giovedì 26 febbraio 2015

La mia realtà è berniniana


Circa una settimana fa, a Roma, è successo il guaio che tutti sanno. 

Un branco di minus habens subnormali che nel corso delle loro inutili esistenze non sono mai riusciti a varcare la fatidica soglia oltre la quale si ha il diritto di potersi fregiare della definizione minima di “persona”; un gruppo di aborti mancati senza giustificazione; un’accozzaglia di superflui individui privi della benché minima traccia di umanità nel loro irreperibile animo (per di più, con l’aggravante di essere anche tifosi di calcio), hanno sfregiato un’opera, espressione di una delle menti più geniali che la storia dell’arte abbia mai conosciuto: Gian Lorenzo Bernini.

Già il confronto parlerebbe di per sé: l’infimo di fronte all’eccelso. Non sarebbero necessarie parole ulteriori.

Alla paradossalità della cosa, si aggiunga solo un dettaglio: alcuni giorni dopo, questi “morti-viventi” hanno potuto tornare a casa comodamente, pagando una multa di qualche decina di migliaia di euro. Non dico questo per entrare nel merito dei provvedimenti o delle sanzioni previste in questi casi dalla nostra legislazione, né per commentare cosa s’è fatto o cosa si doveva fare. Non sono questioni di mia competenza. Con questa postilla voglio solo sottolineare ancor più l’enormità dell’inconsapevolezza dei suddetti minorati mentali: se solo si rendessero minimamente conto del loro atto, correrebbero di filato alla prima Usl olandese (chiamiamola così) per richiedere a gran diritto l’elettroshock passato gratis dalla mutua (altro che pagare una multa…).

Sull’ondata di sdegno seguita all’accaduto, avrei voluto anche io scrivere due righe, qui sul blog. Ma poi avevo rinunciato, perché sarebbe stato inchiostro sprecato. L’infinito (Bernini) di fronte al nulla (quei quattro relitti umani): vale forse la pena di parlare del nulla? Se l’umanità ha raggiunto tali limiti di abbruttimento, come ci possiamo salvare? Purtroppo il baco è interno, connaturato all’uomo, questo è il problema. Non si possono trovare spiegazioni e rimedi al di fuori delle menti umane. L’istinto “da bar” suggerirebbe di abbandonarsi alla gratificazione effimera quanto inutile di sfoghi (come ho fatto un po’ anche io, sopra) o proclami invocanti pene severissime, punizioni esemplari. 

Certo, qualcosa nell’immediato concreto bisognerà pur fare, e speriamo che le migliori menti preposte si attivino al proposito con tutta l’efficacia che la situazione merita. Ma il punto è che purtroppo, la questione sarebbe risolvibile per davvero, soltanto con un’immensa rivoluzione culturale, una nuova grande rinascenza delle menti, capace di riportare alle giuste proporzioni il tributo dovuto al senso vero della bellezza. Impresa titanica: chissà chi o che cosa sarà mai in grado di realizzarla. Sono state queste riflessioni insomma che mi avevano spinto a desistere dal fare commenti o considerazioni in merito.

Il caso ha voluto tuttavia che proprio in questo periodo, la passione berniniana sia cresciuta in me oltremodo, grazie alla visione di un magnifico documentario a puntate, curato da Tomaso Montanari, tramesso da Rai5 negli ultimi otto mercoledì sera. Ieri sera, dopo aver visto l’ultima parte, mi sono reso conto che consideravo la questione dal punto di vista sbagliato: per dire qualcosa in merito all’accaduto, non avrei dovuto parlare del nulla (i tifosi), bensì dell’infinito (Bernini).

Gian Lorenzo Bernini: Ratto di Proserpina - 1621-22 (Galleria Borghese - Roma)

Ora, solamente per iniziare a rendere merito alla grandezza di Bernini, ci vorrebbero ottomila seicento ventidue scritti di Andarperpensieri. Mi limiterò, in una super sintesi estrema, ad indicare un punto fondamentalissimo dell’opera del grande scultore-architetto.

Il ‘600, secolo di Bernini, inaugura la modernità in tanti settori della cultura. In primis nella filosofia, con Cartesio, che insinua il dubbio epocale circa l’esistenza effettiva di una realtà esterna al nostro pensiero. Da lì in poi, nulla è più stato come prima. Non solo l’uomo non è più al centro dell’universo (come affermava la fiduciosa visione rinascimentale del mondo), ma addirittura prende piede l’angoscia riguardo al fatto che un universo esista per davvero. La realtà “entra in crisi”, prima col manierismo e poi ancor di più col Barocco, che vide Bernini fra i suoi maggiori esponenti.

Gian Lorenzo Bernini: Estasi della beata Ludovica Albertoni - 1674 (Chiesa di San Francesco a Ripa - Roma)

E’ noto come uno dei tratti caratteristici dell’espressività berniniana vada ricercato nel suo estremo virtuosismo tecnico: il marmo, trattato dalle sue mani, diventava di volta in volta carne, tessuto, pelo, legno, capelli, o addirittura fiato, calore corporeo, odore, e così via. Questo virtuosismo non era ovviamente fine a sé stesso, l’artista non lo intendeva come puro gesto di bravura. La sua intenzionalità intima consisteva invece nel desiderio di innalzare un inno supremo alle potenzialità dell’immaginazione umana. Per spiegare in un modo che non saprei nemmeno lontanamente sfiorare, mi affido come sempre al mio nume tutelare storico-artistico, Giulio Carlo Argan: «…se la realtà è mistero, morte, nulla, allora solo nell’immaginazione è la vita. Sotto la frenesia berniniana di riempire di immagini concrete tutto lo spazio, di conquistare sempre nuovo spazio per nuove immagini, si sente l’angoscia del vuoto…».

Gian Lorenzo Bernini: Apollo e Dafne - 1622-25 (Galleria Borghese - Roma)

Bernini ci indica dunque due importantissime coordinate dell’uomo moderno: il senso di angoscia rispetto al nulla (tutta la sua opera è attraversata di continuo da un impalpabile flusso carsico di malinconia), e l’immaginazione come strumento consolatorio-salvifico di fuga verso un rinnovato senso di speranza potenziale. 

Se allora immaginazione vuol dire esplorazione di nuovi “mondi della speranza” (stanti i sospetti di evanescenza, inconsistenza e fragilità nutriti rispetto al mondo effettivo, reale), fra i grandi temi dell’immaginazione, anche il gioco rientra a pieno titolo. Il gioco è territorio infantile per eccellenza, perché nel gioco il bambino può sperimentare le proprie potenzialità di vita, senza ancora confrontarsi con la vita vera. I “meccanismi” del gioco, in età adulta, si sublimano e si raffinano poi nelle più alte espressioni culturali, estetiche e artistiche. Lungo tutto il corso della sua esistenza, l’uomo non può mai smettere di giocare, né di immaginare, due attività che sono facce della stessa medaglia. Egli ne ha bisogno come dell’aria che respira.

Il calcio è un gioco. Ed ecco qui che il cerchio del discorso si chiude: insultando Bernini, quei cosiddetti tifosi hanno portato alle estreme conseguenze il loro personale nonsenso esistenziale.

Chiudo aggiungendo solo un’ultima cosa, che sono fiero di dire: il “mio mondo”, oltre ad essere informato dallo spirito di tutti i miei artisti, scrittori, poeti, ecc. preferiti, non solo da adesso, ma in particolare ancor di più dopo i tristi recenti episodi, è anche e soprattutto berniniano.

martedì 24 febbraio 2015

domenica 22 febbraio 2015

Vivide eros-ioni

Stanotte ho sognato il mio archetipo erotico. Non so se succede a tutti. O forse sarebbe meglio dire: non so se seduce tutti. Lo spero. Per tutti. Perché l’archetipo erotico, pur essendo una semplice cosa molto complicata, è anche fonte di benessere esistenziale di livello superiore. 

Ha a che vedere con lontanissime stagioni dell’attrazione. Epoche dell’infanzia, epoche in cui, intorno al senso del fascino, si cominciavano molto timidamente a gettare piccoli e timidi barlumi di intendimento. In effetti, la cosa riguarda in misura maggiore dimensioni dell’essere che si provano, rispetto ad ambiti dell’esistere che si comprendono.

Il mio archetipo erotico era (ed è) una (allora) piccola amica, da bambini, e poi della prima fanciullezza-adolescenza. Abbiamo condiviso negli anni, e ancora condividiamo, la medesima età. Lei ha sempre vestito con grazia una certa preziosità estetica. La più carina delle diverse classi attraversate. Ed è tuttora una bella donna. La cosa più strana, con gli archetipi erotici, è che suscitano un forte magnetismo fisico-spirituale, ma lo fanno soprattutto ad un livello puramente ideale. Non che la fisicità non c’entri nulla. Anzi, c’entra tantissimo. Ma l’archetipo erotico riguarda più una sorta di inspiegabile “idealismo carnale” non meglio definito.

E’ l’originario “corpo-altro” che ti ha sedotto, ancor prima di sapere a cosa la seduzione servisse o come funzionasse. E’ la persona che ti ha dato per prima la più forte illusione di sapere chi fosse l’altra metà dell’androgino platonico a cui ti trovavi attaccato nei tempi lontani dei tempi, o giù di lì (…in Forrest-gumpiana vaghezza). 

Ingrediente fondamentale dell’archetipo erotico è il non aver mai saputo, e il non sapere, come sarebbe andata a finire, se davvero qualcosa con lei si fosse concretizzato. E’ molto importante che tutto sia rimasto ad un grado massimo di potenzialità ideale. Il più delle volte, sarebbe andata male. Nel mio caso, di certo. Tra il mio archetipo erotico e me, non c’era effettiva affinità. Non avrebbe funzionato nella vita vera, immagino. Eppure scorreva fra noi, almeno da parte mia, questa energia intensa e ultra-umana, persa nei remotissimi significati dell’essere primordiale celato nel profondo di se stessi.

Il mio archetipo erotico si è poi fatta, e si fa a tutt’oggi, la sua vita, con la persona che probabilmente era quella giusta per lei nella vita concreta. Non c’è margine per nessun rimpianto o vagheggiata recriminazione: le cose sono andate com’era naturale che andassero. Anzi, credo di poter dire che con il proprio archetipo erotico è meglio averci avuto a che fare solo sul piano ideale. Tentare di abbassarlo a livello di realtà, potrebbe rivelarsi piuttosto rischioso: troppo alte sono le aspettative nutrite, troppo sublimi le dimensioni sfiorate col manto dell’attesa. Un’eventuale concretizzazione delle speranze, si tradurrebbe con ogni probabilità in un tonfo clamoroso.

Forse proprio per tutti questi motivi, l’immagine del mio archetipo si è conservata, nell’immaginario, così ricca di quella purezza erotica del tutto potenziale ed esclusivamente riservata alla sfera del possibile. Tanto che, quando mi viene a trovare in sogno, esplodo nella beatitudine più piena. Quando l’archetipo erotico irrompe sul mio palcoscenico onirico, tutti i muscoli del corpo (uno in particolare) sono pronti in “battiatesca” attitudine. Nell’infingimento sognato, l’intesa col proprio archetipo non si riduce al piano fisico, ma è totale. Quello che i propri muscoli pensano, combacia perfettamente con ciò che le fibre di lei esprimono. Il dialogo è senza limite, l’armonia assoluta. Si sprofonda in uno stato di estasi che traghetta oltre la propria individualità. Il senso di fusione con la spiritualità di lei è fortissimo. Sono attimi d’intensità sconvolgente. Gli aliti sono liquefatti in uno solo. Col mio sorriso sollevo il suo, come lei fa col mio. Gentilezza condivisa pura. Tenerezza, complicità, contiguità, tensione amorosa estrema: tutto in formato eterno. 

Altrettanto acuta è però, dopo, la delusione, nei momenti successivi, quando l’acme onirica è ormai scemata. Inutile tentare di richiamare l’archetipo a sé. Nel dormiveglia ormai semi-vigile, ho recitato, detto e ridetto mentalmente il nome e cognome del mio archetipo erotico, come un mantra extratemporale, per rievocarlo ancora per qualche istante, perché facesse ritorno fra i morbidi territori del mio sogno. 

Ma a quel punto non c’è niente da fare. Bisogna solo aspettare la prossima occasione, il prossimo capriccio del proprio archetipo erotico. Saranno stati mesi, che non mi veniva a trovare. Le sono molto grato per questa incursione e già attendo fiducioso una sua visita futura, pur senza sapere quando sarà. Il che forse è a sua volta una componente impagabile di tutto questo meccanismo dell’animo dagli ingranaggi molli.

martedì 17 febbraio 2015

2 - Fisica maccheronica – Le particelle ombrello, o della salamanza corpuscolare


Per la seconda lezione di fisica maccheronica parleremo oggi dell’illusorietà dello scorrere del tempo e della “conseguente-precedente” apparenza del movimento nello spazio. Come sappiamo, sia la lunghissima tradizione filosofica occidentale, sia quella orientale, si sono occupate ampiamente del tema dello spazio-tempo. Possiamo dire che esso rappresenti la questione fondamentale di ogni filosofia o visione del mondo e della vita, proprio perché in qualche modo è l’argomento che sta a monte di tutto il resto. Lo spazio-tempo è il contenitore di tutto ciò che è reale: se non si parte chiarendo la natura del contenitore, difficilmente si potrà iniziare a parlare del contenuto.

La questione è anche una delle più appassionanti e strane proposte dalla filosofia. Ci viene detto che una delle cose più evidenti, anzi di fatto la realtà costitutiva per eccellenza di tutto ciò che ci riguarda, ossia il tempo, in realtà non esiste. Come si spiega la bizzarria di questo affascinante paradosso?

Limitandomi a fare alcuni cenni solo alla tradizione filosofica di casa nostra (quella orientale non la conosco abbastanza per potermi esprimere), il primo nome che viene alla mente a tal proposito è quello di Parmenide. Fu lui ad inaugurare la lunga dissertazione intorno alla paradossalità del divenire. Il concetto del trascorrere del tempo, implica che una parte dell’essere passi dal nulla all’esistenza e ritorni poi ancora al nulla. Si capisce subito (o quasi) che questo, dal punto di vista filosofico, è un assurdo. L’«essere» non può che esser sempre stato. Dal “nulla” non può provenire “un qualcosa” (a meno ce non si introduca il discorso della “fede” in una creazione, ma lì si esce dalla giurisdizione del filosofare). Allo stesso modo, “un qualcosa” non può ritornare ad un presunto “nulla”. A rigor di puntiglio filosofico, dunque, l’essere è eterno e immutabile.

Come si fa allora a far quagliare (se mi è concesso tale raffinato tecnicismo filosofico) tutto questo con il divenire, con lo scorrere del tempo, che invece ci appare così assillante, concreto e manifesto? Tutta la storia della filosofia, dopo Parmenide, si è arrabattata nel cercare di indagare il gran mistero del tempo, facendone la sua questione cardine. A partire da Platone, per spiegare la cosa, si è fatto grosso modo leva su una sorta di illusorietà della dimensione spazio-temporale: il tempo scorrerebbe soltanto nell’ambito della nostra limitata possibilità di averne contezza, ma sotto sotto, sarebbe solamente l’involucro esterno di un’essenza di fatto eterna. Molto bello, al proposito, questo passo del “Timeo” platonico, citato da Umberto Galimberti sul suo “Psiche e techne” (Feltrinelli – 1999):

«…Essendo la natura Vivente eterna, non era possibile adattarla perfettamente a ciò che è generato. Allora il Padre generatore pensò di produrre un’immagine mobile dell’eternità e, mentre costituisce l’ordine del cielo, dell’eternità che permane nell’unità, fa un’immagine eterna che produce secondo il numero, che è appunto quella che noi abbiamo chiamato tempo […] l’“era” e il “sarà” sono forme generate del tempo, che non ci accorgiamo di riferire all’essere eterno in modo non corretto. Infatti diciamo che “era”, “è”, “sarà”; invece ad esso, secondo il vero ragionamento, solamente, l’“è” si addice…».

La parola chiave è qui “immagine mobile dell’eternità”: questo sarebbe il tempo, nella suggestiva formula di Platone.

Poi di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, sono venuti tanti altri pensatori, fra i quali soprattutto Kant, che ci ha spiegato come il tempo sia connaturato al nostro “apparato conoscitivo”. Vediamo il mondo in modalità “spazio-temporale”, perché la nostra coscienza, per così dire, indossa costantemente un paio di occhiali dotati di lenti “spazio-temporali”, e mai se li può levare.

Anche Schopenhauer, in seguito, mutuando un’immagine dalla sapienza indiana, ci ha spiegato che il Tutto reale, di fronte agli occhi della nostra consapevolezza, sta costantemente avvolto dal “velo di Maya”, ossia una cortina di illusorietà, in grado di farci vedere intorno a noi soltanto un continuo divenire.

L’argomento è stato insomma sviscerato e indagato a dovere, ma lo straniamento dell’uomo della strada, alla fin fine, rimane tutto: com’è possibile sostenere che tutto sia eterno, mentre noi facciamo quotidianamente i conti con secondi, minuti, ore, giorni e blandizie simili?

Il dipartimento di fisica maccheronica di Gillipixiland azzarda in merito una sua umile ipotesi. Come si concretizzerebbe dunque questa illusorietà del tempo che scorre e delle cose che si trasformano, se, come ci hanno spiegato sin dai tempi di Parmenide, non ha senso dire che una cosa passi dal nulla all’essere e viceversa? Stando a quanto congetturato da noi fisici maccheronici, la spiegazione andrebbe ricercata nelle cosiddette “particelle ombrello”, responsabili del fenomeno della “salamanza corpuscolare”.

Un esempio può essere utile per illustrare il concetto. Quando muoviamo una mano nell’aria, siamo sempre stati abituati a pensare gli atomi che compongono la mano, spostarsi dalla loro posizione originaria, e andare a occupare lo spazio prima fatto solo di atomi di aria. Il movimento (e insieme ad esso il tempo, giacché il movimento, e dunque il divenire, sono l’essenza dello spazio-tempo), lo abbiamo sempre spiegato come una porzione di atomi (esempio quelli della mano) che va a sostituire un’altra porzione (esempio quelli dell’aria), nello spazio. 

La fisica maccheronica introduce tuttavia l’idea di “particella ombrello”. Si tratta delle più infinitesime quantità di «essere» eterno, immobile e immutabile, le quali, quando avviene il movimento, non cambiano posizione, ma solamente aspetto. Tornando al nostro esempio: non sono gli atomi della mano che spostano quelli dell’aria. E’ invece l’immagine degli atomi d’aria che assume l’immagine di atomi della mano (e viceversa), mentre la loro essenza intima rimane sempre la medesima. Sarebbe dunque solo questione di cambiamento di immagine, ma tutto rimarrebbe di fatto fermo. Non è l’atomo della mano, che prende il posto di quello dell’aria: l’atomo della mano assume soltanto l’immagine di quello dell’aria (e viceversa), ma entrambi rimangono sempre se stessi.

Questi mattoncini di base dell’«essere» eterno sono stati denominati “particelle ombrello” sempre sulla base di una congettura maccheronica. Si pensa infatti che nell’atto di mutare d’immagine, per offrire l’illusione del movimento nello spazio (a cui consegue l’illusione dello scorrere temporale), le particelle posseggano la proprietà di cacciare fuori dal loro infinitesimale corpuscolo, un paio di braccine, le quali, proprio nell’istante della mutazione d’immagine, si profondono nel più classico gesto dell’ombrello. E siccome nella vulgata gillipixilndese, il gesto dell’ombrello è conosciuto anche con l’espressione “fare un salame”, in omaggio alla terra della fisica maccheronica, tale fenomeno è stato denominato in seconda battuta come “salamanza corpuscolare”.

Si conclude così anche questa lezione di fisica maccheronica, la fisica divertente per grandi e piccini, che pur non essendo vera, fa ritornare tutti un po’ bambini.

domenica 15 febbraio 2015

sabato 14 febbraio 2015

giovedì 12 febbraio 2015

Bang ultra-passerottici



Conoscevo un tipo che di mestiere faceva il tangentista. Disegnava tangenti, non è che le pagasse o le riscuotesse. Questo mio amico aveva messo su un piccolo laboratorio in centro città, il “Cream-Tangerine”. Chi si ritrovava in casa, per dire, una circonferenza, o un ellissi, o una parabola, e avesse avuto bisogno di tracciarvi accanto una tangente, non doveva fare altro che andare al “Cream-Tangerine” e farsela disegnare. La sua specialità erano le tangenti alle sfere e le duplici tangenti iperboliche in confezione regalo.

Il mio amico si vergognava un po’ a svolgere una professione dall’aura così altisonante negli ambienti che contano («…il tangentista!…») e ad essere nel frattempo così onesto (i suoi prezzi erano tra l’altro davvero modici). Allora, per mettersi a posto la coscienza, aveva preso l’abitudine di risolvere le parole crociate andando a sbirciare tutto su google. In questo modo si sentiva più sereno: praticava sì una forma di slealtà, ma la più gratuita ed innocua che si fosse mai vista, potendo continuare nel frattempo a portare alto il nome dei tangentisti dall’indole geometrica e non pecuniaria.

Sono famose poi le bombette di piume. Beh, famose…parliamone. Il fenomeno si verifica di rado, ma quelle poche volte, non passa inosservato. Si sente un improvviso boato contro i vetri della finestra, SBANG!!!, si sobbalza sulla sedia mentre il proprio subconscio, con una rapidità che va molto al di sotto della soglia di attenzione, si domanda: «…E che miiinchia è?!?!?…». Novantanove volte su cento è un uccellino un po’ rimbambito che non conosce l’esistenza di un materiale chiamato “vetro” o forse non ha ben chiaro il concetto di impenetrabilità dei corpi, anche nei casi di trasparenza conclamata.

Quasi mai si riesce a sapere che tipo di uccellino fosse. Il più delle volte rimane solo il ricordo di quel piccolo botto senza causa, o al massimo c’è un segno non meglio identificato sopra al vetro, una specie di sgommatina gentile. Solo di rado capita invece di rinvenire sul luogo del misfatto rumoroso, una qualche traccia. Possono essere anche otto piume otto, di numero, minuscole, sul davanzale.


Il mistero intorno all’identità del mini-volatile rimane, ma a quel punto si può anche essere colti dall’impellente necessità di correre ad attaccarsi a internet, per raccontare di amici immaginari che facevano mestieri inesistenti, cercando di compensare l’insoddisfazione calata nell’animo a causa dello shock da anonimato sonoro appena subito.

Ma robe da nutria! "Stile fatalibero"

 
 
 

martedì 10 febbraio 2015

domenica 8 febbraio 2015

1 - Fisica maccheronica - Il principio di infondatezza di Gillipixelberg


Inizia oggi un ciclo di lezioni di “Fisica maccheronica narrativamente dimostrata”. Questo ciclo, non so ancora quante ruote avrà. Magari solamente questa qui di oggi, riducendosi dunque a un monociclo. Ad ogni modo, si vedrà.

La fisica maccheronica ha poco o nulla a che vedere con la fisica scientificamente dimostrata. Per cui, come nella migliore tradizione dei programmi tv più pericolosi, prima d’iniziare è d’obbligo un avvertimento: non provateci a casa, potreste andare incontro a cocenti delusioni, scompensi psichici, allucinazioni, gomito del tennista, occhio di pernice, salto della quaglia, abbacchio a scottadito, risi, bisi e crisi.

L’argomento che illustro in questa prima lezione è il “Principio d’infondatezza di Gillipixelberg”, anche noto come “Relazione gillipixonica universale”. Tutti sanno che la materia di cui l’universo è costituito si compone di particelle infinitamente piccole. Da principio, i Greci le chiamarono atomi, ossia “indivisibili”. Si pensava infatti che sotto una data dimensione non si potesse scendere: erano quelli i mattoncini di base del Tutto. In epoca moderna s’è scoperto che non era vero. C’erano particelle più piccole: elettroni, protoni, neutroni, e poi quark, neutrini, bosoni e così via. 

Attualmente la corsa a setacciare la forma di puntino materico più minuscolo dell’universo è ancora in pieno svolgimento. Ma vi posso già preannunciare come andrà a finire: si scoprirà che la particella più piccola è il Gillipixone. Al che, uno scettico a tempo debito si domanderà: va beh, ma se divido in due un Gillipixone, cosa ottengo? Semplice: niente. O anche, come si usa dire nell’ambiente di noi fisici maccheronici: una stralodata fava, una benemerita cippa, una supersonica minchia.

Infatti il Gillipixone vale per me che mi chiamo Gillipixel. Per chi si chiama Paolo, la particella infinitesimale invalicabile sarà il “Paolone”. Per Roberta, sarà il Robertone. Per Gigi, il Gigione. E via dicendo. In pratica, l’«one» personale di pertinenza individuale, è costituito dal quanto minimale di coscienza di sé. L’infinitesima parte del nostro essere che riusciamo a concepire: è quello il mattoncino più piccolo del Tutto. Scendendo al di sotto, niente ha più senso, perché non ci siamo più noi. Se non ci sono io, per me non c’è percezione di nulla, quindi nulla esiste più. Ecco dunque che al di sotto del Gillipixone, personalmente non posso andare. E lo stesso discorso è dimostrabile per ogni coscienza.

Tuttavia, ai fini della presente trattazione, per comodità espositiva, continueremo a chiamare “atomo” una porzione sufficientemente piccola della “materia universale”. Prendiamo il caso di due atomi del nostro piede: essi sono in relazione fra loro. Una forma di “energia di connessione significante” tiene in comunicazione questi due atomi e fa in modo che, nel loro piccolo di competenza, essi contribuiscano a dare realtà a quell’ente conosciuto come “piede”. Pensiamo ora sempre ad un atomo del piede, ma mettiamolo in relazione stavolta con uno della testa. Anche qui ci sarà un flusso di “energia significante” intercorrente fra i due. Seppur più flebile, esisterà in ogni caso: insieme quei due atomi collaboreranno nel definire il significato dell’ente chiamato “corpo” o “persona” a cui quel piede e quella testa appartengono. Portando poi il ragionamento alle sue possibilità ultime, immaginiamo adesso sempre due atomi, ma posizionati stavolta rispettivamente ai due capi opposti dell’universo (ammesso che l’universo abbia estremi, ma diciamo due punti remotissimi): il flusso di “energia significante” che mette in comunicazione questi due atomi, sarà in questo caso nullo? Ma assolutamente no! Per quanto infinitamente e quasi inconcepibilmente piccolo, ci sarà pur sempre un filo di significato che tiene insieme quei due atomi agli antipodi universali, altrimenti verrebbe meno il concetto stesso di universo.

Ecco dunque dimostrato il “Principio di infondatezza di Gillipixelberg”. I singoli enti della realtà così come sono comunemente intesi (per esempio: un cavallo, un parlamentare, una bella donna, l’aliquota dell’IRPEF, i peli delle ascelle, l’alito cattivo, e così via) hanno un significato di comodo dettato dalla nostra limitatezza percettiva e concettuale. Sono soltanto circoscrizioni, raccoglimenti ai fini pratici, di atomi. In altre parole, i singoli enti della realtà sono infondati. O per meglio dire, non sono più fondati di tanti altri che potremmo ipotizzare.

Ne deriva che il principio apre grandi prospettive non solo a livello della fisica maccheronica, ma anche sul piano sociale, dell’autostima universale, della considerazione di sé e del “ri-apprezzamento identitario post-individuale”. Si dia infatti l’esempio del tipico sfigato medio: la sua posizione di “ente limitato dalla sfiga”, viene riveduta e rivalutata in grande stile, se solo si pensa che qualche atomo del suo essere è in inevitabile (seppur molto fioca e lontana) “connessione significante” con qualche atomo del corpo e della personalità di Salma Hayek o di Naomi Campbell. Altrettanto dicasi per il caso di un individuo che per i motivi più vari (vuoi pigrizia, vuoi scarsità di mezzi, vuoi altre cose) ambirebbe a viaggiare, ma non lo fa: ecco che una manciata di atomi della sua mente sono indissolubilmente saldati, nel “flusso significativo” che li connette, con gli atomi dei granelli di sabbia di una spiaggia alle Maldive, o con quelli di una trave della Torre Eiffel, o degli spruzzi delle cascate del Niagara. Frantumando gli enti tradizionali e riedificandone di nuovi, derivati da combinazioni inedite di atomi nell’universo, si spariglia il “Tutto Significativo” in aggiornate e più sfolgoranti determinazioni concettuali e di elementi della realtà mai pensati in precedenza.

Prima di concludere, per completare il “Principio di infondatezza di Gillipixelberg”, manca solo un piccolo tassello: la relativa formula. Se indichiamo con U l’insieme degli atomi dell’universo e con F la “costante di forza frantumatrice concettuale globale”, otteniamo la seguente espressione:

U∙F = Fa

dove Fa sta per “Frazionamento dell’anonimato”. 

E per oggi, con le lezioni di fisica maccheronica è tutto. 


sabato 7 febbraio 2015

A caper in the trees


Un attimo. Un momento. Un istante. Un baleno. Un lampo. Un batter di ciglia. 

Un niente.

Ecco cosa sono tutte queste cose. Non sono nulla, fuorché mattoncini impastati nel materiale del ricordo. Provate ad afferrare un momento: ciò che vi rimane in mano sono soltanto immagini più o meno vivide nella memoria. Il grande mistero della vita si riassume in una serie di goffi tentativi di afferrare una sequela di nulla. Cosa rimane di noi, al fondo di questo paradossale “acchiappa-acchiappa”? 

E’ nulla il tuffo al cuore che ci dona un meraviglioso passaggio letto sulla pagina d’un libro. E’ nulla il culmine spasmodico del gesto amoroso. E’ nulla quel particolare, provvisorio sorriso della persona a cui vogliamo bene. E’ nulla la grande giocata del campione prediletto. E’ nulla ogni alba, così com’è nullo ciascun tramonto.

Ma si tratta di tipi di nulla ai quali nessuno vorrebbe rinunciare, perché sono tutto ciò che abbiamo. 

C’è una poesia di Emily Dickinson che mi è sempre stata molto cara (ne parlai già in alte occasioni). Nei suoi pochi versi, sono riassunte come meglio non si potrebbe tutte queste impressioni stuporose, che di continuo spendiamo di fronte alla pesante spensieratezza della nullità universale in cui siamo immersi. Ve la riporto, seguita da una mia liberissima traduzione:

A sepal, petal, and a thorn
Upon a common summer’s morn –
A flask of dew –
A bee or two –
A breeze – a caper in the trees –
And I’m a rose!

Un sepalo, petalo, e una spina
D’estate, una comune mattina –
Un fiasco di rugiada –
Un'ape o un’accoppiata – 
Una brezza – fra gli alberi un frullo –
E della rosa vesto il mantello.

Tutte queste riflessioni con ciliegina poetica, mi sono state suggerite da un paio di scatti che sono riuscito a cogliere dalla finestra, appena dopo la grassa nevicata. L’eccesso di biancore piovuto giù, deve aver sfrattato gli uccellini dalle loro usuali dimore. In giardino, mi sono così ritrovato un “precipitio” svolazzante di pallette piumose un po’ allarmate e un po’ festose. Sono giunti anche esemplari mai visti. La distanza non mi ha concesso di fare foto migliori, ma tra di loro, ho adocchiato un piccoletto “balzelloso”. 

Ho puntato l’obiettivo e ho fatto più scatti possibili: non dava tanto l’impressione di volersi fermare a lungo, e tanto meno di mettersi in posa. Dapprima ha gironzolato curiosando accanto al piede della magnolia:

Ha sbirciato l’orizzonte più in là:

Ha fatto dietro front come un soldatino impettito:

Ancora pochi secondi, un bel “caper in the trees”, e (a parte che qui siamo in inverno) era già scappato via:



venerdì 6 febbraio 2015

lunedì 2 febbraio 2015