martedì 31 dicembre 2013

Insignificante 2014 a tutti

 

«… Al fin la lieta annata volge al suo giocondo congedo…»: è questa la frase che potrebbe scrivere sul grande muro prospiciente alla piazza affollata, il gioviale aspirante al linciaggio.

Finisce un anno, ma cosa vuol dire? Il convenzionale volger del tempo arbitrariamente marcato dagli umani, lo scandir delle ore e dei minuti, non significano nulla per un gatto, per lo stipite del portone o per un sasso nel cortile. Purtroppo la questione, da un punto di vista umanoide, non è così facilmente liquidabile. L’uomo non può fare a meno di “significare”, di appioppare sensi, interpretazioni, deve architettare codici e decodificare di continuo, decifrare, chiosare, tentare di capire cosa ci vogliono comunicare il gatto, lo stipite del portone, il sasso nel cortile, o gli anni che passano.

Non ne possiamo fare a meno, è nella nostra essenza di bipedi pensanti ed emotivi. A volte però questa naturale tendenza si addentra molto oltre il fisiologico limite di rispetto, quello raccomandabile ai fini di una equilibrata amministrazione esistenziale. Interpretiamo più del dovuto, edifichiamo nella nostra mente impervi e mastodontici castelli esegetici, sotto la cui mole ci ritroviamo irrimediabilmente smarriti, intimoriti e indifesi. Poi arrivano certi momenti di sovraccarico di senso, in occasione dei quali l'ombra minacciosa del castello edificato si fa tanto opprimente ed asfissiante, da indurci a mandare al diavolo idealmente ogni volontà di capirci qualcosa. Ed è giusto in quegli attimi che ci accorgiamo di una verità banalissima. Tutti presi nella nostra opera edificatoria, ci eravamo nel frattempo dimenticati di vivere.
 

Ecco, cari amici viandanti per pensieri, senza voler invocare il fatalismo più sconsiderato, è un po' in questo senso che mi piacerebbe questa volta lasciarvi qui i miei modesti auguri per l'anno che andiamo ad indossare. Cerchiamo, per quanto ci sarà possibile, di vivere di più e di edificare meno castelli di significati. Lo raccomando per primo a me stesso, che di soverchia significazione superflua sono capomastro supremo. Vivere, il mestiere più difficile di tutti, ma il fondamento di ogni fascino a cui possiamo ambire. Pur sempre evitando di lasciarsi andare alla deriva della pura irresponsabilità dilagante, cercare tuttavia di vedere le cose del mondo così come le vedono il gatto, lo stipite del portone o il sasso nel cortile.

Questo auguro insomma a tutti: di vivere di più e di patire meno assilli dall'ipertrofica pletora di fronzoli interpretativi. Buon insignificante 2014!



sabato 28 dicembre 2013

Little hawk takes a walk



La mattina di Santo Stefano, ho passeggiato con un falco, mentre forte s’intensificava dentro di me lo sgomento nel domandarmi per l’ennesima volta: se esistono cose simili al mondo, come mai la gente insiste a drogarsi? (anche se al mondo, ne sono certo, esisteranno tantissime mie controparti a loro volta pronte a domandarsi: se esistono le droghe al mondo, come mai Gillipixel insiste a passeggiare sull'argine?).

La vasta piana era sferzata da un vento tignoso, che si faceva ancor più insolente imboccando la salita dell'argine ed incamminandosi tutto lungo la sua cresta. Le folate forzavano proprio il viso, il petto, le braccia, tendevano quasi a respingerti indietro. Mi fosse successo tempo fa, le avrei prese come un segno negativo, una sorta di avversità della natura nei miei confronti. Non adesso, però. Mi suonavano più come rudi carezze elargite per rendere ancor più interessante la mia camminata. Era stupefacente la differenza fra le forze del soffio ventoso percepito “a terra”, e quello che lambiva invece la sommità dell'argine. “Lassù”, l'intensità raddoppiava, la possanza eolica ti muggiva sui denti, costringendo a “cinesizzare” lo sguardo, facendo indulgere a repentine commozioni lacrimevoli non richieste.

Nel mio piacevole arrancare, vedo profilarsi all'orizzonte, a una decina di metri da terra, la tipica sagoma di un falchetto in stallo sopra un praticello sottostante. Era tutto preso nella sua classica tecnica predatoria, che già di per sé è un piccolo spettacolo a vedersi (ne parlai anche in altra occasione, con più buffe modalità): fermo in alto, fra i flutti ventosi, fa mulinare le ali in modo da stabilizzare la sua posizione, pare quasi incollato al cielo nella sua fissità guardinga. Sta lì inchiodato all'azzurro per interminabili minuti, poi d'un botto si butta giù, a ghermire un topolino intravisto fra l'erbetta gelida, o qualche altra piccola vittima semovente al piano.

Stavolta mi si è parato dinnanzi ad agevole portata d'occhio, grazie anche all'aiuto della lieve altura. Mi sono fermato a contemplarlo con agio, lui ha ripetuto diverse volte la sua manovra e poi ha accennato a proseguire il volo in direzione del mio stesso cammino. Nella mia presunzione umanoide, mi sono auto-convinto che vagabondasse insieme a me. Dove il tratto d'argine si fa lungo rettilineo, è iniziata allora una sorta di danza aerea, con piccole planate, discese ardite e tante risalite da far invidia a Mogol in persona. Il falchetto proseguiva così volteggiando sempre nella mia direzione e d'un tratto si è voltato, volandomi di fronte, ma senza avanzare tanto. Rimaneva lì, ondeggiando sulla scia del canalone di vento, con la sua elegante apertura alare tutta in mostra, come fosse indirizzato fra i turbini di una galleria di sperimentazioni aerodinamiche. Per alcuni attimi nel suo fluttuare ha ballonzolato a destra e sinistra, come si vede fare da quegli equilibristi all'ultima moda, zampettanti sul loro filo elastico teso tra due picchi di roccia.

Si è anche posato sul piano dell'argine, alcune centinaia di metri più in là. La sua piccola camminata di uccelletto vispo era altrettanto gentile ed aggraziata del suo modo di volare. Mi sono arrestato per non andargli troppo appresso e spaventarlo. Siamo stati alcuni minuti così, io fermo e lui che saltabeccava tenendo d'occhio un po' il suolo e un po' me. Poi ha preso di nuovo il volo e dopo aver condiviso per un tratto il cammino con me, se n'è andato per le sue faccende di falchetto gioioso.

Sul momento mi sono rammaricato di non avere con me la macchina fotografica. Ma ripensandoci poi, ho capito che era stato molto meglio così. Ci sono attimi vissuti che nessuna macchina fotografica potrà mai fissare, nessuna cinepresa, nessun registratore di suoni o di immagini, nemmeno il più sofisticato e tecnologicamente all'avanguardia che riusciranno mai ad inventare. Il bello di queste inafferrabili pieghe della vita sta proprio nel loro essere catturabili in misura molto parziale soltanto con le parole. E quando capitano simili circostanze fuggevoli, si capisce ancor di più l'importanza del linguaggio, il mezzo di contatto, il tratto d'unione fra gli uomini più antico e forse umile di tutti, ma sempre il più duttile, il più plastico, quello in grado di fissare i ricordi, lasciando che la loro apparenza svanisca, e serbandone soltanto l'essenza intima, altrimenti impenetrabile.

La parola è probabilmente il tramite espressivo che più di tutti rispetta i significati profondi della vita, serbandone il loro essere transeunti, fuggevoli, non fissabili, come il volo di un falchetto, una mattina di dicembre sull'argine.




martedì 24 dicembre 2013

Me-gh’à-l’ò-dito: «...Bón Nadàl!...»



Cari amici, ve ne sarete accorti senz'altro: è sempre più arduo andar per pensieri. Minacciose schiere di banaloidi militanti provenienti dal pianeta Logo-Common si assiepano con intensità crescente ai confini del libero regno di Free Mind. I loro mortiferi mortai spara-conformismi incombono continuamente sulle nostre scatole craniche, promettendo di bersagliarle senza pietà con raffiche di “piuttosto che”, “come dire” e “quello che è”. Altrettanto grave è il rischio di saturazione mentale con il più venefico dei gas soffoca-neuroni mai concepiti: il micidiale “Studio-Aperton”, classificato come agente chimico rimbecillente di categoria superiore e annoverato al primo posto fra le armi di distruzione di massa, secondo quanto stabilito nel corso dei lavori dalla conferenza di Rimbambington.

Ma nonostante tutte queste insidie tremende, il luogo-comunismo incombente alle porte, la fantasia minacciata di partita IVA, la libera minzione in libero prato a rischio di tassazione PISE (Provento Interno sulla Scrollata Energetica), noi ci si prova lo stesso, ad andar per pensieri.

Per intanto, dopo la novembrina estate di San Martino, il clima ci grazia ancora un filo, e complici le temperature relativamente miti di questi giorni, ci possiamo godere una semi-estate di San Crispone. Il clima dev'essere piuttosto avvelenato, tuttavia. C'è cupezza in giro. Tant'è che, andando di recente per “sgrattate” lignee (oltre che per pensieri), mi è capitato di ritrovarmi fra le mani una curiosa sagoma. Dev'esser stata proprio l'influenza dall'atmosfera plumbea del momento, a cagionare il bizzarro esito. Tutto dipende però da quale tipo di sguardo si intende posare su questo spiazzante simbolo.

Può essere visto come negativo emblema di sfascio a tutti i costi. Oppure può essere visto come la bandiera di una nuova rinascita, un «uprising» condiviso di bellezza e speranza, un flebile ma fervido auspicio di poter ritornare ancora a saper conciliare armonicamente Forma e Sostanza.

A me piace vederlo in questo secondo modo. E detto ciò, cari amici viandanti per pensieri, vi auguro il più cordiale buon Natale. Come sempre, grazie a chi mi legge, grazie a chi passa e lascia un commento, grazie a chi sbircia soltanto e mi lascia un sorriso.


sabato 21 dicembre 2013

Under a Peppa pink sky


Al terzo posto, nella classifica delle entità evanescenti e semi-leggendarie, dopo gli unicorni e le sirene, metterei sicuramente i soffitti dei supermercati. Sono quasi certo che se si facesse un’indagine di mercato (anzi, nella fattispecie “di supermercato”: eh-eh! ah-ah! uh-uh! ho fatto la battuta...), interpellando ciascun cliente, all’uscita di un centro commerciale o luogo equipollente, e interrogandolo riguardo alle fattezze del soffitto dei locali in cui ha appena percorso centinaia di metri al seguito nel proprio carrello, con indefessa spavalderia, quello risponderebbe: «…Boh?...».

L’ambiente supermercatesco si presenta per sua natura virtualmente privo di tetto. E’ talmente potente l’energia polarizzatrice che scaturisce da tutto il congegno consumisticheggiante apparecchiato lungo il piano della visione orizzontale, tra scaffali, banchi, banconi, offerte due per tre, sodomie fai da te, che a nessuno degli avventori passerebbe mai minimamente per la capa di alzare lo sguardo al di sopra dei 90 gradi, misurati a partire dalle tomaie delle proprie scarpe. Non c'è niente da fare, è una legge fisica più forte di qualsiasi volontà individuale, anche la più ferrea. Il cliente del supermercato è congenitamente incapace di sollevare lo sguardo sopra il piano dell'orizzonte merceologico in cui è immerso. Sarebbe come chiedere ad un campione statisticamente selezionato di maschi mediamente giovani e mediamente eterosessuali, di saper descrivere il colore degli occhi di una modella vista sfilare cinque minuti prima, completamente nuda nella sala d'aspetto del dentista.

Ogni supermercato di fatto, per quanto può constare a chi lo frequenta, è dunque un grande locale a cielo aperto.

Abitando in un luogo come Gillipixiland, capita poi di trascorrere anche intere settimane senza vederlo, il cielo. Quello vero. Le nebbie di tanto in tanto si caricano di un tonnellaggio talmente intenso, da non lasciare scampo anche per intere settimane. L'esperienza ondeggia fra il mistico e il futuristico: non poter vedere l'azzurro lassù per così tanto tempo, o non riuscire a sbirciare neanche una nuvoletta, anche se vagamente grigia, ma almeno un po' alta sopra la testa, causa ai propri pensieri un bislacco effetto “pentola a pressione”. Tutto ciò che è contenuto nella mente si comprime a delle densità inenarrabili. Si forma nella scatola cranica una forza centripeta come quella di un buco nero: nessuna idea riesce più ad uscire fuori.

Il fenomeno per di più si amplifica e si complica a dismisura, se si considera il mitragliamento informativo proveniente ogni minuto della giornata, dalla tele, dai giornali, dal web, ecc. Stai lì, trascorri i giorni sotto la tua cappa di nebbia spietata, sempiterna, con il cranio che via via si va farcendo di suoni, impressioni, mozziconi di concetti, fino al punto di trovarti quasi ad un passo da un tuo personale nirvana, assiso alla destra di Lola Falana. E intanto la mente rimbomba di echi confusi e compressi: forconi, primarie, larghe intese, Renzi, Cuperlo, agibilità politica, De Falco-Schettino, «...Capitano, salga sulla biscaccina e torni a bordo, cazzo!!!», forconi, porconi, porcellum, mattarellum, decadenza, tavolo delle contrattazioni, in-cos-ti-tu-zio-na-li-tà, tattà, taratatta-tattà.

A volte però le due dimensioni esistenziali intrecciano i propri sentieri, e succede allora di sperimentare delle mini-implosioni emozional-meditative. Come qualche giorno fa, quando ho fatto una capatina ad un supermercato di discrete dimensioni, in un paese vicino a Gillipixiland: Cateatersville. Mi trovavo dunque nel reparto ortofrutta, immerso senza soluzione di continuità nel mio trip lineare di foschie mentali prolungate. Ero completamente assorto in un tipico sguardo mono-direzionato da avventore di supermarket, le pupille rigorosamente fisse sul cavolo cappuccio, con solo qualche concessione, in visione periferica, all'occhio languido di un povero pangasio, appecoronato a breve distanza, dietro alla vetrina del bancone del pesce.

Quando, ad un tratto, dall'immancabile tramestio musicale di fondo inesorabilmente propinato ai clienti, si levano con potenza evocativa le note di «Creep», dei Radiohead. E' una canzone che ha sempre avuto un potere catartico molto forte su di me. Soprattutto sul finale, quando Thom Yorke si produce in quell'ululato fantastico, a mio avviso una delle sequenze di note più melodicamente liberatorie della storia del rock. Ecco dunque partire lo strascicato, elegantissimo strazio canoro a chiusura di «Creep». Per l'occasione l'urlo musical-belluino mi fa da stura-lavandino mentale, e mi trascina lo sguardo in alto, dove faccio appena in tempo a cogliere tutta la grettezza del soffitto di quei locali commerciali, prima che la mia mente voli ancora più su, sfondando il plafone, perforando la coltre di nebbia e planando nel mondo rarefatto dell'ultra-ortolanità redentrice.

Con questa energia trans-mercatale ancora in corpo, mi accingo a proseguire il mio giro carrellato, finché giungo in prossimità di uno scaffaletto ricolmo di simpatici peluche. Riconosco senza meno una teneroide riproduzione dello scoiattolino dell'«Era glaciale», con tanto di adorata nocciolina, e una coda talmente peluchosa, che devo fare appello a tutta la mia consapevolezza anagrafica, per riuscire a sottrarmi alle lusinghe dell'acquisto complusivo.

Il tempo delle folgorazioni quotidiane non doveva però essersi esaurito con l'epifanico ascolto di «Creep», perché ad un certo punto, intravedo nella pelucheria assortita, una vellutata riproduzione di Peppa Pig.

Peppa Pig è un fenomeno dei nostri giorni. E' un'icona indiscutibile, capace di lasciare una traccia indelebile su tutto il profilo di un'epoca. Ci scommetto che fra parecchi anni, quando nessuno si ricorderà più di Berlusconi, Letta, Alfano, le larghe intese, lo spread e Flavia Vento, Peppa Pig continuerà invece ad essere annoverata come il vero termometro sociale e culturale dei primi anni '10 del ventunesimo secolo. Mi sono interrogato spesso sul successo incredibile che Peppa riscuote fra i più piccini. Rimangono letteralmente incollati alla poltrona, quando parte l'ineffabile sigletta, con le tenere presentazioni a grugnito. Per puro dovere documentativo (e solo per esso, si badi bene...), mi sono allora sottoposto alla visione di vari episodi.

Volevo capire come fosse possibile che un insieme di suggestioni visive e sonore portate ad un estremo ultimo della semplicità così avanzato, riuscisse far scaturire un fascino talmente potente nei piccoletti dei nostri giorni. Non l'ho capito, anche perché la fascinazione è stata talmente intensa, da sopraffare anche la mia obiettività di studioso. Sono divenuto io stesso un Peppa-pigghista certificato, senza quasi che me ne rendessi conto.

Vedere quel piccolo simulacro peppesco nello scaffale del supermercato, mi ha tuttavia aperto un vago spiraglio esegetico. Com'è noto, Peppa, così come tutti i suoi amici cartonati, non conosce distinzione tra profilo e fronte. I suoi occhi stanno entrambi sempre e comunque cubisticamente al di qua del naso. La versione peluche di Peppa, per ovvie esigenze tridimensionali, presentava invece la scansione nasale fra un occhio e l'altro.

Il piccolo cortocircuito formale peppeggiante mi ha riportato alla memoria certe cose lette sulla storia dell'arte di Ernst Gombrich, riguardo all'arte egizia: «...In un genere di pittura così elementare è facile capire la tecnica dell'artista, che è press'a poco adottata nella maggior parte dei disegni infantili. […] Tutto doveva essere presentato dal punto di vista più caratteristico. […]...l'arte egizia non si basava su ciò che l'artista poteva vedere in un dato momento, quanto piuttosto su ciò che egli sapeva appartenere a una determinata persona o a un determinato luogo...».

Pensando allora che un po' tutta l'estetica di Peppa segue in qualche modo questa logica visiva ordinatrice, mi sono detto: «...Vuoi vedere che il segreto del fascino di Peppa si nasconde dietro la patina dei secoli, fra gli anfratti piramidali della concezione artistica egizia?...».

E così con questo interrogativo nella mente, ormai sturata dal tappo nebuloso-informativo, negandomi fra mille tormenti vetero-fanciulleschi anche l'improvvido acquisto del felpato simulacro di Peppa, mi sono incamminato verso l'uscita del supermercato, dove ho constatato con gioia che il sole era ritornato a farsi vedere alto nel cielo.



mercoledì 11 dicembre 2013

Ermeneutica pronta consegna


La prossima volta che vedo i miei amici, devo ricordarmi di proporre loro un affare. Mi chiedevo se fossero interessati a mettersi su in società con me, per una piccola attività di smercio d'ermeneutica al dettaglio. Dopo il crollo delle grandi ideologie ed il barcollare delle tradizionali credenze; dopo che si sono tarlati anche i più solidi comò e le cassettiere secolari, “interpretare” è divenuta la moderna parola d'ordine. Nella verità ormai ci sperano in pochi. Tutt'al più ci si accontenta di interpretare. Interpretare i fatti, interpretare gli altri, interpretare le cose, interpretare le esperienze. In una parola: interpretare la vita.

Ermes era uno dei più autorevoli fra gli abitanti dell'Olimpo greco. Fra le tante prerogative da lui possedute, forse la più importante consisteva nel suo ruolo di messaggero degli dei. Ermes faceva da tramite fra gli dei e gli uomini, era latore delle sentenze divine presso gli umani. L'aspetto magico di questo dettaglio del mito (i miti sono tra le fonti di stupore più potenti mai scaturite dall'animo degli uomini, e nei loro significati più intensi risiede sempre un barlume di straniante paradosso), stava nel fatto che Ermes non conosceva il senso dei messaggi da lui trasportati. In pratica, Ermes era un vero e proprio trasportatore di “materiale da interpretare”. Oppure, guardando la questione per il verso opposto, si può anche dedurre quanto segue: Ermes ci consegna un malloppo enigmatico, e dunque tutto ciò che nella vita è incomprensibile, o difficilmente afferrabile, sembra provenire dagli dei, ossia presentarsi a noi ammantato di un'ineffabile aura extra-umana. Proviene dagli dei quindi l'arte, provengono dagli dei gli innamoramenti, proviene dagli dei tutta la bellezza che non ci sappiamo spiegare, ma che in qualche modo ci arrabattiamo ad interpretare. Provengono dagli dei anche le cose, per usare un eufemismo, meno piacevoli? In una prospettiva ellenistico-mitologica, pare proprio di sì.

L'ermeneutica, in quanto “arte dell'interpretazione”, affonda le proprie radici filologiche in tutta questa affascinante tradizione.

Si fa presto però a dire “interpretare”. La gente ha sempre meno tempo, è subissata da un gran daffare, non può permettersi di stare lì a riflettere troppo, è chiamata ad agire con tempestività, e così spesso si butta alla cieca, tira a bocciare riguardo all'esistenziale sentiero da imboccare.

Ed ecco allora che entra in scena la mia società: la «Premiata Ermeneuticheria Ermete». La P.E.E. sarà specializzata in interpretazioni di ogni tipo. Interpretare, come mi sembra di aver già ampiamente chiarito, non significa affatto spacciare verità. Il cliente, in questo senso, alla P.E.E. sarà ampiamente tutelato. Acquistando tranci d'ermeneutica alla P.E.E., non si ritornerà a casa con nessuna convinzione assoluta in tasca. I nostri prodotti si distingueranno per croccantezza argomentativa e freschezza degli ingredienti concettuali utilizzati. Ma son saranno sofisticati con tossici coloranti all'essenza di sicumera, estratti dalla mala pianta dell'infallibilità.

Nel vasto campionario di articoli della P.E.E., si potranno scegliere sicuramente i gusti classici, tipo l'ermeneutica alle quattro consapevolezze, il saggione ripieno, l'interpretazione dello chef, e la gran esegesi gratinata sul forno analitico. La P.E.E. sarà in grado di garantire anche il servizio di consegna a domicilio «speedy-Ermete». I nostri incaricati, a bordo dei loro scooter riconoscibili dalle alette sulla marmitta, con una modica aggiunta al prezzo del prodotto ermeneutico ordinato per telefono o via mail, porteranno direttamente a casa del cliente, la sua interpretazione ancora bella calda.

Sì, mi pare un'idea imprenditoriale coi fiocchi. Devo proprio dirlo ai miei amici, la prossima volta che li vedo...ma soprattutto: ma che amici c'ho?!?!?


venerdì 6 dicembre 2013

Hill & Jittimo - Attorney at law

 
La parola di gran moda in questi giorni è “illegittimo”.

La sentenza della Consulta che ha decretato l’incostituzionalità della vigente legge elettorale, è riuscita anche a procurare in ogni italiano un aggravato senso di smarrimento. Dal 4 dicembre 2013, abbiamo perso molti dei nostri punti di riferimento e ci sentiamo tutti un po’ più kafkiani del solito.

Questa legge elettorale entrò in vigore sul finire del 2005, per volontà dell’allora governo Berlusconi. La legge è spesso associata al nome del senatore Roberto Calderoli, essendo questi uno dei principali autori nella stesura del testo legislativo in questione. Oppure viene ricordata col famigerato nomignolo, giornalisticamente odioso, di impropria risonanza suina. Un termine che ogni volta mi fa rizzare le setole sugli avambracci, per l’indegnità dell’associazione tra il perverso marchingegno giuridico e la fierezza di uno degli animali più nobili del creato.

Il fatto che la legge sia stata concepita da un dentista (con tutto il rispetto per i dentisti, ma magari ne sanno più di molari e ponti, che non di commi e norme), per di più talmente “odonto” e anche così “iatra” da essersi sposato alcuni anni addietro con “rito celtico”, avrebbe già dovuto far insospettire da tempo. Tuttavia, solo a partire dall’altro ieri, i giuristi più qualificati hanno iniziato a giocarsela in punta di fioretto esegetico, per stabilire se l’illegittimità sancita dalla Consulta vada intesa solamente a decorrere dal 4 dicembre stesso, oppure se debba essere presa in considerazione una sua retroattività, in modo da coprire tutto il periodo in cui la legge medesima è stata effettivamente in vigore.

Io sono tutt’altro che giurista (al massimo potrò essere un po’ ingiuriato). Ma se fossi esperto leguleio, direi che se è illegittima oggi, esattamente nella stessa misura lo era anche quando venne promulgata. Dunque, tutto quanto è stato toccato dopo dalle conseguenze di questa legge, a valanga, dovrebbe risultare illegittimo.

Con questa legge, dal 2006, sono stati eletti almeno 3 governi, che a questo punto, se tanto mi dà poco, dovrebbero risultare illegittimi essi stessi. Un quarto governo, quello di Mario Monti, non è stato eletto, ma è una derivazione di un altro governo illegittimamente eletto, per cui nemmeno quello si salva. Ogni atto compiuto dai suddetti governi, per la proprietà transitiva, si ammanta pure esso del vello villoso dell’illegittimità. Se erano illegittimi i governi, con tutte le loro leggi e provvedimenti, saranno state illegittime anche le regioni, le provincie e a cascata pure i comuni, perché tutti questi enti si muovono nel contesto delle decisioni governative centrali.

Ecco allora che le “surrealtà” in agguato non si contano. Un esempio: dalle regioni dipendono moltissimi aspetti della gestione della sanità pubblica. Molto di quanto è stato fatto nell’ambito della sanità pubblica, dal 2006 ad oggi, potrebbe allora essere considerato illegittimo. Non ci sarebbe minimamente da stupirsi, se si iniziasse a venir richiamati negli ospedali, chi per restituire un appendice, illegittimamente asportata con illegittima operazione, chi per rendere indietro due taglie di seno in più, illegittimamente acquisite con illegittimo intervento di aumento del seno.

Altro esempio: le provincie hanno in carico la cura e la gestione di molte importanti strade del nostro territorio nazionale. Se le provincie erano illegittime, in qualità di più o meno dirette emanazioni di governi illegittimi, i loro interventi sulle strade non saranno da considerare essi stessi illegittimi? Non ne consegue forse che tutte queste strade sono state a loro volta illegittime per tutto questo tempo? Ma se erano illegittime le strade, era anche illegittimo transitare sopra di esse. E di conseguenza, diventa illegittimo ogni nostro atto compiuto in questo periodo, a conclusione di ciascun tragitto illegittimo percorso su una di quelle strade illegittime. Ricordate quella volta che siete andati a trovare la morosa facendovi 20 chilometri sull’illegittima provinciale 27? Se per caso per l’occasione vi era andata così bene da concludere la serata facendo l’amore, beh, sappiate che si trattò d’amore ampiamente illegittimo.

E non è nemmeno una delle eventualità giuridiche più gravi. Si dia sempre il caso dei suddetti fidanzati. Cosa succederebbe, riguardo alla morosa in questione, se si venisse a scoprire che lo scoccar di scintilla fra i due piccioncini ebbe a concretizzarsi sul suolo di una piazza recentemente riasfaltata dall’illegittimo Comune di residenza di lei? Saremmo in presenza di un flagrante caso di morosa illegittima.

E se sul fronte pubblico son dolori, altrettanto gravi magagne vanno registrate sul versante privato. Le ditte, i negozi, i produttori, gli artigiani, e così via...tutti questi “soggetti economici” hanno operato, nel corso degli anni di legge elettorale illegittima, sempre attenendosi alle disposizioni legali di rispettiva competenza per i loro settori commerciali e produttivi. Basta che anche poche di queste leggi siano state promulgate dopo il 2006, dai governi illegittimi succedutisi, che ogni merce in qualche modo connessa a quei produttori dovrà essere considerata illegittima.

Il vostro gatto, o il cagnolino, potrebbero così aver mangiato nel frattempo diversi chili di crocchette o scatolette di carne illegittima. Ci si troverebbe allora nel bel mezzo di una bizzarria legale delle più potenti di sempre. Padroni di cani o gatti nati dopo il 2006, dovrebbero fare i conti con la completa illegittimità delle loro bestiole. Ma padroni di cani e gatti nati prima del 2006, avrebbero invece in casa bestiole illegittime solo per qualche chilo di peso messo su nel frattempo. Si profila all’orizzonte forse la fosca prospettiva del pignoramento di tre quarti di cane? Oppure incombono minacciose confische di mezzo gatto? Magari con la complicazione procedurale aggiuntiva del «...sono due chili e mezz’etto: che faccio, signora, lascio?...».

Da questi sporadici esempi, si capisce bene come le conseguenze della decisione della Corte Costituzionale potrebbero rivelarsi di una perversa pervasività inaudita.

La carta igienica con la quale saremo chiamati a pulirci domattina, potrebbe risultare illegittima. Che fare? Pulirsi o sopra-s-sedere?

La qualità dell’aria, illegittimamente monitorata dalle centraline del Comune e reputata respirabile, potrebbe esser decretata illegittima. Che fare? Continuare a respirare o no?

I sogni fatti dormendo su un materasso commercializzato con autorizzazione ministeriale illegittima, non sono forse illegittimi? E sono legittimi o no, tutti i pensieri pensati mentre eravamo in coda all’ufficio anagrafe del Comune, per ritirare un certificato illegittimo?

Possiamo dunque concludere che l’Italia è finalmente approdata a quel rarefatto e superiore grado di dimensione giuridica riassumibile col motto «...l’illegittimità è uguale per tutti?...».