta per le nostre gite, sempre rigorosamente «luoghi dove nessuno è mai stato, per andarci a fare cose che nessuno ha mai fatto». Son proprio curioso di vedere dove andremo a parare la prossima volta. C'è chi ha promesso di far parlare persino un nostro amico solitamente dotato di fantasia un po' bovina, scommettendo con tutta la compagnia di riuscire a cavare una «voce fuori dal toro». Certe volte mi piacerebbe starmene un po' a casa per i fatti miei, ma guai a mancare agli appuntamenti con questi miei amici: da quando abbiamo scoperto queste gite nei posti dove nessuno è mai stato, non mi concederebbero un'assenza per niente a mondo. Piuttosto sarebbero disposti a venirmi a fare una serenata sotto le finestre, a suon di squilli di trombe d'Eustachio.


venerdì 21 marzo 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Hermann Fenner Behmer (1866-1913)


Oggi, nuova puntata incrociata di “Arte & moda” di Kika e “Le muse di Kika van per pensieri”, le rubrichette gemellate che prima vi vestono le opere d’arte e poi trovano loro un volto “alternativo”. Anche in questa occasione lo sguardo di Kika si è posato su un artista assai poco noto, ma questo non impedirà, come già accaduto le volte precedenti, di intavolare un discorso a suo modo interessante.

L'artista in questione è il tedesco Hermann Fenner Behmer (Berlino, 1866 – Berlino, 1913) e quando vi dico che è poco noto dovete proprio credermi, perché oltre al fatto che fosse tedesco, non saprei proprio dire molto altro. Ma niente paura, la penuria di dati biografici non ostacola il fatto di poter fare diverse considerazioni sull'opera scelta da Kika, intitolata “What should I write about?” (o se si preferisce “De quoi écrire?”).

Innanzitutto vi invito a visitare le sorprese preparate da Kika per quel che riguarda gli aspetti dell'abbigliamento connessi al soggetto ritratto nel quadro, e poi, se ne avete voglia, ascoltate un po' cosa ho da dirvi io.

Basta un'occhiata rapida al dipinto, per accorgerci che ci troviamo chiaramente in pieno periodo impressionista (anche se la scarsità di fonti non mi ha consentito di risalire all'anno preciso di realizzazione). Come sempre quando si tratta di questi artisti minori, ma non per questo privi di un'interessante abilità tecnica e di una resa espressiva degna di nota, la domanda che viene da farsi e la seguente: perché nella lunga vicenda della storia dell'arte, questi qui sono “passati sotto l'uscio”, mentre altri sono i grandi di cui ci ricordiamo?

La risposta che ipotizzo è un po' sempre la stessa: questo Hermann Fenner Behmer è stato un artista che si è adeguato ad un linguaggio inaugurato da altri, limitandosi a parlarlo, senza tuttavia aggiungere nuove “frasi” originali da parte sua.

Ragionando su simili questioni, mi è tornato alla mente un bellissimo saggio di Umberto Eco, contenuto nella sua opera “Apocalittici e integrati” (Bompiani, 1964), un testo, a mio modesto parere, fondamentale per quanto riguarda questioni critiche e di analisi degli strumenti estetici.

Il saggio in questione introduce il concetto di Kitsch. Non a caso, il dipinto di Fenner Behmer mi ha ricordato il saggio di Eco, perché ad un certo punto di quell'illuminante scritto si parla di “Kitsch come boldinismo”. Il riferimento che questa strana aggettivazione introduce, va ovviamente al noto pittore italiano Giovanni Boldini (Ferrara 1842 – Parigi 1931). Boldini “faceva un po' il verso” all'impressionismo, fornendone una rivisitazione di facile impatto, ma svuotata della “forza conoscitiva” e della “vis poetica” originarie. Mi pare per l'appunto di poter dire che l'intenzionalità artistica contenuta nell'opera di Fenner Behmer consista a suo modo in una sorta di “boldinizzazione” degli stilemi dell'impressionismo, se così si può dire. Potremmo anzi per di più aggiungere che Fenner Behmer, facendo un discreto uso di sfumature evanescenti e di “rese atmosferiche” lattiginose, finisce per “boldinizzare” alla maniera di Boldini stesso, proponendosi insomma come una sorta di Boldini elevato al quadrato.

Scrive Umberto Eco, esemplificando distintamente questo tipo di operazione estetica: «...Un messaggio poetico è troppo complesso? Accade che di solito il ricettore ne colga solo un aspetto, o lo accetti sovrapponendogli una decodificazione precedente diventata formula? Ebbene, si attui una operazione di mediazione, offrendo al pubblico non i messaggi originari, ma messaggi più semplici, in cui appaiano incastonati a mo' di riferimento eccitante, stilemi tratti da messaggi ormai celebrati per le loro qualità poetiche...». Questo il nucleo di senso più profondo dell'operazione artistica di Boldini, e di riflesso anche di quella di Fenner Behmer.

Vale la pena citare anche una possibile definizione di Kitsch, fornita sempre da Eco: «...è Kitsch tutto ciò che appare consumato; che arriva alle masse o al pubblico medio perché è consumato; e che si consuma (e quindi si depaupera) proprio perché l'uso a cui è stato sottoposto da un gran numero di consumatori ne ha affrettato e approfondito l'usura...». In questa prospettiva dunque, Boldini e Fenner Behmer ci presentano un impressionismo ormai “depauperato”.

Mi pare che tutti questi ragionamenti (anche se meriterebbero un approfondimento non possibile in questa sede, perché prenderebbe troppo spazio) si attaglino bene ad un'osservazione critica del quadro di Fenner Behmer.

A questo punto però, siccome poi Kika mi sgrida perché ogni volta le “demolisco” gli artisti scelti (ehehehehe, scherzo...), voglio aggiungere due cosette modeste, da semplice osservatore casuale. Devo ammettere che il ritratto di questa signorina indecisa su cosa scrivere, ha un suo fascino. Tra l'altro (pur con tutti i distinguo del caso), la tematica mi coinvolge molto anche in prima persona. Quante volte mi sono ritrovato a dovermi contorcere nell'abbraccio asfissiante della mancanza di “ispirazione narrativa”. Per chi ama tanto la scrittura, è un sentimento “purtroppo” assai familiare. O forse nemmeno tanto “purtroppo”, perché fa tutto parte di un solo meccanismo che esige sia fasi di “eccitazione sovraproduttiva”, sia momenti di piatta calma meditativa.

E, d'accordo, la protagonista del quadro non starà scrivendo un articolo, o un racconto, o roba per un blog. Più probabile si tratti di una lettera, ma non possiamo nemmeno esserne così certi. Sta di fatto che tutto il suo atteggiamento, l'espressione, l'impenetrabile smarrimento nel vuoto del suo sguardo enigmatico, la postura colta come in sospensione: tutto questo ci parla benissimo di quel sentimento di indefinitezza dell'animo posto di fronte alla potenzialità di parole da mettere nero su bianco.

Un'ultima curiosità interessante che mi pare di poter mettere in rilievo: il dipinto colpisce anche per i suoi “tempi fotografici”. Nel senso che tutta la scena è fissata sulla tela come fosse un'istantanea, la tempistica in atto è pensata con la stessa rapidità e fuggevolezza messa in gioco dalla capacità di catturare immagini propria di un apparecchio fotografico.


Ed eccoci alle note dolenti. Questa volta non sono riuscito a scovare una somiglianza degna di questo nome. Ho fatto ad ogni modo alcune ricerche e vi sottopongo le mie ipotesi, per quanto lontane da un risultato accettabile esse possano essere. Non so come mai, ma fissando quel volto, nel mio inconscio si è fatta strada pian piano la convinzione che la protagonista del dipinto dovesse somigliare ad una qualche diva americana del cinema muto. Di fatto ho “setacciato” tre alternative, ben sapendo che nessuna delle tre rende una somiglianza sufficiente, però per questa volta di meglio non sono riuscito a fare.

Ecco i miei scarsi risultati:

 
Questa è Mary Astor (Quincy, 1906 – Los Angeles, 1987), in due diverse immagini.

Questa Clara Bow (Brooklyn, 1905 – Los Angeles, 1965).

E questa è Barbara Kent (Gadsby, 1907 – Palm Desert, 2011).

Lo so, in tutti e tre i casi forse il resto del viso potrebbe anche andare, ma sono gli occhi ad essere molto diversi. Insomma, per stavolta alzo bandiera bianca e mi dichiaro sconfitto: il mistero artistico ha avuto il sopravvento, rimanendo inviolato. Pazienza...succede anche nelle migliore agenzie d'investigazione fisiognomica.


venerdì 14 marzo 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Ilaria Del Monte


Molto interessante l’opera scelta da Kika per questa puntata della sua rubrica di “moda & pittura”, che con gran piacere accolgo e traspongo nella mia contro-rubrichetta gemellata “Le muse di Kika van per pensieri”. Il quadro di oggi, un olio su tela del 2011, s'intitola “Prima che i galli cantino”. L'autrice è una giovanissima artista di origini pugliesi, Ilaria del Monte (Taranto, 1985). Per una volta dunque possiamo parlare di energie artistiche presenti, attive, pulsanti ed attuali, e questa è sicuramente una cosa molto bella.

Non esistendo un apparato critico di rilievo riguardo alla giovane pittrice pugliese, come nella puntata scorsa mi limiterò a riportare alcune impressioni personali sulla sua opera, da puro osservatore incuriosito.

Innanzitutto, una piccola osservazione generale: il fatto che un'artista di oggi si affidi all'espressività figurativa, dopo che l'astrattismo s'è imposto come linguaggio quasi preminente nella contemporaneità, mi pare già una dichiarazione d'intenti degna di nota e a suo modo una scelta “coraggiosa”.

La poetica di Ilaria del Monte s'immette chiaramente lungo il nobile sentiero della grande tradizione surrealista. Osservando non solo l'opera in questione, ma anche altri lavori, si possono rintracciare numerosi rimandi suggestivi al fare artistico di diversi grandissimi autori del '900. Le atmosfere trasognate messe in gioco da Ilaria del Monte richiamano a tratti Salvador Dalì (Figueras, 1904 - 1989), René Magritte (Lessines, 1898 – Bruxelles, 1967), Balthus (Parigi, 1908 – Rossinière, Svizzera, 2001) e persino (anche se molto più vagamente) certe sfumature di Marc Chagall (Vitebsk, 1887 – Saint-Paul-de-Vence, 1985), oppure ancora rievocano luminose angosce quotidiane alla Edward Hopper (Nyack, New york, 1882 – New york, 1967).
"Abito" - Ilaria Del Monte - 2012

"Anime sospese" - Ilaria Del Monte - 2012

"Interno giorno" - Ilaria Del Monte - 2012 

"L'addio" - Ilaria Del Monte - 2012 

"Le uova sul comodino" - Ilaria Del Monte - 2011 

"Prima della fuga" - Ilaria Del Monte - 2012

 "Una cena quasi perfetta" - Ilaria Del Monte - 2012

La dimensione richiamata è con evidenza quella del sogno e dell'apparente insensatezza onirica. I fantasmi dell'inconscio sono i veri protagonisti di queste tele. I riferimenti agli illustri maestri del surrealismo (e non solo), a mio modesto parere vengono assunti non nel senso di banali citazioni, ma sono rielaborati in una sintesi del tutto personale che sfocia in un discorso felicemente originale. Volendo coniare una piccola frase che condensi in qualche modo il senso del fare pittorico di questa giovane pittrice, mi verrebbe da dire che la sua ricerca si muove verso una consapevolezza del fatto che i più grandi misteri del sentire umano si celano paradossalmente sotto la luce del sole.

La luminosità è il tratto d'unione più peculiare di queste opere e non a caso molto frequente è il riferimento a fonti di luce (finestre, porte, cieli azzurri), che sono al contempo anche intensi simboli di una comunicatività rivolta verso dimensioni ulteriori. Insomma, come sempre mi ha fatto un gran piacere scoprire un'artista nuova, e ancora una volta grazie a Kika, naturalmente.

Eccoci adesso giunti alla parte che mi compete, ossia la piccola indagine fisiognomica, alla ricerca di una somiglianza fra il volto della donna ritratta nel quadro, ed i tratti di un noto personaggio femminile dell'attualità. Stavolta mi son voluto rovinare. Dal momento che si dice spesso che solo i cretini non cambiano mai opinione, e siccome avevo dichiarato che mi sarei limitato ad una sola somiglianza per volta («...un colpo solo...», come Robert de Niro nel film “Il cacciatore”), provvedo immediatamente a smentirmi e vi rifilo non una, non due, ma bensì tre somiglianze al prezzo di una.

La mia prima opzione è la seguente:


Chiedo scusa, ma non lo faccio apposta a ricadere ancora sul volto di una protagonista della politica. Si è trattato di una pura casualità, dettata dalla forza fisiognomica del volto, che nella fattispecie appartiene alla ex-ministro Nunzia De Girolamo.

La seconda alternativa è invece questa:



Si tratta dell'attrice americana Mary Louise Parker, un volto che mi ha sempre riservato dosi massicce di fascino, sin dalla prima volta che ebbi modo di ammirarla come protagonista del bellissimo film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” (1991).

E per chiudere in bellezza (è proprio il caso di dirlo), ecco il terzo esito della mia investigazione di volti:


Ovviamente altri non è che la nostra Sabrinona nazionale (e cosa ve lo dico a fare, sempre sia lodata), reduce dalle tante soddisfazioni regalate ultimamente all'Italia tutta, con il suo bel contributo  all'affermazione negli Oscar.

Per concludere, la prima somiglianza credo sia la più efficace, ma anche le altre due sono significative, perché contribuiscono a suggerire quelle porzioni di energia somatica che nella fattispecie sfuggono al volto dell'ex ministro dell'agricoltura.

Anche per oggi e tutto, cari amici. Ricordandovi di passare dal blog di Kika, per scoprire le sorprese che ci ha riservato nell'abbinamento fra vestiario del soggetto dipinto e accessori vari colti dal mondo della moda, vi do appuntamento alla prossima puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”.



mercoledì 12 marzo 2014

L’orizzonte degli E20


Sottosoglia
una yuma di luce
m'ha lambito in mezzalunante
sospensione di senso mentre astri
posti in lontananza
liminare lungo la Nebulosa della Ciabatta
podaleggiavano
distanziandomi d’uno spazio
corporo-zampeo d’inusitato
bluejeansistico            delta gamba
inter-cronologico               di scarto.

In quest'epoca
proto-renzica
non c'è rimasto altro orizzonte
al di là dell'alternativa
di guardarci i piedi?
Ai bischeri l'ardua sentenza...




venerdì 7 marzo 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Friedrich Wilhelm Schadow (1789-1862)


Dopo l’inusuale parentesi della scorsa puntata, torna oggi nella sua forma “più classica” la rubrichetta settimanale “Le muse di Kika van per pensieri”. Se non fosse così scontato, mi scapperebbe quasi di appigliarmi al facile calembour, aggiungendo che il ritorno alla classicità delle forme cade proprio a fagiolo, dal momento che l’opera scelta da Kika per l’occasione ha ampiamente a che fare col periodo moderno di riscoperta del classicismo, nell’ambito secolare della nobile storia dell’arte. L'opera di oggi è infatti il “Ritratto della giovane donna romana Angelina Magatti”, di Friedrich Wilhelm Schadow (Berlino, 7 settembre 1789 – Düsseldorf, 19 marzo 1862).

Non avevo mai sentito parlare di questo artista, ma com'è già accaduto in varie occasioni, devo ringraziare Kika, perché con questo nostro gemellaggio rubrichesco mi offre spesso l'occasione di venire a conoscenza di nuovi autori. Essendo un pittore noto più che altro agli esperti veri, non sono molte le cose che un esperto della domenica come me potrà scrivere riguardo alla sua poetica e alla sua opera.

Mi limiterò allora ad alcune considerazioni personali, impressioni sparse, da semplice osservatore curioso. La prima cosa è questa: pur comprendendo la sua importanza assai relativa nel discorso generale della storia dell'arte, questo dipinto mi piace molto. La delicatezza del soggetto è estrema, e concentrata in modo particolare nel viso della giovane Angelina Magatti. Tra l'altro, questo aspetto influisce molto ai fini della parte di “sfida” che mi compete: in questo caso, mi ha affascinato in modo particolare la ricerca di un viso noto della contemporaneità, capace di evocare i lineamenti della protagonista del dipinto. Il risultato della mia indagine alla fine non mi ha soddisfatto appieno, come vedrete in seguito.

Ma osservare questo viso è veramente un'esperienza profonda ed ineffabile, traspirano da esso mille sfumature psicologiche femminili, che offrono l'illusione d'esser state effettivamente conosciute o anche solo puramente idealizzate. C'è molto della grazia raffaellesca, l'impegno introspettivo nel trattare il “materiale fisiognomico” è degno di un Antonello da Messina. Sembrerebbero tutti complimenti molto lusinghieri, per questo quadro. Se non fosse per un dettaglio di non poi così poco conto: il ritratto è datato 1818. Dove sta il problema? Sta nel fatto che se ancora a quell'epoca il discorso figurativo dell'autore parlava l'alfabeto di Raffaello e di Antonello, forse questo significa una sola cosa: che la sua poetica aveva imboccato un binario morto, alla fine del quale era piazzata una bella coppia di respingenti con su scritta l'inequivocabile sentenza: «...Per di qui non si va da nessuna parte...».

La costatazione è al tempo stesso un po' sconfortante e lievemente consolatoria. Perché pur deducendone che non sempre quello che piace è importante per la storia dell'arte, ciononostante si evince pure che le soddisfazioni estetiche possono scaturire da fonti disseminate lungo i sentieri della cocciutaggine più autonoma, fregandosene spesso dell'ufficialità degli eventi. O per dirla molto più terra terra, prendendo a prestito le parole di Nino Frassica: «...Non è bello ciò ch'è bello...ma che bello, che bello, che bello!...».

Osservando altre opere di Friedrich Wilhelm Schadow, si può notare come nel suo fare espressivo siano presenti un po' di David, un po' di Ingres, a tratti anche un po' di Preraffaelliti.
F. W. Schadow: "Ritratto di Felix Schadow" (1829)
 
F. W. Schadow: "Mignon " (1829)

Di tutto un po' insomma, tranne che qualcosa veramente “di Friedrich Wilhelm Schadow”. Nel 1818, David ha già detto tutto quello che doveva dire (morirà nel 1825), ed il testimone della tensione visionaria della sua riscoperta neoclassica, è pronto per essere preso in mano dagli sviluppi immediatamente successivi del discorso artistico (Delacroix, Corot, Daumier, Millet, Pissarro). L'esperienza di Ingres (1780-1867) segue un tracciato biografico che cronologicamente quasi ricalca alla perfezione quello di Friedrich Wilhelm Schadow (1789-1862), ma molto più carica di forza innovativa e di propulsione indagante è l'opera del pittore francese.

Insomma, non è mia intenzione infierire più di tanto sul “povero” Friedrich Wilhelm Schadow (...per amor di battuta, verrebbe quasi da dire: «...Però!...Non lo conosci nemmeno e già lo tratti così male!...»). La sostanza delle mie osservazioni da inesperto incauto, è invece molto più neutrale: riprendendo un concetto espresso qualche tempo fa, ossia la sommaria suddivisione della storia dell'arte in una formazione di autori composta da una parte di “testimoni” e dall'altra di “precursori”, constatiamo molto serenamente che Friedrich Wilhelm Schadow va annoverato nella schiera dei testimoni. Per emendarmi un po' dal mio ipercriticismo della domenica, ricordo che il “Ritratto di Angelina Magatti” è conservato alla “Neue Pinakothek Muenchen, Bayerische Staatsgemaeldesammlungen” di Monaco e sicuramente da oggi lo inserisco nella lista delle opere che amerei tantissimo poter ammirare dal vivo (magari con tanto di capatina collaterale all'«Oktoberfest»).

Venendo alla “sfida somatica” di oggi, colgo l'occasione per illustrare proprio le particolari sensazioni provate ogni volta, nel tentativo di rinvenire una qualche somiglianza fra le fattezze del soggetto dipinto e quelle di un volto noto attuale. Forse mai come in questa circostanza, mi sono accorto che questa curiosa pratica nata dalla collaborazione bloghesca con Kika, comporta una strana similitudine con l'effetto “parola sulla punta della lingua”. Lo stesso Freud, nella sua «Introduzione alla psicoanalisi», tocca questo fenomeno come importante sintomo alla luce del sole, di un ben più articolato lavorio interiore, svolto ai livelli del pensiero non conscio.

Così come quando ci sforziamo di andare a ripescare nel database della memoria, un termine sicuramente noto ma che al momento si ostina a non voler riaffiorare, allo stesso modo funziona coi visi dell'arte proposti da Kika che cerco di andare a stanare celati nei tratti di volti moderni. La sensazione ogni volta è un misto di rabbia bonaria, dolce impotenza e piacevole tensione verso un promesso stupore. E proprio come succede con le “parole sulla punta della lingua”, non sempre si riesce ad agguantarle, anche se a lungo rimane viva la sensazione di sapere, per esempio, che per lo meno inizia per “esse”, oppure “è di quattro lettere”, o altri indefiniti indizi.

Il presente caso è stato in tal senso paradigmatico. Il volto cercato ha seguitato a sfuggirmi fino in fondo. E seppur alla fine una soluzione l'ho trovata, è stata pur sempre del tipo di sapere soltanto per quale lettera inizia, o di quante è composta. Il viso di questa Angelina Magatti è un vero enigma. Ha una struttura fisiognomica molto familiare, sono sicuro di averla vista sul volto di ragazze e donne conosciute o anche solo viste di sfuggita nella realtà reale. Eppure è al tempo stesso la sommatoria di visi diversi, parti differenti prese da certi tratti di donna, ed altre parti riferite ad altre fisionomie ancora.

Per farla breve, il risultato della mia ricerca, è stato questo: stavolta non è una diva, ma...

...una donna della politica. Angelina Magatti ha dunque un viso che “inizia per” Stefania Prestigiacomo, pur non essendo l'accostamento appagante fino in fondo. La parte inferiore del volto, in particolare, non mi soddisfa tanto: l'Angelina è più tondetta e paffutella, il mento sfugge di più. Ma nonostante tutto, sono in ogni caso contento degli esiti della mia presente indagine da “detective somatico”, pur non sapendovi ben spiegare il perché.
 

A proposito....ora son proprio curioso di andare a vedere cos'ha escogitato Kika sul suo blog, per quanto riguarda l'incantevole figura dell'Angelina Magatti, con i sempre illuminanti abbinamenti di abbigliamento che sa andare a scovare.
Questo detto, saluto tutti somaticamente, arrivedendoci alla prossima puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”.